il manifesto 24.10.17
Il «discorso di troppo» di ogni filosofia
Michel
Foucault. Tradotto «Soggettività e verità», a cura di Pier Aldo Rovatti
per Feltrinelli. Tra il 1980 e il 1981, un ciclo di lezioni al Collège
de France su testi tra il IV secolo a.C. e il II secolo d.C. In
continuità con la sua storia della sessualità, piano iniziato nel 1976
con «La volontà di sapere». Una costellazione di atti sessuali,
«aphrodisia» per i greci, «veneria» per i latini. Il mondo greco-romano
getta le condizioni per l’invenzione della «verità del desiderio»
Jean-Paul Sartre, Gilles Deleuze e Michel Foucault
di Massimiliano Nicoli e Luca Paltrinieri
Che
cos’è un soggetto politico? Che cosa fa di noi, presi singolarmente o
collettivamente, dei soggetti capaci di azione nel mondo? La risposta
del liberalismo politico, da Locke a Smith fino a Cavell e Nozick, è che
il soggetto è in primo luogo un individuo che possiede, in sé, le
risorse per farsi azione nel mondo. La politica comincia con l’etica,
con la costruzione di sé a partire da sé, e solo dopo incontra la
questione dell’altro e della collettività.
La relazione con
l’altro è espulsa dal cuore della soggettivazione, che si presenta come
un rapporto trasparente e autosufficiente del sé con sé. Nessuno più di
Michel Foucault ha visto questo paradosso della padronanza di sé
implicito nella mitologia tutta «occidentale» della soggettività. Per
lui il soggetto non poteva essere un nucleo di volontà autosufficiente,
ma sempre, in primo luogo, relazione. Foucault ha scelto, fin dal primo
dei suoi corsi al Collège de France, nel 1970-71, Lezioni sulla volontà
di sapere, di indagare sperimentalmente l’ambito delle relazioni
costitutive della soggettività a partire dal ruolo politico che vi
svolge la verità: verità ambigua e controversa di un sapere medico e
psichiatrico dell’anima, verità di una «natura sociale» dell’uomo che
permette di governarlo, verità oscura e pericolosa, nascosta nel più
profondo di un sé che bisogna imparare a decifrare per governare gli
altri e condurre se stessi senza perdersi nel peccato e nella
tentazione.
IL CORSO DEL 1981, Soggettività e verità, ora tradotto
in italiano da Deborah Borca e Carla Troilo (a cura di Pier Aldo
Rovatti, Feltrinelli, pp. 352, euro 35) è uno snodo essenziale di tale
progetto, e permette di gettare un ponte tra il corso del 1980, Del
governo dei viventi, e quelli successivi, dall’Ermeneutica del soggetto a
Il coraggio della verità, già noti ai lettori italiani. Se il corso
dell’anno precedente attaccava il mito del soggetto della conoscenza
situandone la nascita all’interno del problema del governo degli
individui, nel 1981 è il soggetto del desiderio sessuale che viene
passato al vaglio della genealogia, attraverso una manovra di
arretramento storico nel I e II secolo, in epoca ellenistica e romana,
«nel passaggio fra ciò che chiamiamo un’etica pagana e una morale
cristiana».
In questo senso le lezioni proseguono il progetto di
una storia della sessualità, cominciato nel 1976 con La volontà di
sapere, e centrato sull’indagine dell’esperienza moderna della
sessualità, di quella cristiana della carne, e dell’esperienza antica
degli aphrodisia (i piaceri del sesso).
Il regime classico degli
aphrodisia, infatti, era strutturato secondo un sistema di
valorizzazione differenziata dei comportamenti che, invece che definire
un insieme di interdetti e divieti, organizzava positivamente la
«percezione etica» degli atti sessuali. Si trattava principalmente di
due principi, il «principio di attività» – che valorizza la penetrazione
e squalifica ogni forma di passività –, e il «principio di isomorfismo
socio-sessuale», secondo cui la forma del rapporto sessuale coincide con
la gerarchia socio-politica esistente.
IL SOGGETTO di questa
economia degli aphrodisia era naturalmente il maschio libero e attivo,
per cui era apprezzabile il matrimonio, segno e strumento di prosperità,
così come il rapporto sessuale con uno schiavo o una serva, in quanto
inferiori, ma non con una donna sposata, in quanto appartenente a un
altro maschio.
Ciò che accade in epoca ellenistico-romana è che
per una serie di processi storici, politici e sociali, la pratica,
dapprima elitaria, del matrimonio si generalizza e diviene istituzione
pubblica. La percezione etica degli aphrodisia si riconfigura
nell’ambito della centralità della relazione coniugale, attraverso una
localizzazione esclusiva della sessualità al suo interno, una
devalorizzazione di ogni piacere sessuale e la costituzione di un’etica
del matrimonio fatta di fedeltà, affetti reciproci e virtù coniugali: è
l’invenzione della coppia.
