il manifesto 1.10.17
Il viaggio di un testo dalla mente alla messa in pagina
Paleografia.
Venti saggi di importanza strategica per leggere in una dimensione
nuova la vicenda millenaria della nostra civiltà letteraria:
«Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura», da Carocci
di Corrado Bologna
«Eccetera,
perché la minestra si fredda», appuntava, con un ghiribizzo, Leonardo
da Vinci, interrompendo certe riflessioni geometriche tramandateci dal
codice Arundel. La mano, pròtesi della mente, non riesce ad afferrare al
volo e a trasferire sulla carta i lampi dell’immaginazione,
velocissima; la scrittura urge nella penna per trasformare l’idea in
traccia, in segno permanente, ma il tempo stringe, la vita si impone.
Allora la mano ricorre a una stenografia del pensiero, timida sineddoche
di avvenire, vana promessa di un ritorno sul tema: eccetera… Anche
Leopardi costellò lo Zibaldone di eccetera, come un appuntamento dato a
sé stesso per non lasciare incompiuta un’idea inespressa. La mano,
scrivendo, si lascia andare verso l’infinito, si sforza di assorbire nel
testo lo spazio e il tempo. Vorrebbe procedere ininterrotta, sfidando i
limiti naturali: il tempo dell’esistenza, lo spazio del corpo che fissa
dei segni su un supporto destinato a raggiungere altri uomini. Con
quella mente che sta scrivendo dialogheranno in un piccolo, eroico
braccio di ferro contro l’ora tarda della notte, la fine dell’inchiostro
o della carta, la fine della vita.
Il pensiero prende corpo
Nell’Antropologia
della scrittura (Mondadori, 1982) Giorgio Raimondo Cardona,
etnolinguista e glottologo magistrale, fra i primi ha messo in luce
l’importanza della relazione fra la mente istantanea e la lenta mano che
lavora la materia, crea manufatti e opere d’arte, allinea lettere per
dare corpo di parola al pensiero. A lui si deve un’importante
riflessione sugli «aspetti antropologici e sociologici dell’uso dei
sistemi di comunicazione grafica (…), di quel che la scrittura significa
per il singolo e per il gruppo, di come essa sia stata utilizzata, in
breve di tutti gli aspetti al di fuori e all’intorno del sistema grafico
vero e proprio».
Accanto e in dialogo con Cardona, sulla stessa
lunghezza d’onda anche se in un diverso campo scientifico, lavorava
Armando Petrucci, che nel 2009 scrisse una bella introduzione alla
ristampa per Utet dell’Antropologia della scrittura. Petrucci è il più
grande paleografo del nostro tempo, non solo in Italia. Ha fondato e
diretto a lungo Scrittura e Civiltà, una rivista che ha aperto orizzonti
straordinari sulla storia delle scritture e sul gesto dello scrivere,
sempre in equilibrio originale fra ricerca storica, paleografica e
antropologica. Con un’attività formidabile di riflessione sul metodo e
di studio specialistico applicato alla storia materiale dei libri, ha
contribuito come pochi a trasformare la paleografia in una scienza dello
spirito incarnato nel movimento della scrittura, dimostrando come le
strutture del pensiero si riflettono nell’invenzione di modi di
produzione e di organizzazione dei testi, nella forma materiale dei
libri, nell’architettura segreta delle pagine.
Rapporti di scrittura
La
paleografia è diventata un’imprescindibile funzione storiografica, in
particolare nel campo della letteratura, con Armando Petrucci e la sua
scuola (uno per tutti, Marco Cursi, autore delle più innovative ricerche
su Giovanni Boccaccio editore dei testi propri e altrui e di un recente
manuale, prezioso per l’ampiezza dell’orizzonte e per la ricchezza
documentaria: Le forme del libro. Dalla tavoletta cerata all’e-book, Il
Mulino 2016). Oggi Carocci raccoglie venti saggi di Armando Petrucci di
importanza strategica per leggere in una dimensione nuova la vicenda
millenaria della nostra civiltà letteraria, in Letteratura italiana: una
storia attraverso la scrittura (pp. 726, 169 tavole, € 59,00). Da
questi scritti, divenuti fondamentali via via che uscivano, abbiamo
imparato a ripensare la storia della letteratura come storia della mano
autoriale che scrive per rappresentare agli occhi di chi leggerà le idee
elaborate nella mente creatrice, e insieme come testimonianza di un
dispositivo culturale che, trasmettendo messaggi, codifica maniere di
pensare e di guardare la realtà, esprimendola graficamente. Nel
passaggio dall’autografo alle copie su cui i copisti faticano per
trasferire il testo verso l’Altro (altri tempi, altri spazi, altre
culture) si introducono non solo errori, ma metamorfosi della messa in
pagina, dell’«ordine mentale e grafico» che imprime una segnatura
indelebile al testo nel suo diventare libro.
