domenica 1 ottobre 2017

il manifesto 1.10.17
Eisenstein, vita e mondo convergono sul Messico
"Sergei Eisenstein and the Antropology of Rythm", una mostra a Roma, Fondazione Nomas. Secondo le curatrici Marie Rebecchi e Elena Vogman, l’antropologia visiva di Sergei Eisenstein ha il suo culmine in «Que viva Mexico!», il film incompiuto del 1931-'32
di Dario Cecchi

ROMA Marie Rebecchi ed Elena Vogman sono due specialiste di Ejzenštejn: la prima italiana ma attiva presso l’EHESS di Parigi; la seconda presso la Freie Universität di Berlino. Sono le curatrici di un’interessante mostra alla Fondazione Nomas, a Roma (fino al 19 gennaio 2018). Titolo, Sergei Eisenstein and the Anthropology of Rythm. La fondazione si occupa principalmente di arte contemporanea. La mostra prefigura dunque un’incursione, ci auguriamo duratura, nel mondo delle «immagini in movimento».
Non serve ricordare che Ejzenštejn è uno dei giganti della storia del cinema. Tuttavia, sebbene una celebre battuta faccia pensare il contrario, non fu affatto un pedante edificatore di monumenti (al partito, all’ideologia o alla storia). I suoi film – da Sciopero del 1924 alla trilogia incompiuta su Ivan il Terribile del 1945-’46, per fare solo due nomi – sono coraggiosi tentativi di portare ai suoi limiti il linguaggio cinematografico. A distanza di quasi un secolo dall’inizio di quella vicenda è possibile riconoscere in formule come il famigerato «montaggio verticale» non un metodo di lavoro ormai consegnato ai libri di storia del cinema, ma – a recepirle in modo originale – un modo di concepire un’esperienza delle immagini che, nell’epoca del dominio della «iconosfera», urge rigenerare e per così dire ricostruire dalle fondamenta.
Non è possibile aggirare la base ideologica del lavoro di Ejzenštejn, che non era però rigida, ma si nutriva delle più svariate sollecitazioni artistiche, culturali, scientifiche e filosofiche, dentro e fuori il marxismo. Il regista russo è stato un lettore memorabile, tanto onnivoro nelle scelte quanto lucido nel perseguire una linea di pensiero coerente. Il suo cinema è in dialogo costante con una teoria che oltrepassa i confini del campo cinematografico e costituisce un’estetica compiuta, una riflessione sull’opera d’arte e sul genere di esperienza che essa rende possibile. Volendo ridurre in una formula una riflessione tanto complessa, sparsa in scritti spesso incompiuti, l’opera d’arte è innanzitutto un’azione sulla percezione, che ha lo scopo di plasmare, perfino traumatizzare se necessario, la sensibilità dello spettatore e attivare nella sua mente nuovi processi di pensiero. Si vede bene fino a che punto questa teoria dialoghi con il formalismo e la psicologia, che andavano mettendo a punto in quegli anni notevoli ipotesi di lavoro. Penso a Šklovskij e Vygotskij, che di Ejzenštejn furono interlocutori diretti. C’è un punto però che contraddistingue la posizione di quest’ultimo: alla base dell’opera dell’arte (non oggetto, ma azione) c’è sempre – non solo nel cinema ma in tutte le arti, dalla pittura alla poesia – un lavoro di montaggio che opera una scomposizione e ricomposizione del reale e assume a tratti il valore, come è detto nella Teoria generale del montaggio, di una dionisiaca «morte e resurrezione» della realtà.