CIÒ PROVOCA, oltre alla confisca
dell’eros da parte della relazione coniugale, la rottura del «continuum
socio-sessuale» che permetteva al maschio di imporre ovunque la propria
sessualità, e conseguentemente la sua spaccatura in due forme di
virilità: quella pubblica, che dovrà essere desessualizzata, e quella
privata e coniugale, che dovrà essere continuamente sorvegliata, così da
padroneggiare non solo i comportamenti, ma anche ciò che li precede,
l’epithymia, il desiderio.
Nell’ambito dei doveri dell’uomo
sposato che si autocontrolla, si compie il passaggio da una
soggettivazione dell’attività sessuale in forma di atti a una
«soggettivazione sotto forma di rapporto permanente di sé con se
stessi», ed emerge il desiderio come «principio di
oggettivazione/soggettivazione degli atti sessuali».
Il mondo
greco-romano ha posto le condizioni per l’invenzione della verità del
desiderio, preparando il terreno su cui il cristianesimo impianterà le
tecniche di confessione e l’esperienza della carne.
Queste tesi
storiche sono state espresse in seguito, in una forma più compiuta, nel
terzo volume della Storia della sessualità, La cura di sé. La vera
sorpresa del corso è piuttosto l’attenzione di Foucault per un certo
tipo di «gioco di verità» connesso all’avvento del matrimonio come
istituzione pubblica: il discorso elogiativo della sessualità coniugale
tenuto dai moralisti, dai direttori di coscienza, dai filosofi, per lo
più di scuola stoica.
È UN DISCORSO di verità che fa parte della
letteratura sulle arti di vivere e di condurre se stessi, una
letteratura che ha storicamente perso la sua autonomia per essere
integrata nella formazione professionale e nella pedagogia (e infine nel
«management di sé», potremmo dire oggi). Foucault si chiede quale sia
la funzione di un discorso che esalta i doveri matrimoniali se nella
società greco-romana, nel reale – come attestano gli storici –, il
matrimonio e la sua regola erano già divenuti centrali: perché tradurre
in una veridizione qualcosa che era già acquisito nei comportamenti
reali?
Se certamente non è stato il discorso a determinare i
processi storici, tuttavia la sua esistenza, il suo giungere al reale
come evento, non si spiega in termini di rispecchiamento delle pratiche
reali o di loro mistificazione ideologica. Il reale, di per sé, non
reclama l’esistenza di un discorso che pretenda di dire il vero su
questo reale, o di nasconderlo, o di razionalizzarlo. Le arti di vivere
che prescrivono ai soggetti la trasformazione della propria esperienza
di sé in relazione a una parola vera sono un «discorso di troppo»,
inutile – come ogni gioco di veridizione – rispetto alla presa che
permette sul reale, ma efficace in termini di effetti di
soggettivazione.
COME NEL CASO della follia, del crimine, o delle
pratiche di governo, è l’inserzione dei giochi di verità sulle pratiche
umane il luogo in cui vanno cercati gli effetti dei discorsi veri: in
questo caso, quel luogo è il bios – la vita come soggettività e come
rapporto con se stessi. Quei supplementi di verità che sono i discorsi
filosofici sul matrimonio si presentano come technai peri ton bion,
«tecniche di sé», procedure di soggettivazione che si incaricano di
accompagnare il soggetto nella trasformazione del suo rapporto con se
stesso, in modo che possa abitare e praticare il nuovo codice
matrimoniale cambiando la percezione etica dei propri comportamenti
sessuali.
QUAL È LA POSTA IN GIOCO politica di questo «discorso di
troppo»? Foucault sembra suggerire che la filosofia, ogni filosofia, è
sempre un «discorso di troppo» che appunto non determina né rispecchia
la realtà, ma che si trova di fronte a un’alternativa: o essa funziona
come un gioco di verità che permette al soggetto di adeguarsi alla
morale dominante, ovvero, oggi, il credo liberale nel primato
indiscutibile di un «sé» capace di determinarsi liberamente nel
labirinto infinito delle relazioni di sé con sé; oppure la filosofia si
definisce come una genealogia inquieta della soggettivazione in quanto
processo costitutivamente preso in un insieme di relazioni politiche, e
quindi asimmetriche, ineguali e non reciproche con gli altri.
Più
che prescrivere delle buone pratiche di soggettivazione etica, essa
disarticola la triade individuo/soggetto/sé per dissolvere l’illusione
del sé eroico e performativo della società neoliberale. In questo senso,
Soggettività e verità ci convoca a un’esperienza veramente politica e
ci ricorda come la trasformazione della soggettività non possa essere
scollegata da quella dei sistemi di valorizzazione differenziata dei
comportamenti a cui rinviano tutte le morali, e che non cessano di
interpellare un soggetto che si crea – da solo – in relazione a un’idea
più o mena esplicita di padronanza individuale.