il manifesto 26.10.17
Lutero, un’eredità nel sociale
Lucas Cranach, «Martin Lutero», 1529
di Alberto Corsani
Nel
1917, a 400 anni dalle 95 Tesi di Lutero, varie chiese sorte dalla
Riforma si trovarono di fronte a un problema: sentirsi unite da una
celebrazione che era motivo di coesione identitaria o prendere atto del
fatto che i loro Paesi erano nel bel mezzo di una guerra mondiale?
Accettare l’eredità del monaco agostiniano, che fece da cerniera tra il
tardo Medioevo e la modernità, o adeguarsi alla politica drammatica di
guerra che poneva come prima esigenza quella di combattere il nemico?
Per la prima volta, forse, le chiese luterane degli Stati Uniti si
sentirono pienamente americane, nonostante la filiazione diretta dalle
«chiese sorelle» di Germania. E che dire dei protestanti che in Europa
videro i propri territori occupati dalla Germania nazista? Puoi
condividere la stessa fede in Dio con coloro che stai combattendo?
FARE
I CONTI, oggi, con cinque secoli di Riforma protestante comprende anche
questa presa d’atto: per quanto il messaggio della fede in Gesù Cristo
sia universale e rivolto all’umanità intera, la famiglia protestante nel
mondo, rispetto alla chiesa cattolica romana si vede frazionata, anche
se chiunque, a qualunque latitudine può sentirsi partecipe di una
comunità cristiana; certo, riunirsi nell’alveo di una chiesa significa
pur sempre fare i conti con la dimensione terrena dell’esistenza,
dimensione ben lontana dall’essere perfetta; ma d’altra parte nessuna
chiesa, nella visione protestante, può pensare di essere l’unica. E
infatti quelle nate dalla Riforma hanno anche una identità nazionale, a
partire dai valdesi, diffusi come movimento già tre secoli prima di
Lutero.
Il concilio di Trento nella chiesa di santa Maria Maggiore
La
consapevolezza dei propri limiti caratterizza l’essere protestante: una
cognizione di sé che trova il suo naturale sbocco nel radicamento
sociale. Se questo per i valdesi si tradusse nella difesa strenua della
propria terra di montagna, per tutti tale atteggiamento significò e
significa tuttora inserirsi nella società e spendere nella comunità
civile la personale risposta alla chiamata (vocazione) ricevuta da parte
di Dio, attuando opere mirabili, ma anche nefandezze come il regime
sudafricano dell’apartheid, che bestemmiò la dottrina calvinista.
Tuttavia
alle infezioni si possono opporre degli anticorpi: è quanto avvenne
quando l’Alleanza riformata mondiale (oggi Comunione mondiale di Chiese
riformate – ramo calvinista della Riforma) sospese negli anni ottanta
due chiese sudafricane di origine olandese, per il sostegno dato al
regime razzista; persasene una per strada, l’altra è stata riammessa
avendo condannato le proprie posizioni.
Ognuno di noi – a partire
dalla definizione di Lutero – è simul iustus et peccator, a un tempo
reso giusto da Dio e però pur sempre umano e incline al peccato.
INTORNO
A QUESTA dialettica tra universalità e radicamento si sono sviluppate
anche le iniziative del 500/mo anniversario, cominciate invero il 31
ottobre 2016 nella cattedrale luterana di Lund in Svezia, con la
partecipazione di papa Bergoglio a significare un’auspicata nuova
stagione di rapporti fra cattolicesimo e chiese nate dalla Riforma. La
sua presenza presso la «famiglia luterana mondiale», pur ponendo
problemi a qualche oppositore in casa cattolica, che vedono la Chiesa di
Roma «protestantizzarsi», ha fatto capire come vi siano le condizioni
per avviare una lettura il più possibile condivisa del passato.
UNO
SGUARDO NUOVO per una comprensione nuova, come testimoniato dal bel
convegno organizzato nel novembre scorso dalla Conferenza episcopale e
dalle chiese evangeliche, proprio nella Trento che fu sede del Concilio,
da parte di chiese che hanno un problema in comune: parrocchie
cattoliche e chiese del protestantesimo storico si vanno svuotando,
sotto l’influsso incrociato di secolarizzazione e progresso scientifico.
LA
NATURALE TENDENZA protestante alla coscienza critica (per secoli
rubricata alla voce «individualismo protestante») finisce per esporre le
chiese della Riforma a un’autocritica serrata, non avvistata per ora
all’orizzonte di altre formazioni neo-protestanti (evangelical) che
vedono aumentare i fedeli e le presenze ai servizi liturgici, sia in
Asia e Africa sia in paesi come il nostro, che accolgono (quando lo
fanno) immigrati evangelici di provenienza terzomondiale.
Vi sono
anche altri ambiti in cui le chiese nate dalla Riforma si affacciano e
dialogano con la Chiesa cattolica (e in parte anche con il mondo
ortodosso). Bene avviati ormai da decenni gli studi teologici comuni con
le Università cattoliche e le traduzioni e studi filologici sulla
Bibbia, sono sotto gli occhi di tutti le sinergie nei settori di
accoglienza e assistenza, come testimoniato dai «corridoi umanitari» per
richiedenti asilo, avviati nel marzo 2016 dalla Federazione delle
chiese evangeliche in Italia con la Comunità di S. Egidio e la Tavola
valdese, attraverso un protocollo siglato con i ministeri dell’Interno e
degli Esteri, modello ripreso nel corso dell’estate dai protestanti
francesi.
LE NOTE DOLENTI si situano a un livello più
ecclesiologico che teologico: la strutturazione gerarchica della Chiesa
cattolica, nonostante l’opera pluridecennale di alcuni ambiti di
avanguardia (per esempio nel campo dei matrimoni interconfessionali), le
rende difficile pensare alle altre chiese come sullo stesso piano
rispetto a lei. E poi è il piano etico quello che fa più parlare di sé.
Il
carattere più normativo che dialogante della Chiesa di Roma è respinto
in quanto «impositivo» da parte della cultura laica: procreazione
assistita, fine-vita, eutanasia e suicidio assistito, etica sessuale, a
fronte di posizioni abbastanza rigide da parte cattolica, fanno
registrare una tendenza delle chiese protestanti a puntare molto
sull’autonomia e sulla coscienza dell’individuo, in linea con la
consuetudine del libero accesso al fondamento della vita cristiana, cioè
le Scritture bibliche, sede della rivelazione di Dio all’umanità.
Capita però che il mondo non-cattolico in Italia interpreti questa
accentuazione di libertà dell’individuo spingendolo «oltre».
IL
CREDENTE PROTESTANTE è infatti sì libero, ma «libero per servire», cioè
per servire, amandolo, il proprio prossimo (Epistola ai Galati 5, 13): e
questo avviene con la cura dei propri simili, all’interno della società
e non ai margini di essa; inoltre, è nella società e nella politica che
si spende l’esistenza del o della credente protestante, alle prese con
la propria coscienza e consapevole di non rappresentare un’intera
chiesa.
Alla base di questo atteggiamento, però, è la convinzione
che questa libertà non è frutto di nostre conquiste, ma ci è stata data.
Più che libero o libera, il (la) protestante sa di essere stato «reso
libero», e di questo è grato o grata a Dio. Essere stati resi liberi
significa sapere che di questa autonomia un giorno saremo chiamati a
rispondere a chi l’ha donata gratuitamente. Ogni risultato è
provvisorio, come lo è questo anno di celebrazioni, da intendersi come
nuova, ulteriore ripartenza.