il manifesto 25.10.17
Ottobre 1917, lo Sturm und Drang del Novecento
1917-2017.
Il 1917 è conseguenza del 1914. Senza la grande guerra non ci sarebbe
stata la grande rivoluzione. E la cosa da ricordare è che la prima
rivendicazione fu la pace
di Mario Tronti
Pubblichiamo
il discorso pronunciato il 24 ottobre 2017 nell’aula del Senato da
Mario Tronti per ricordare il centenario della Rivoluzione d’Ottobre.
Presidente,
colleghe e colleghi, vi chiedo un momento di attenzione. In mezzo ai
lavori convulsi di questi giorni, una pausa di riflessione può far bene.
Volevo
ricordare un evento, di cui ricorre quest’anno il centenario. Il 24 di
ottobre, secondo il calendario giuliano, o il 7 novembre, secondo il
calendario gregoriano, del 1917, esplodeva nel mondo la rivoluzione in
Russia. Mi sono interrogato sull’opportunità di proporre qui, nel Senato
della Repubblica, il ricordo di questa data.
Sono consapevole che
questo arrivi a turbare la sensibilità di alcuni, e di alcune, che
legittimamente possono nutrire, nei confronti di quell’evento, una
ostilità assoluta.
Ma siamo a cento anni da quella data e possiamo
parlarne, come io intendo parlarne, con passione e nello stesso tempo
con disincanto.
Non so se è verità o leggenda, quella volta che
chiesero a Chou En-Lai, anni cinquanta del Novecento, che giudizio si
sentisse di dare sulla rivoluzione francese del 1789. E la risposta fu:
troppo presto per parlarne. Di quei “dieci giorni che sconvolsero il
mondo”, secondo il reportage che ne fece il giornalista americano John
Reed, ne trattano oggi molti giornali, molte riviste, molti libri. Del
resto, per mettere un pizzico di ironia in avvenimenti che hanno dalla
loro parte non poco di vicende tragiche, si potrebbe dire che anche
questa, come facciamo spesso in quest’aula, è la commemorazione di un
defunto.
Qui, a Palazzo Madama, come a Montecitorio, soprattutto
nella prima Legislatura, seguita alla Costituente, presero posto alcuni
protagonisti che avevano vissuto quella storia in prima persona. Questo
mio ricordo vuole essere anche un omaggio a questi padri.
Il 1917 è conseguenza del 1914. Senza la grande guerra non ci sarebbe stata la grande rivoluzione.
E
la cosa da ricordare subito è che la prima rivendicazione, che forse
più di altre produsse il successo della rivoluzione, fu la
rivendicazione della pace: la pace ad ogni costo, si disse, anche a
costo di perdere la guerra.
Quando Lenin, contro tutti, firmò il
trattato di Brest Litovsk, accettò tutte le più pesanti condizioni, pur
di riportare a casa i soldati. Lenin era l’autore di quella che a mio
parere è stata la più audace di tutte le parole d’ordine sovversive,
quando disse: soldati operai e contadini russi non sparate sui soldati e
contadini tedeschi, ma voltate i fucili e sparate sui generali zaristi.
C’era
quella idea, che era stata per primo di Marx. dell’internazionalismo
proletario, “proletari di tutti i paesi unitevi”: un’idea niente affatto
di parte, che affonda invece le sue lunghe radici nell’umanesimo
moderno.
Già nei moti rivoluzionari del 1905 i soldati si erano rifiutatati di sparare sulla folla, e avevano sparato sui loro ufficiali.
1905
e 1917 sono le due tappe della rivoluzione in Russia. La lucida
strategia, che sarà dei bolscevichi contro i menscevichi, era che i
comunisti dovevano mettersi alla testa della rivoluzione democratica per
portarla alle sue naturali conseguenze, che stavano nella rivoluzione
socialista.
Se democrazia è infatti il kratos in mano al demos, il
potere in mano al popolo, quale strumento più democratico dei soviet,
dei consigli degli operai e dei contadini?
Ma, attenzione, i
soviet dovevano farsi Stato, dovevano assumere l’interesse generale. E
il fatto che invece di farsi Stato si sono fatti partito, chissà che non
sia stato questo il vero punto di catastrofe dell’intero progetto.
Ma
comunque quella democrazia diretta non ha niente a che vedere con
l’attuale democrazia immediata. Questa non solo non si fa istituzione,
ma è anti-istituzionale e dunque antipolitica e allora è conservatrice,
se non addirittura reazionaria.