La scrittura, ci ha
insegnato Armando Petrucci, è insieme traccia grafica e specchio di una
visione del mondo. Per comprendere appieno la mutevole tradizione e
fortuna dei testi occorre riconoscere la forma organizzatrice della
grafia e dell’impaginazione nella metamorfosi lungo il tempo, saper
valutare «le tecniche, i modi di operare, i risultati diversi» derivanti
da «atteggiamenti mentali» legati all’epistéme di ogni età e «da
processi educazionali e da livelli culturali profondamente differenti».
La
pratica speciale di «scrivere» un testo di natura letteraria può essere
analizzata dal paleografo e dal filologo in fertile solidarietà.
Petrucci ha ideato l’efficace formula «rapporto di scrittura» per
indicare «il tasso di partecipazione diretta, cioè propriamente grafica,
dell’autore all’opera di registrazione scritta di un suo testo in una
qualsiasi fase dell’elaborazione, dal materiale preparatorio alla prima
traccia, agli abbozzi, fino alla stesura finale». Questo «rapporto di
scrittura», del quale il volume di Petrucci fornisce una fenomenologia
di straordinaria vastità e varietà, «si presenta in modi assai diversi
all’interno delle diverse aree culturali e linguistiche occidentali, ma
soprattutto con diverso rilievo e diverse caratteristiche». La
filologia, che scruta le increspature, le faglie del testo per coglierne
la dinamica genetica e la storia della trasmissione e ricezione, può
giovarsi dell’impostazione paleografica intesa a rendere trasparenti «la
natura e la finalità degli interventi», «le tecniche esecutive», «la
gestione degli spazi di scrittura e riscrittura», «i tempi di esecuzione
e dunque gli strati geologici delle operazioni correttive, sostitutive o
aggiuntive». Le due operazioni sincrone della mise en texte e della
mise en page convergono nella costituzione di un testo nel libro: e noi
dobbiamo tentare di ricondurre il testo, giunto a noi attraverso libri
sempre diversi, alla forma in cui l’autore lo pensò e lo scrisse.
Una cultura provinciale
Come
dichiara il titolo del saggio più esteso del volume (il quale contiene
fra l’altro gli studi importantissimi sul Canzoniere Vaticano,
sull’autografo del Decameron, su Libro e scrittura in Francesco
Petrarca), nasce allora una Storia e geografia delle culture scritte. Si
ricostruisce così un formidabile arco di storia della civiltà
letteraria italiana dall’XI al XVIII secolo, ricco di analisi di
dettaglio, capace di restituire la trama di pratiche sociali conservate
per inerzia ma interrotte da improvvisi, «fittissimi sommovimenti»
innovativi, che definiremo catastrofi (in questi termini paleontologi e
geologi quali Stephen Jay Gould e Niles Eldridge descrivono l’evoluzione
delle specie).
Uno dei nodi cruciali di questa vicenda è il
Trecento, in cui del «”tessuto” omogeneo di cultura scritta che si
veniva formando nell’Italia del tempo, la Commedia dantesca finì per
costituire lo strumento connettivo ed espansivo essenziale». E poi il
Quattro-Cinquecento, con l’introduzione della stampa e lo spalancarsi di
una Babele caotica di editori che avviano alla fruizione moderna il
libro grazie a strumenti paratestuali (a partire dal frontespizio e
dagli indici) che oggi riteniamo organici al libro, e che invece
nacquero per «ragioni di commercializzazione di un prodotto che sempre
più di frequente veniva esposto alla vendita su banchi e strutture
esterne di librai fissi o anche in spazi aperti». Infine il venire alla
luce, fra Sei e Settecento, della consapevolezza che «l’Italia (…)
possedeva una cultura letteraria non nazionale, ma provinciale, non solo
nel senso di isolamento e di dipendenza dal resto dell’Europa, ma anche
di mancanza di un’unitaria circolazione interna di idee e di libri
dipendente dall’esistenza di rigide separazioni regionali». La vicenda
del «blocco» regionalistico e del provincialismo italiano, che un
intellettuale «europeo» come Leopardi descriverà con lucido distacco
antropologico, emerge chiaramente dalla storia dello scrivere.