il manifesto 26.10.17
Governo Rosatellum
Legge
elettorale. Senza maggioranza, ma con cinque fiducie. Gentiloni si salva
al senato grazie ai dissidenti Pd che non affondano il colpo e ai
senatori di Verdini (e alla fine arriva anche il soccorso di Calderoli).
Napolitano attacca la riforma e la decisione di Renzi di strappare -
"sul presidente del Consiglio pressioni fortissime" - ma invita a
salvare l'esecutivo. In aula tanta tattica, proteste, gestacci e una
rissa sfiorata
di Andrea Fabozzi
I numeri dicono
che il governo Gentiloni non ha la fiducia del senato. Alle sei di ieri
sera nell’ultima votazione sulla legge elettorale è sceso fino a 145
voti, ai quali vanno tolti i 13 dei verdiniani che non sono formalmente
in maggioranza. Ma che nei nei momenti drammatici, come questo sul
Rosatellum, scattano in soccorso. La sostanza è però un’altra: la
riforma elettorale, la seconda in questa legislatura, è cosa fatta (oggi
il via libera definitivo). «Siamo sicuri che possa reggere a lungo?» è
la domanda che ha rivolto all’aula Giorgio Napolitano. La sua risposta
evidentemente è no.
In una pausa dei lavori d’aula, il senatore
Calderoli spiega di condividere la preoccupazione: «Anche di questa
legge si occuperà la Corte costituzionale». Autore della prima riforma
elettorale bocciata dalla Consulta – il celebre Porcellum – non ha
smesso di detestare politicamente l’ex capo dello stato, ma è l’unico
leghista seduto al suo posto quando Napolitano interviene. L’aula ha un
raro momento di silenzio, il presidente emerito – 92 anni – parla da
seduto: per lui una lampada speciale, un bicchiere d’acqua, fazzoletti e
una lente d’ingrandimento. Il testo del discorso è scritto in caratteri
molto grandi, le parole di critica sono molto forti ma controllate
negli effetti. «Gentiloni è stato soggetto a forti pressioni, mi
rammarico della decisione di porre la fiducia ma lo sostengo». Per il
presidente che accompagnò Renzi durante tutte le forzature su Italicum e
riforma costituzionale nessuna autocritica: il problema della «drastica
compressione dei diritti e del ruolo dell’istituzione e dei singoli
parlamentari» è una questione «delle ultime settimane». L’ex capo dello
stato si preoccupa di non mettere in imbarazzo l’attuale, che presto
dovrà promulgare la legge. Lo cita, eppure demolisce la persistenza nel
Rosatellum della figura del capo della forza politica che «adombra
un’elezione diretta del capo del governo». E giustamente corregge tante
chiacchiere: «Non è mai stata affrontata di fronte alla Consulta
l’obiezione di incostituzionalità sulla fiducia» per le leggi
elettorali. Come dire: succederà.
Nel frattempo le fiducie
scivolano via una dopo l’altra, grazie all’articolato sistema di
protezione messo in piedi da Pd, Lega e Forza Italia. Per ogni votazione
abbassano il numero legale una quarantina di senatori in congedo
(malati) o in missione: la metà sono forzisti e leghisti che hanno
l’alibi dei lavori della neonata commissione sulle banche, l’unica
autorizzata a convocarsi anche durante le fiducie. In questo modo
aiutano la maggioranza a tenere basso il numero legale che resta fissato
a 143 senatori. Aiuta anche la decisione di sette senatori dissidenti
Pd (Chiti, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ruta, Tocci e Turano),
diventati nove nell’ultima votazione (con l’aggiunta di Longo e
Giacobbe), di dissentire senza sabotare: sfilano sotto la presidenza
segnalando la loro presenza in aula (e quindi contribuendo al numero
legale) ma l’intenzione di non votare. Serve anche il definitivo approdo
alla maggioranza di tre senatori ex Si e M5S (Stefano, Uras e
Orellana). Ma più di tutti contribuisce la scelta dei verdiniani di
votare sempre la fiducia: su 14 senatori di Ala 13 votano sì e uno è in
congedo. Senza il gruppo Verdini e la «fazione Chiti» il numero legale
sarebbe mancato ad ogni votazione. Salvo che nell’ultima – la quinta
fiducia – quando è arrivato anche il soccorso di otto senatori leghisti e
sei forzisti (tra i quali l’eterno Scilipoti) comandati in aula a
votare no da Calderoli, messo in allarme dalla decisione di M5S,
Sinistra italiana e Mdp di uscire dall’aula.
