il manifesto 26.10.17
L’antropologa che studiava le forme della politica
Ritratti.
Addio a Amalia Signorelli. L'allieva di De Martino che analizzò la
cultura di massa e le migrazioni è morta a Roma all'età di 83 anni
di Fabio Dei
Negli
ultimi anni, molti hanno conosciuto Amalia Signorelli soprattutto per
le sue frequenti apparizioni televisive, come commentatrice in popolari
talk show politici (Ballarò, Otto e mezzo e altri).
Si era
costruita un’immagine efficace di opinionista colta e al di sopra delle
parti, ma sempre pronta ad esercitare una critica razionale e
inflessibile verso l’arroganza del potere. Aveva difeso la dignità delle
donne contro Berlusconi, quella dei lavoratori contro Renzi, ma senza
conceder nulla a quel tono di superiorità morale che rende spesso così
indigeribili al grande pubblico gli intellettuali di sinistra. Lei si
divertiva molto in queste esperienze di rapporto con il mondo dei media,
tanto diverso da quello della ricerca e dell’insegnamento
universitario.
RIUSCIVA, del resto, a portare in televisione senza
banalizzarlo lo spirito critico che contraddistingue la sua disciplina
di studi, l’antropologia culturale: la capacità di guardare cose che ci
sono fin troppo familiari e scontate da lontano, e sotto una nuova luce.
Proprio ciò che serve, spesso, per dare significato a un dibattito
politico angusto e soffocante.
Nata nel 1934, Amalia Signorelli si
era formata a Roma negli anni ’50 con Ernesto De Martino, le cui
lezioni descrive come «una sorta di epifania che svelava possibilità
allora ignote della vita della mente», e dalle quali deriva
un’inclinazione, quasi una vocazione, che non è mai venuta meno
nell’arco di un’esistenza. È la vocazione per l’antropologia e per la
ricerca etnografica, che inizia con la tesi di laurea dedicata al paese
lucano di San Cataldo, e si perfeziona con la partecipazione nel 1959 a
una mitica spedizione etnografica: quella guidata dallo stesso De
Martino nel Salento per documentare il complesso mitico-rituale del
tarantismo, da cui scaturirà il classico per eccellenza
dell’antropologia italiana, La terra del rimorso.
PER QUANTO
FOLGORATA da De Martino, Signorelli non farà però parte negli anni
successivi del suo entourage più stretto: un rapporto forte con questo
autore riemerge semmai nell’ultima parte della sua carriera, quando cura
la pubblicazione dei materiali della spedizione salentina (Etnografia
del tarantismo pugliese, edizioni Argo, 2011) e dedica un intero volume
alla ricostruzione del pensiero demartiniano (Ernesto De Martino: Teoria
critica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro, 2015).
MA
NEGLI ANNI ’60 le strade intraprese da Amalia Signorelli vanno in
direzioni diverse: sia biograficamente (si sposa, va a vivere a Cosenza e
ha tre figli, abbandonando quindi momentaneamente la frequentazione
degli ambienti accademici), sia scientificamente. Si accosta, infatti, a
interessi e tematiche per certi versi opposte a quelle di De Martino:
non le culture popolari tradizionali e magiche del Sud, ma i processi di
trasformazione sociale e le forme della politica e della cultura di
massa nell’Italia contemporanea. Già nel 1958 era stata – giovanissima –
tra i firmatari di un Memorandum (con Tentori e Seppilli, fra gli
altri) che rivendicava il ruolo centrale dell’antropologia culturale per
la comprensione del presente nella sua dimensione globale: invitando a
occuparsi un po’ meno del folklore contadino e un po’ di più della
decolonizzazione e dei conflitti sociali. Negli anni ’60 insegna fra
l’altro a Roma, alla scuola per la formazione degli assistenti sociali
(Cepas). Torna poi nell’università dall’inizio degli anni ’70: insegna
prima ad Urbino, a Roma La Sapienza ma soprattutto – fino al
pensionamento – alla Federico II di Napoli.
È IN QUESTO PERIODO
che si colloca la sua produzione scientifica più matura. I temi di
ricerca che segue più sistematicamente sono l’antropologia della città
(pubblica fra l’altro Antropologia urbana, Guerini, 1996), quella delle
migrazioni (Migrazioni e incontri etnografici, Sellerio, 2006), e
l’analisi delle forme del potere e del clientelismo nel Mezzogiorno (Chi
può e chi aspetta, Liguori, 1983).
VA ANCHE RICORDATO che Amalia
Signorelli è stata la prima antropologa in Italia a occuparsi del tema
della cultura di massa e dei modi in cui essa modifica la classica
visione gramsciana del folklore come cultura delle classi subalterne. In
fondo, la sua seconda carriera televisiva non è stata poi così casuale
come lei stessa amava far credere.
Le metamorfosi mediali del
potere e le trasformazioni antropologiche da esso indotte sono il filo
rosso che per lei univa ricerca scientifica e divulgazione. Con la rara
capacità, su entrambi i terreni, di parlare in modo chiaro e a tutti.