La rivoluzione partì su tre parole
d’ordine: la pace, il pane, la terra. Parole semplici, che toccarono il
cuore dell’antico popolo russo.
Tre cose che erano state
sottratte a quel popolo. La rivoluzione gliele restituì. Per questo
“l’assalto al cielo”, che avevano già tentato invano gli eroici
comunardi di Parigi, vinse a Pietroburgo con l’assalto al Palazzo
d’Inverno.
Colleghi, conosco bene il seguito della storia. Una
rivoluzione, che era nata dalla guerra, si trovò in guerra con il resto
del mondo, accerchiata e combattuta. Non intendo, per questo,
nascondere, tanto meno giustificare, le deviazioni, gli errori, la
violenza, i veri e propri crimini commessi.
Qui, c’è il grande
problema del perché la rivoluzione, cioè il progetto di trasformazione
in grande del corso delle cose, sfocia storicamente nel terrore.
E
il problema non riguarda solo i proletari. I borghesi non hanno agito
diversamente nella loro presa del potere. La rivoluzione inglese di metà
Seicento, la rivoluzione francese di fine Settecento, ambedue hanno
fatto cadere nel capestro la testa del re. E la rivoluzione americana,
per produrre la più stabile democrazia del mondo, è dovuta passare per
una terribile guerra civile.
Rivoluzione e guerra, rivoluzione e
terrore, sono dunque inseparabili? Dobbiamo dunque per questo rinunciare
al tentativo di un rivolgimento totale? Occorre rassegnarsi alla
pratica di cosiddette riforme graduali, che però mai riescono a
minimamente mettere in discussione il rapporto, che poi è un rapporto di
forza, tra il sotto e il sopra, tra il basso e l’alto della società?
Questo è il problema che ci pone ancora oggi, dopo un secolo, quell’ottobre del ’17.
Ecco
perché vorrei, se possibile, isolare il valore liberatorio di
quell’atto rivoluzionario dai fallimenti epocali e anche dalle
costrizioni antilibertarie, che lo hanno seguito nella sua
realizzazione.
Ricordo una data e condanno una sua negazione.
Quell’atto trova la sua fondazione nel mirabile inizio di secolo. Il
primo decennio del Novecento vede l’irrompere, anch’esso sovversivo,
della trasvalutazione di tutte le forme: in campo artistico, con le
avanguardie, arti figurative, poesia, narrativa, musica; in campo
scientifico, con la fine della meccanica newtoniana e l’avanzare del
principio di indeterminazione; nel pensiero filosofico con la messa in
questione della ragione illuministica.
Come potevano le forme
della politica, organizzazioni e istituzioni, non essere travolte da
questo Sturm und Drang, da questo impeto e assalto? Come la grande
Vienna è il cuore di questo sommovimento culturale, così Pietroburgo
diventa il cuore di un sommovimento politico.
Il secolo ne sarà
interamente segnato. L’anima e le forme è lo splendido titolo di un
libro del giovane Lukács, che esce nel 1911. Era l’anima dell’Europa ed
era, come dirà anni dopo Husserl, la crisi delle scienze europee, a
ribaltare tutte le forme ottocentesche. Lo spirito anticipa sempre la
storia.
La rivoluzione del ’17 in Russia sta in mezzo a questo
totale fermento. Atto di liberazione, che metterà in moto masse enormi
di popolo e provocherà scelte di vita di piccole e grandi personalità.
Ad esso si richiamavano molti dei ribelli antifascisti, mentre subivano
il carcere e l’esilio, molti dei combattenti nella guerra di Spagna
contro i franchisti, molti dei partigiani che salirono in montagna
contro i nazisti.
Se leggete le lettere dei condannati a morte
della Resistenza, in Italia e in Europa, troverete spesso l’ultimo grido
di saluto per quell’evento.
Mi rendo conto di parlarne con fin
troppa partecipazione, e perfino enfasi Ma vedete, colleghi, io mi
considero figlio di quella storia. E francamente vi dico che non sarei
nemmeno qui se non fossi partito da lì. Qui, a fare politica per gli
stessi fini con altri mezzi, senza ripetere nulla di quel tempo lontano,
passato attraverso tante trasformazioni, rimanendo identico.
Vi
assicuro, un esercizio addirittura spericolato, ma entusiasmante. Se
entusiasmo può esserci ancora concesso in questi tristi tempi. Vi chiedo
ancora scusa.