il manifesto 22.10.17
Il precipizio balcanico
di Tommaso Di Francesco
Diranno
che è una «modalità moderata» l’applicazione dell’articolo 155 della
Costituzione spagnola scelta ieri dal premier spagnolo Rajoy per fermare
la dichiarazione di indipendenza catalana: di fatto non c’è
l’impossibile cancellazione dell’autonomia ma «solo» il commissariamento
del govern e di Puigdemont; diranno che è soft perché tutto è rimandato
al voto del Senato la prossima settimana e a nuove elezioni tra sei
mesi. Siamo in realtà sull’orlo del precipizio, altro che soft.
La
scelta di assumere di fatto i poteri della Generalitat catalana e delle
forme del suo autogoverno è un vulnus che riguarda l’intera democrazia
spagnola che si regge sul riconoscimento delle autonomie. Questo grida
con ragione Podemos, purtroppo inascoltato
Una decisione che svela
come l’unica via imboccata dal governo di Madrid sia quella della
repressione e non del dialogo. Perché commissariare un governo di una
autonomia garantita dalla stessa Costituzione, sospendere il processo
democratico sovrano a «dopo» elezioni» eterodirette, apre una voragine
di senso sulle istituzioni della Spagna. E che avrà comunque subito come
risposta un acuirsi del clima già teso, dopo le violenze della polizia
durante il voto referendario, gli arresti dei due Jordi, la messa sotto
accusa dei Mossos – ora commissariati – con una esacerbazione delle
istanze dell’indipendentismo. E che mette in chiaro l’origine delle
responsabilità nella crisi.
Non solo quelle degli indipendentisti,
spesso irresponsabili, che hanno premuto l’acceleratore sulla sovranità
nazionale separata, ma anche quelle del centralismo statuale spagnolo e
dei nodi sociali ed economici tutt’altro che risolti, come ha ricordato
di recente perfino il Fondo monetario internazionale.
È la crisi
del Patto della Moncloa del 1978, che ebbe il merito di inserire la
Spagna in un nuovo processo democratico, facendola uscire dal buio nero
della dittatura franchista, con un ruolo allora positivo della monarchia
garante del ruolo dell’esercito (già golpista).
Ma dopo quasi 40
anni che resta di quella monarchia, ridotta a sedimento corrotto,
nonostante il cambio da Juan Carlos a re Felipe, per gli scandali che
l’hanno contraddistinta? Per una democrazia compiuta non è forse venuto
il momento di decidere una statualità repubblicana liberamente decisa
dai cittadini?
E non è forse chiaro che sia in crisi la leadership
del Partito popolare, che ha conquistato due punti in più di Pil ma
solo a costo di tanto lavoro precario (come in Italia); e che ora ben
altro atteggiamento della compromissione fin qui manifestata dovrebbe
venire dall’opposizione socialista del Psoe di Pedro Sanchéz che, sul
baratro che si apre, dovrebbe chiedere elezioni anche a Madrid e invece,
come Ciudadanos, sale sul carro del vincitore, promette aperture, si
prepara magari ad entrare al governo?
E poi come dimenticare che
dietro il conflitto con Barcellona c’è stata l’iniziativa scellerata del
Partito popolare di Rajoy di far cancellare nel giugno 2010 dal
Tribunale costituzionale – con un voto per il rotto della cuffia – lo
statuto di Catalogna nonostante fosse stato approvato dai parlamenti sia
di Barcellona che di Madrid? Il nodo fu la parte del preambolo che
recitava «la Catalogna è una nazione».
Fu l’apertura del vaso di
Pandora che ha radicalizzato l’indipendentismo – moltiplicato da quella
decisione – in chiave «nazionalista», anche di fronte al fatto che nel
2008, con l’esplodere dell crisi economica mondiale, arrivarono processi
di ulteriore centralizzazione di Madrid. Molte delle grandi banche, che
in questi giorni grazie al provvedimento propizio del governo, hanno
spostato la loro sede amministrativa dalla Catalogna, vennero salvate in
questo periodo dal provvidenziale intervento centrale dei governi
centrali. Oggi il potere finanziario – come in Grecia, come dovunque –
rende l’omaggio, rompendo l’unità ambigua del fronte separatista
catalano. Composto in parte da una borghesia concorrenziale, legata a
filo doppio all’economia spagnola, e da un’ala social-radicale, la Cup e
non solo, che a dire il vero ha pensato ad un «processo costituente»
per una «Repubblica garante dei diritti sociali, femminista accogliente
verso l’immigrazione, con al centro le persone e non il denaro», ma
senza tenere conto dei rapporti di forza reali e di chi, in Catalogna,
non vuole l’indipendenza. Non una «piccola patria» però ma una
«destituente» del potere centralistico, sia spagnolo che dell’Unione
europea «reale» ridotta ad equilibrio di due sole nazioni, Germania e
Francia.
Già l’Unione europea, che fine ha fatto in questa crisi?
Quell’Ue che, quando ha fatto comodo, ne ha riconosciute di piccole
patrie, addirittura quelle proclamate su base etnica, come per l’ex
Jugoslavia, e poi per la divisione tra Cechi e Slovacchi e per
l’incredibile nazione del Kosovo? Avrebbe dovuto, senza dare il segno
dell’ingerenza, diventare la sede del dialogo concreto e possibile,
almeno dopo il disastro secessionista della Brexit. Invece alla fine si è
schierata con il Pp di Rajoy forte di una leadership europea costituita
proprio dai partiti popolari di centro-destra. Fino a battere le mani
come nei giorni scorsi a re Felipe al premio Principe delle Asturie:
questo ha fatto il presidente del Parlamento europeo Tajani, del resto
di formazione monarchica.
Ora c’è il precipizio balcanico di un
articolo 155 mai applicato finora, dirompente verso la Catalogna ma
anche per gli equilibri e la pace della Spagna. E dell’Europa.