il manifesto 24.10.17
La destra alza la posta, la sinistra sbanda
di Norma Rangeri
Il
centrodestra sente il vento nelle vele e ora, dopo i referendum di
Lombardia e Veneto, aspetta di prendere il largo con il voto regionale
siciliano, antipasto dell’agognato approdo al governo con le elezioni
politiche nazionali. Inutile dal punto di vista tecnico-amministrativo
(l’Emilia Romagna è già in trattativa con il governo, senza aver avuto
bisogno di spendere decine di milioni per consultare i suoi
concittadini), il rito referendario di domenica è stato invece
utilissimo nella costruzione della futura leadership del centrodestra e
nell’evidenziare gli sbandamenti a sinistra.
Certo Maroni, Zaia e
Salvini devono ringraziare gli entusiasti del Pd che hanno fatto
campagna elettorale per loro, sindaci come quello di Bergamo, o come
certi parlamentari contenti perché finalmente «è arrivata la spallata e
Zaia ora ha un ampio mandato», secondo l’opinione di una piddina
trevigiana. Questi strateghi forgiati alla scuola del renzismo, in
profonda sintonia con i loro colleghi leghisti, hanno portato acqua al
mulino di Salvini.
Nonostante il coro berlusconiano dica che a
uscirne vincente è il trio Maroni-Berlusconi-Zaia, come se Salvini non
fosse l’azionista di maggioranza dello schieramento, quasi un leghista
modificato dal nazionalismo antieuropeo, è vero invece che il partito
salviniano ha segnato un punto pur giocando la partita in casa.
Una
squadra rafforzata dall’exploit del veneto Zaia, vero vincitore del
referendum, il più in sintonia e in continuità con la vecchia Lega come
si capisce oltre che dal commento post-referendario («il Veneto non sarà
più quello di prima», «padroni a casa nostra»), soprattutto dal
rilancio della posta, con la richiesta dello status di regione speciale
per il Veneto e della restituzione del residuo fiscale. Materie
bollenti, due fronti di conflitto non componibili messi sul piatto della
competizione elettorale, con una forza accresciuta dall’aver portato al
voto 5,5 milioni di elettori delle regioni italiane economicamente più
forti.
La sinistra reagisce al rafforzamento del centrodestra in
modo maldestro, o sottovalutando il risultato o, all’inverso, suonando
il campanello del Nazareno vale a dire chiedendo a Renzi un incontro per
verificare le condizioni di una alleanza, come ha fatto il gruppo di
Bersani. Un escamotage tattico visto che le condizioni per sedersi al
tavolo sarebbero la modifica della legge elettorale, la cancellazione
del Jobs act e della buona scuola. (E proprio mentre si profila una
nuova fiducia, al senato, sulla materia elettorale giunta al suo
decisivo passaggio parlamentare).
Cercare ancora l’accordo con il
Pd di Renzi certo non rafforza lo spirito di chi a sinistra tenta
faticosamente di dare agli elettori disamorati una ragione fondativa di
un nuovo partito con salde radici laburiste e una cultura politica
libertaria e di sinistra. Oltretutto farsi dire di no dal segretario del
Pd più che un’idea di responsabilità restituisce l’impressione di una
debolezza. Tanto più che dopo il secco rifiuto alle modifiche della
legge elettorale, ieri Renzi ha pure messo il cappello sui referendum
sostenendo che nessuno più di lui vuole colpire lo Stato-esattore.
Allargando così la via maestra della grande coalizione per un governo
che «nei primi mesi della prossima legislatura cominci con un accordo
delle forze politiche» per abbattere le tasse. Con buona pace di chi, a
sinistra, finge di non aver ancora capito bene il messaggio.