L’appoggio del gruppo
di Verdini, politicamente assai rilevante, non si può dire che sia
stato numericamente determinante per il numero legale. Le due votazioni
più delicate per il governo sono state la terza e l’ultima. Alla terza
votazione hanno partecipato 217 senatori, così divisi: 148 sì, 61 no, 8
presenti e non votanti di cui sette con Chiti e uno il presidente
Grasso. Se i 13 verdiniani non avessero partecipato, e i 61 contrari,
avendolo notato dopo la prima chiama, avessero deciso di non rispondere
per tentare lo sgambetto, il numero legale si sarebbe fermato a 143 (135
più 8), cioè esattamente al minimo necessario. Dunque votazione
comunque valida. Ma è un calcolo teorico, perché tra i 61 contrari ci
sono alcuni senatori (uno di Fratelli d’Italia, una di Gal e uno del Pd)
che non avrebbero partecipato alla tattica dell’uscita dall’aula. Al
quinto voto di fiducia, invece, hanno partecipato 172 senatori, così
divisi: 145 a favore, dieci presenti e non votanti (9 con Chiti e uno il
presidente Grasso) e 17 contrari. Con i senatori di Ala fuori dall’aula
avremmo avuto 132 voti a favore, ma comunque 159 partecipanti al voto
(e dunque il numero legale) perché il gruppo Chiti non sarebbe uscito e
tra i 17 contrari stavolta, oltre ai tre già citati, ci sono stati 8
leghisti e 6 di Forza Italia arrivati proprio per garantire il numero
legale. In precedenza, sulle altre fiducie, grillini e sinistre hanno
aspettato che il numero legale fosse raggiunto prima di scendere
nell’emiciclo a votare no (con qualche senatore disattento inseguito e
fisicamente bloccati dai colleghi che tenevano la conta).
A questa
tattica i grillini hanno aggiunto un bel po’ del consueto colore,
compresa una semi aggressione al segretario d’aula del Pd Russo in
favore di telecamera (collegata in diretta con la piazza di Grillo).
Diversi senatori a 5 Stelle, infatti, hanno votato coprendosi gli occhi
con le mani, o addirittura bendati, o stracciando una copia della legge
elettorale, o gridando contro Verdini; il senatore Giarrusso ha
direttamente fatto il gesto dell’ombrello verso i banchi di Ala – al
senatore D’Anna non è parso vero poter replicare con gli interessi. A
quel punto Russo ha gridato «siate seri» ai grillini e i senatori
Cioffi, Lucidi e Santangelo gli si sono avvicinati minacciosi (in mezzo i
commessi). In precedenza gli ultimi due si erano limitati a gesti più
composti, come ripetere cinque volte lo stesso discorso (visto che ai
senatori non è stato concesso di fare le dichiarazioni di voto per
ognuno dei cinque voti di fiducia) o slacciare il nodo della cravatta.
E
più volte, nel corso della lunga giornata, i 5 Stelle hanno chiesto a
Grasso di fare come Paratore, che nel 1953 si dimise da presidente del
senato per la fiducia sulla legge truffa. Grasso ci ha tenuto sempre a
replicare. «Ho studiato, Paratore si dimise dopo la fiducia e non per
impedirla», ha detto una prima volta. E poi, più esplicito, «a volte è
più duro restare per il senso delle istituzioni, e continuare nonostante
il malessere». Parole chiare che resteranno a verbale, e solo lì.