il manifesto 27.10.17
Un atto politico e di libertà
di Norma Rangeri
Resta
presidente del senato per quel poco tempo che ci separa dallo
scioglimento delle camere, ma si dimette dal Pd perché evidentemente
mettere la faccia su questa ingloriosa pagina parlamentare è stato un
prezzo troppo alto da pagare. E forse un partito così ridotto gli fa
anche un po’ schifo.
Pietro Grasso, ha risposto con forza a chi,
come i 5Stelle e Sinistra italiana, gli chiedeva di dimettersi piuttosto
che ammettere i voti di fiducia. Ha replicato, si è difeso («può essere
più duro resistere che abbandonare con una fuga vigliacca»), ma non ha
potuto evitare che gli schizzi di una maionese impazzita gli arrivassero
addosso. E’ una scelta dignitosa che va apprezzata, un gesto coerente
per chi, come lui, recentemente si era definito «un ragazzo di
sinistra».
Vedremo quali saranno le sue determinazioni. Ma
qualunque sarà il futuro politico dell’ex magistrato (che ha rifiutato
la candidatura per la Sicilia), queste dimissioni segnano una distanza
dal pantano del Nazareno e indicano una libertà personale.
Molti
deputati e senatori hanno votato questa pessima legge elettorale perché i
pochi mesi che mancano alle elezioni suggeriscono più miti consigli a
chi vuole essere rieletto. Pochi tra i rappresentanti del popolo hanno
avuto la dignità di esprimere il loro no in aula, criticando il metodo
prima ancora che la sostanza. Non hanno votato la fiducia in dissenso
dal Pd, mentre chi ne era già fuori è uscito dalla maggioranza.
Singole
personalità, come Giorgio Napolitano, pur votando la fiducia, hanno
pronunciato discorsi di aperta polemica contro le indebite pressioni sul
governo, per l’inaccettabile condizione di essere al tempo stesso
chiamati a votare una delle leggi più politiche della legislatura senza
avere tuttavia neppure il diritto di discuterla e di emendarla.
Altri
ancora, ed è questo il caso del presidente del senato, Pietro Grasso,
hanno affrontato il passaggio parlamentare mettendoci la faccia, subendo
il duro giudizio dei senatori contrari alla legge, e si è visto ridotto
al ruolo più del vigile urbano che dell’arbitro, destinatario di
insulti e contumelie, fatto oggetto di un metaforico lancio di ortaggi
sulla seconda carica della Repubblica, spinto sul palcoscenico di una
rappresentazione politica con i toni della sceneggiata.
Le
istituzioni escono dal tunnel della legge elettorale come protagoniste
piuttosto ammaccate di un brutto spettacolo, testimonianza dello stato
comatoso in cui versa il nostro sistema democratico. Che ormai si
esprime con forzature successive e sempre più laceranti nelle
conseguenze che produce tra eletti e elettori. La sberla del referendum
costituzionale non sembra aver insegnato nulla. Lo spettacolo della
fitta sequenza di voti di fiducia, inversamente proporzionale sia alla
caratura della legge che hanno prodotto, sia alla credibilità del
governo che l’ha imposta, lasciano sul terreno, politico e
istituzionale, altre macerie.
Un giovane leader in disgrazia e un
vecchio leader riciclato hanno scritto una pessima sceneggiatura
mandando in scena uno schema elettorale utile a cementare le proprie
alleanze, riottose ma tenute insieme con la camicia di forza imposta dal
Pd al governo in nome e per conto delle future spartizioni. E pazienza
se c’è una forza che rischia di essere il primo partito italiano che,
proprio per questo, viene tagliato fuori perché non fa alleanze.
Una volta raggiunto l’accordo trovare il modo di silenziare il parlamento non è stato un problema.
Renzi conquista Verdini e perde Grasso. Una conclusione che esprime perfettamente la deriva di un uomo solo allo sbando.