il manifesto 1.10.17
Notizie da un Io smisurato quanto i suoi debiti
Classici.
Estraneo alla introspezione psicologica, il carteggio dello scrittore
russo denuncia l’odiato «buon senso» borghese, le «vili» impellenze
economiche, la nostalgia della Russia vista dai viaggi in Occidente
di Valentina Parisi
Se
si volesse individuare il luogo di un climax speciale nelle lettere
dostoevskiane curata da Ettore Lo Gatto nel 1950 e riproposte ora da
Nino Aragno con il titolo I demoni quotidiani (2 voll., pp. 930, euro
30,00) lo si troverebbe probabilmente nella missiva del 24 marzo 1870
indirizzata da Dresda ad Apollon Majkov. Qui Fëdor Dostoevskij, benché
sprofondato nella stesura dei Demoni («Quel che scrivo è una cosa
tendenziosa. I nichilisti e gli occidentalisti diranno che sono un
retrogrado! Che il diavolo se li porti…»), comunicava già all’amico
l’idea per il progetto che l’avrebbe occupato nell’ultimo decennio della
sua esistenza e cioè quel romanzo chiamato provvisoriamente La vita di
un grande peccatore che si sarebbe poi tramutato nei Fratelli Karamazov.
Mai la esuberante immaginazione dello scrittore era stata mobilitata
contemporaneamente su tanti fronti, a evocare visioni che andavano dalla
figura tormentata di un protagonista «ora ateo, ora credente, ora
fanatico e settario, ora di nuovo ateo» alle mura di un eremo dove
avrebbe voluto convocare Belinskij, Caadaev e Puskin (ovviamente sotto
mentite spoglie) a discutere della Russia e dei suoi destini. Ricatti
editoriali
D’altronde, se i propositi creativi si succedevano
nella sua mente a una velocità così vertiginosa, ciò era dovuto più che
altro a una circostanza che lo avrebbe accompagnato lungo tutto l’arco
della sua carriera e che emerge con flagrante evidenza anche dalla
lettera a Majkov: «E intanto sono positivamente in una posizione
terribile (mister Micawber). Non ho una sola copeca e dobbiamo vivere
fino all’autunno, quando avremo il denaro». Paragonandosi ironicamente
al personaggio tragicomico creato da Charles Dickens in David
Copperfield, il romanziere russo sottolineava una costante («ho lavorato
tutta la vita a causa del denaro e tutta la vita sono stato in
bisogno») che rendeva la sua situazione ben differente da quella dei
colleghi aristocratici, in primo luogo Ivan Turgenev e Lev Tolstoj.
Così, non c’è da meravigliarsi se le «vili» questioni economiche tornano
nelle sue lettere con un’insistenza che conferma la convinzione
espressa da studiosi come Donald F. McKenzie secondo cui l’opera
letteraria è anche il prodotto della contrattazione talora spietata con
quegli intermediari chiamati editori.
Estraneo alla dolorosa,
lancinante introspezione psicologica che caratterizza altri carteggi
(uno su tutti, anche se il contesto è ovviamente diverso, quello di
Marina Cvetaeva), l’epistolario di Dostoevskij, fin dalle prime lettere
indirizzate al fratello Michail negli anni quaranta, è innanzitutto una
viva testimonianza di come funzionava il sistema editoriale russo verso e
oltre la metà dell’Ottocento, tra contratti-capestro, scadenze
angoscianti e anticipi che spesso servivano agli autori esclusivamente
per saldare i debiti precedenti. Per non parlare della censura di Stato,
più potente e temibile di qualsiasi critico.
berato dalla
necessità di provvedere alle esigenze della propria famiglia e a quella
del fratello prematuramente scomparso, pungolato da un amor proprio
almeno pari al proprio talento e incalzato in continuazione dagli
editori, al di là del lavoro creativo Dostoevskij difficilmente prendeva
la penna in mano se non per cercare di strappare prestiti agli amici,
impietosire i creditori e proporre ai redattori delle riviste le sue
opere ancora non scritte, eppure già quantificate in fogli di stampa.
A Apollinarija Suslova
Ciononostante,
le sue lettere si leggono a tratti come un autentico romanzo,
soprattutto là dove l’autore tende a sottolineare (non senza un certo
autocompiacimento) la propria estraneità all’odiato «buon senso»
borghese e all’attaccamento filisteo al denaro, anche nelle situazioni
di indigenza più estreme. Emblematiche, a questo proposito, sono le
missive inviate da Wiesbaden alla sua amante Apollinarija Suslova,
prototipo per il personaggio di Polina nel Giocatore. Dopo aver
sperperato alla roulette fino all’ultimo centesimo, lo scrittore si era
letteralmente asserragliato in una stanza d’albergo che non poteva più
pagare e, nutrendosi soltanto di un tè «cattivissimo», attendeva
nervosamente che da Ginevra Aleksandr Herzen gli spedisse del denaro per
uscire da quella situazione imbarazzante.
Proprio in quei giorni,
tormentato dal disprezzo dei camerieri tedeschi che gli lesinavano
perfino le candele per scrivere di notte, Dostoevskij mise a punto la
trama di Delitto e castigo.
Una analoga sensazione di
accerchiamento emerge dalla lettera del 23 aprile 1867 indirizzata
sempre a Suslova, in cui le comunica di essersi risposato con la
stenografa che l’aveva aiutato a consegnare il Giocatore in soli
ventiquattro giorni e di essere precipitosamente partito con lei alla
volta di Dresda per evitare di finire in carcere per debiti come mister
Micawber. Sebbene il soggiorno all’estero, prolungatosi per ben cinque
anni, avesse permesso a Dostoevskij non solo di sfuggire ai creditori,
ma anche di riprendersi dalle crisi epilettiche che a Pietroburgo lo
perseguitavano con sempre maggior frequenza, la nostalgia per la Russia,
non smise mai di attanagliarlo. Di converso, l’immagine che
dell’Occidente affiora dal carteggio con gli amici Majkov e Nikolaj
Strachov è quantomeno desolante, anzi: fa quasi fatica a emergere
rispetto al ricordo, ampiamente idealizzato, della madrepatria. Già nel
settembre 1863 Dostoevskij aveva riferito della singolare impossibilità
di scrivere di Roma, pur trovandosi nella Città Eterna ormai da qualche
giorno, a tal punto le preoccupazioni russe lo sovrastavano. A maggior
ragione, questa reticenza varrà per quei luoghi in cui lo scrittore,
benché disgustato dalla routine familiare, vivrà barricato tra le
quattro mura domestiche, pur di evitare i suoi compatrioti emigrati, da
lui invariabilmente tacciati di liberalismo e russofobia.
Le tappe europee
Così,
Ginevra gli appare «noiosa, tetra, una stupida città protestante con un
clima orribile»; Vevey dannosa per i nervi suoi e della moglie; Firenze
«bella ma molto umida». Dal canto suo, Dresda ha l’unico vantaggio di
essere meno cara di Pietroburgo, mentre Milano gli nega anche quel
conforto che almeno gli concedeva la Svizzera, vale a dire poter uscire
di casa per leggere i giornali russi al caffè. Consapevole di frustrare
le aspettative dei suoi corrispondenti con sfoghi eccessivamente
irruenti e biliosi, Dostoevskij ammetterà nel 1865 ad Aleksandr
Vrangel’: «Io non so scrivere lettere e non so scrivere misuratamente di
me stesso». Ed è forse proprio questa smisuratezza a rendere il suo
epistolario tanto più interessante, elevandolo a riflesso fedele di
un’esistenza braccata e inquieta.