il manifesto 20.10.17
A lezione di libertà con le donne palestinesi
Intervista.
L'esperienza di Lema Nazeh (membro del Comitato di Coordinamento dei
comitati popolari nei Territori Occupati), al convegno di Roma presso la
Casa internazionale delle donne, dove confluiscono attiviste e
ricercatrici dall'Austria alla Tunisia
di Chiara Cruciati
Identità
resistenti contro un sistema unico, quello patriarcale declinato in
forme differenti – neoliberismo, capitalismo moderno, disuguaglianze
velate. Nel caso palestinese il volto è l’occupazione militare
israeliana. Ne abbiamo discusso con Lema Nazeh, attivista e vice
presidente del Comitato di Coordinamento dei comitati popolari nei
Territori Occupati. Porterà la sua esperienza al convegno La libertà
delle donne nel XXI secolo, a Roma (presso la Casa internazionale delle
donne).
Il Mediterraneo, culla dell’incontro di popoli per
millenni, oggi si fa barriera tra due mondi. Eppure quegli stessi popoli
restano legati da tradizioni, usi, cultura. È possibile ritrasformarlo
in mezzo di scambio positivo?
Per comprendere tale evoluzione
vanno analizzati gli elementi politici che definiscono la prospettiva
mediterranea. A partire dai cambiamenti radicali che vivono da anni i
paesi arabi a causa di guerre, conflitti interni, sollevazioni. E dei
movimenti radicali islamisti: hanno un ruolo cruciale nella separazione
tra culture perché hanno effetti anche al di là del mare, in Europa. In
tale contesto va rilanciato il ruolo dei movimenti delle donne, da
sempre spinta alla trasformazione delle società.
Le donne presenti
al convegno provengono da paesi europei, nordafricani e mediorientali.
Cosa accomuna le loro lotte e cosa le diversifica?
Una piattaforma
di questo tipo è fondamentale perché crea una rete di resistenza.
Conflitti diversi, problemi diversi e paesi diversi necessitano di
strumenti di resistenza comuni. Sono femminista, attivista politica e
palestinese, ho la mia identità ma ritengo importante capire cosa accade
fuori, quali ostacoli altre donne già sperimentano. La conoscenza evita
radicalismo e chiusura. Da parte mia, porterò l’esperienza delle donne
palestinesi che da un secolo rifiutano il vittimismo, utile a
silenziarle, e rivendicano il loro storico attivismo politico.
Nel suo caso la lotta è contro un’occupazione militare che ha plasmato la società palestinese e anche i movimenti femministi…
La
potenza delle donne palestinesi era visibile già un secolo fa:
delegazioni delle organizzazioni femministe andavano in Europa per
denunciare il colonialismo del mandato britannico sulla Palestina. Da
allora, sono sempre state in prima linea, nella lotta e nel negoziato.
Senza dimenticare la capacità di mantenere viva l’identità palestinese
attraverso la tutela delle comunità e delle singole famiglie nei periodi
di peggiore abuso, dalla Nakba del 1948 alle due Intifada. A ciò si
aggiunge la loro partecipazione al movimento di liberazione nazionale e
all’Olp, fin dai suoi albori. Non sono mai state una semplice stampella,
ma parte integrante del processo decisionale. Lo stesso Olp fece
appello alle donne perché partecipassero alla definizione della società
che si sognava, rivoluzionaria e post-coloniale. Mi infastidisce l’idea
che gli europei hanno delle donne palestinesi e arabe: vittime bisognose
di protezione. Un simile atteggiamento ci mina.
Il mondo è
dominato da un pensiero patriarcale. La stessa occupazione è un sistema
autoritario che ha il suo braccio nell’esercito, strumento tipicamente
maschilista di repressione. Lei fa parte dei Comitati Popolari di
resistenza: un modello alternativo a quello monolitico e centralista
dell’occupazione?
L’idea dei comitati popolari non è nuova nella
lotta di liberazione. La Palestina ha sperimentato forme di resistenza
diverse, lotta armata, disobbedienza civile, boicottaggio economico,
auto-gestione. Tutte si sono realizzate coinvolgendo l’intera società,
ogni villaggio, ogni quartiere, ogni strada, persone di tutte le età.
L’esperienza della Prima Intifada è un modello: comitati che operavano
localmente disegnando una strategia nazionale. Oggi vogliamo riattivare
quella lezione: che ogni villaggio si organizzi sotto l’ombrello di un
coordinamento nazionale. I primi sono sorti undici anni fa, dopo la
devastazione della Seconda Intifada. Serviva qualcosa che risvegliasse
il popolo attraverso il coinvolgimento collettivo a partire dalle realtà
più piccole, i villaggi. Da lì sono iniziate le battaglie contro le
colonie, il muro, l’immediata forma di occupazione che ogni comunità ha
di fronte. È la nostra proposta per il movimento di liberazione:
adottare un modello che sia locale e, allo stesso tempo, internazionale.
Combattere dalla base e internazionalizzare la resistenza.