Lo sforzo teorico di Ejzenštejn non è l’impegno di un artista engagé, o che coglie le implicazioni filosofiche del suo lavoro. In lui l’esperienza e la comprensione della vita e del mondo procedono di pari passo e tendono verso una composizione organica crescente. Arriviamo così alla mostra. Le curatrici individuano un periodo della vita di Ejzenštejn in cui questo questo movimento di convergenza assume una configurazione particolarmente esemplare, per la quale Rebecchi e Vogman hanno trovato l’efficace definizione di «antropologia del ritmo»: si tratta del viaggio fatto in Messico tra il 1930 e il 1932. Ejzenštejn vi si trova per dei sopralluoghi relativi ad alcuni progetti da realizzare con l’americana Paramount. È un periodo di frequenti viaggi all’estero, in cui conosce alcuni tra i principali intellettuali dell’epoca. La mostra ne dà conto, con fotografie e documenti che illustrano quanto il regista fosse entrato in contatto con il surrealismo francese, cui lo univa un interesse profondo per l’analisi delle forme naturali attraverso il medium artistico. Penso alle fotografie «(sotto)marine» di Painlevé presenti nella mostra, le quali testimoniano di un rapporto particolarmente intenso con Georges Bataille e in generale con la costellazione di personaggi e idee che si condensa attorno al progetto di Documents. Nel 1932 la Paramount, su pressione delle autorità sovietiche, interrompe bruscamente la collaborazione e trattiene il materiale girato in Messico da Ejzenštejn, che deve rientrare a Mosca. Dal girato la major ricavò diversi film «apocrifi»: solo nel 1955 Jay Leida poté realizzare per il MOMA un montaggio filologicamente affidabile, dal titolo Eisenstein’s Mexican Project; un’operazione analoga fu promossa nel 1998 dal Gosfil’m di Mosca.
Nella mostra si possono visionare queste immagini, grazie anche alla preziosa collaborazione di Till Gathmann, cui si devono sia i montaggi sia l’impianto grafico del bel catalogo, pensato come un vero e proprio pendant (e non un semplice «apparato») della mostra: trattandosi di un filmato della normale durata di un film, la fruizione è inevitabilmente frammentaria. È forse, però, una visione non troppo lontana dallo spirito cui queste immagini si informano, almeno allo stadio compositivo in cui le conosciamo. C’è una forte attenzione per la ritualità: processioni con mortificazioni corporali (stazioni della via crucis, pellegrini che camminano sulle ginocchia); corride; feste carnevalesche il cui tema dominante è la morte (la maschera del teschio). Non si tratta di dare sfogo al pathos. Ejzenštejn risale alle radici delle manifestazioni più elementari della vita tentando di cogliere e descrivere il ritmo di questi fenomeni, come argomentano in modo persuasivo le curatrici nei saggi (in inglese) del catalogo.
Accanto ai filmati la mostra espone dei disegni di Ejzenštejn. Si tratta delle riproduzioni di alcune pagine del taccuino messicano. Sono immagini che fondono insieme tauromachia, sacrificio religioso ed erotismo spesso omoerotico. Il montaggio crudeltà-sacrificio-penetrazione sessuale è interessante soprattutto perché gioca sul disegno come elemento che si riconfigura secondo un principio costruttivo analogo al montaggio – come fa capire bene Eisenstein in Guanajauto, il film del 2015 che Greenaway dedica al viaggio messicano di Ejzenštejn – per cui al tratto disegnato corrisponde una penetrazione più profonda della realtà, quasi che ferita nella carne e disegno diventassero due facce della stessa medaglia, due manifestazioni di un unico fenomeno vitale: non si dà rappresentazione come mera replica del reale, contro ogni comprensione ingenua dell’immagine nell’epoca della sua «riproducibilità tecnica». Ma si dà rappresentazione solo come riapertura di una comunicazione tra diversi viventi (il rappresentante, il rappresentato, il medium che li unisce), dunque eventualmente anche come ferita, come taglio.
Vorrei segnalare infine due chicche della mostra. Si tratta di alcune fotografie del genere typazh, qualcosa di più che semplici provini: qualcosa a metà tra il lavoro preparatorio e la ricerca fisiognomica, figlia un po’ dell’antica teoria dei «caratteri» e un po’ del positivismo moderno. Il che ricorda il debito con il lavoro e la riflessione di Kulešov. L’altra chicca consiste in alcuni disegni e foto di scena per il progetto del 1939 per un documentario sul grande canale «Fergana», in Uzbekistan. Il progetto è di grande interesse non solo perché si parla dell’acqua, altro elemento basilare della vita, ma anche perché ispira a Ejzenštejn un ritorno agli interessi per l’Oriente, motivo di fascino per tutta la cultura russa, e apre prospettive (politiche oltre che estetiche) che meritebbero di essere attentamente valutate. Vediamo così disegni e fotografie di uomini abbigliati come principi e khan in pose che ricordano miniature persiane. Ci sono insomma tutti gli indizi per immaginare uno sviluppo delle ricerche sulla «antropologia del ritmo», che ora sappiamo essere uno dei motori principali nel lavoro dell’autore della Corazzata Potëmkin!