il manifesto 26.10.17
Deportazioni con il trucco
Israele.
Il premier Netanyahu ha trovato il modo per aggirare la sentenza della
Corte Suprema che vieta le espulsioni degli africani richiedenti asilo
senza il consenso dei Paesi di destinazione. La stampa scrive che ha
convinto Ruanda e Uganda ad accoglierli in cambio di aiuti economici
di Michele Giorgio
GERUSALEMME
«Israele agli israeliani, la città ai suoi abitanti». Sheffi Paz,
leader del “Fronte di liberazione del sud di Tel Aviv” dalla presenza
degli africani richiedendi asilo, ad ogni manifestazione di protesta
urla questo slogan dentro il suo megafono. Una ventina di anni fa Paz
era una pacifista, ora invece ripete che Israele «deve liberarsi dagli
infiltrati, deve liberarsi da un pericolo che mette a rischio la sua
esistenza e il suo carattere ebraico». Le sue parole hanno istigato
migliaia di israeliani – quasi sempre a basso reddito, disoccupati o
poveri – a scagliarsi contro eritrei e i sudanesi che fino a qualche
tempo fa popolavano Neve Shaanan, Tikva e Shapira, i quartieri più
miseri della città costiera israeliana. Oggi gli africani si vedono poco
in giro, si nascondono. Temono le manifestazioni di rabbia organizzate
da Paz e dalla sua giovane compagna di lotte, May Golan, una che davanti
alle telecamere non esita a definirsi «razzista».
D’altronde un
paio di mesi fa è stato lo stesso premier Netanyahu a legittimare la
rabbia degli israeliani poveri contro i “mistanenim“, gli “infiltrati”,
come il governo e la destra chiamano i migranti e i richiedenti asilo.
«Molti di loro non sono rifugiati, è gente che cerca soltanto lavoro. Il
governo restituirà i quartieri ai suoi residenti israeliani», promise
il primo ministro durante un tour a sud di Tel Aviv con i ministri della
pubblica sicurezza Gilad Erdan e della cultura Miri Regev. Un siluro
lanciato contro la giudice della Corte Suprema, Miriam Naor, che si era
pronunciata contro la detenzione oltre i 12 mesi degli africani
clandestini e contro la loro espulsione con la forza verso i Paesi
africani che si erano detti disposti ad accoglierli, in cambio di aiuti
economici israeliani. Netanyahu ora crede di aver trovato la strada per
aggirare quella sentenza.
I media legati alla destra e al governo
ieri davano alta la notizia della soluzione trovata da Netanyahu per
rimpatriare subito i richiedenti asilo, evitando i tempi lunghi della
Knesset necessari per modificare la legge approvata nel 2014 volta a
ridurre drasticamente il numero dei clandestini, stimato in 50.000.
Sulla base di quella legge agli africani giunti dall’Eritrea, il Sudan e
la Somalia, sono offerti 3.500 dollari in contanti se accettano di
lasciare Israele volontariamente. Coloro che rifiutano invece sono
detenuti nel centro di Holot nel sud di Israele, una sorta di prigione
“aperta”. Sino ad oggi in 15.000 hanno lasciato Israele. Il governo da
parte sua ha provato a deportare subito gli stranieri che rifiutano di
lasciare volontariamente il Paese. Ma la giudice Naor e altri membri
della Corte Suprema però si sono opposti ribadendo che potranno partire
solo per i Paesi che accettano i migranti che lasciano volontariamente
Israele. I giudici inoltre hanno stabilito che gli africani a Holot non
potranno essere detenuti per più di dodici mesi.
Così non
potendola ottenere in patria, Netanyahu la soluzione l’ha trovata a New
York, nei giorni di settembre spesi all’Assemblea generale delle Nazioni
Unite. Il primo ministro, spiega l’agenzia di stampa dei coloni
israeliani Arutz 7, ha rinegoziato con i leader africani (di Uganda e
Ruanda) i termini dell’accordo di tre anni, in modo da consentire a
Israele di deportare con la forza gli infiltrati. In sostanza, aggiunge
da parte sua il giornale Yisrael HaYom, molto vicino a Netanyahu, in
cambio di aiuti economici, i Paesi africani coinvolti si sono detti
pronti ad accogliere quei migranti che rifiutano di lasciare
volontariamente Israele. In questo modo è superato il divieto legale
alle deportazioni con la forza per chi ora è a Holot. Nel frattempo
Israele continua a costruire e a rendere impenetrabile la barriera
eretta lungo il confine con l’Egitto che ha già ridotto drasticamente il
numero degli “infiltrati” che attraversano il Sinai egiziano per
raggiungere la porta sud di Israele.
«Non me ne vado, farò di
tutto per rimanere qui. Se torno indietro mi ammazzano», ci dice al
telefono Abdul, un giovane sudanese entrato clandestinamente in Israele
tre anni fa e ora nascosto in un appartamento a Tel Aviv. «Non ho alcuna
assistenza medica e per mangiare sono costretto a lavorare a nero. Ma
so di avere diritto all’asilo politico, me lo spiegano proprio i miei
amici israeliani», aggiunge. Una speranza e nulla più. Tra il 2009 e il
2015, riferisce il quotidiano Haaretz, i richiedenti africani hanno
presentato alle autorità 3.165 domande di asilo. Sino ad oggi Israele ha
accolto meno del 2% delle richieste. Per chi aveva creduto di trovare
nello Stato ebraico un futuro migliore e una protezione dagli abusi
subiti nel proprio Paese, il destino è un aereo diretto in Africa. Un
viaggio di sola andata.