il manifesto 1.10.17
«La sinistra deve fare una vera rivoluzione morale»
Naomi
Klein. Nel discorso al Labour la cura dei lavoratori, del pianeta e
delle persone deve far parte dello stesso programma. Perché oggi è
impossibile separare una crisi dall’altra: caos climatico, colonialismo,
élite dedite alla rapina e democrazia disfunzionale si sono tutte fuse
insieme, come un mostro a più teste. I millennial non sopportano le
false promesse. Sanders, Podemos e Corbyn dimostrano che partiti e
movimenti devono allearsi
Naomi Klein alla conferenza del Labour di Brighton il 26 settembre scorso
La situazione là fuori è desolante. Come descrivere un mondo capovolto?
Capi
di stato che twittano minacce di distruzione nucleare, intere regioni
sconvolte dai cambiamenti climatici, migliaia di migranti che affogano
lungo le coste dell’Europa e partiti apertamente razzisti che guadagnano
terreno, nel caso più recente – e allarmante – in Germania.
Faccio
solo un esempio, i Caraibi e gli Stati Uniti del Sud sono nel pieno di
una stagione degli uragani senza precedenti. Porto Rico è completamente
senza energia elettrica, e potrebbe restarlo per mesi, il suo sistema
idrico e quello di comunicazione sono gravemente compromessi.
Su
quell’isola, tre milioni e mezzo di cittadini americani hanno un
disperato bisogno dell’aiuto del loro governo. Ma, come durante
l’uragano Katrina, la cavalleria stenta ad arrivare. Donald Trump è
troppo impegnato a cercare di far licenziare atleti neri, colpevoli di
aver osato attirare l’attenzione sulla violenza razzista.
Per
quanto sia incredibile, non è ancora stato annunciato un pacchetto
federale di aiuti per Porto Rico. Secondo alcune analisi, sono già stati
spesi più soldi per rendere sicuri i viaggi presidenziali a Mar-a-Lago.
E
se tutto questo non fosse già abbastanza, hanno anche cominciato a
spuntare gli avvoltoi: la stampa economica ribolle di articoli che
spiegano come l’unico modo per far tornare la luce a Porto Rico sia
vendere il loro sistema energetico nazionale. Magari anche le loro
strade e i loro ponti.
Ho soprannominato questo fenomeno la
«Dottrina dello Shock»: lo sfruttamento di crisi strazianti per
approvare politiche che erodono la sfera pubblica e arricchiscono
ulteriormente una ristretta èlite.
Abbiamo visto questo lugubre
circolo vizioso ripetersi ogni volta: dopo la crisi finanziaria del
2008, e oggi con i Tories che vogliono sfruttare la Brexit per far
passare senza dibattito dei disastrosi accordi commerciali che
avvantaggeranno le corporation.
Ho messo in evidenza Porto Rico
perché lì la situazione è particolarmente urgente, ma anche perché
rappresenta il microcosmo di una crisi globale molto più vasta, che
contiene molti degli stessi elementi: un caos climatico sempre più
rapido, storie colonialiste, una sfera pubblica debole e trascurata, una
democrazia completamente disfunzionale.
La nostra è un’epoca in
cui è impossibile separare una crisi dall’altra: si sono tutte fuse
insieme, rinforzandosi e sprofondandosi a vicenda, come un mostro a più
teste sull’orlo del collasso.
Si può pensare al presidente degli
Stati uniti nello stesso modo. Avete presente quell’orribile blob di
grasso che sta intasando le fogne londinesi, che voi chiamate fatberg?
Trump è il suo equivalente politico. Un concentrato di tutto ciò che è
nocivo a livello culturale, economico e politico, tutto appiccicato
insieme in una massa autoadesiva che abbiamo molte difficoltà a
rimuovere.
Che si tratti di cambiamento climatico o di minaccia
nucleare, Trump rappresenta una crisi che rischia di echeggiare
attraverso molte ere geologiche.
Ma i momenti di crisi non devono
necessariamente seguire la strada della «Dottrina dello Shock», non sono
destinati per forza a creare opportunità per chi è già schifosamente
ricco di arricchirsi ancora di più. Possono anche andare nella direzione
opposta.
Possono rappresentare dei momenti in cui scopriamo il
meglio di noi, e riusciamo a fare appello a riserve di forza e
determinazione che non sapevamo di avere.
(…) Ma non è solo a
livello della società civile che possiamo osservare il risveglio di
qualcosa di ammirevole in noi quando si verifica una catastrofe. Esiste
una lunga e gloriosa storia di trasformazioni progressiste a livello
sociale innescate dalle crisi. Basta pensare alle vittorie della working
class per quanto riguarda l’edilizia popolare all’indomani della prima
guerra mondiale, o per il sistema sanitario nazionale dopo la seconda.
Questo
ci dovrebbe ricordare che i momenti di grande difficoltà e pericolo non
devono necessariamente riportarci indietro: possono anche catapultarci
in avanti.
Queste lotte progressiste però non vengono mai vinte solo resistendo, o opponendosi all’ultimo di una lunga serie di oltraggi.
Per
trionfare in un momento di vera crisi dobbiamo anche essere in grado di
pronunciare dei coraggiosi e lungimiranti «sì»: un piano per
ricostruire e affrontare le cause che soggiacciono alla crisi.
E
questo piano deve essere convincente, credibile e, più di tutto,
accattivante. Dobbiamo aiutare una società stanca e timorosa a
immaginarsi in un mondo migliore.
Caos climatico, colonialismo,
élite dedite alla rapina, democrazia disfunzionale. È impossibile
separare una crisi dall’altra: si sono tutte fuse insieme, come un
mostro a più teste
Theresa May ha condotto una campagna elettorale
cinica facendo leva sulla paura e sui traumi degli inglesi per
accaparrarsi più potere – prima la paura di un cattivo accordo per la
Brexit, poi quella per gli orribili attentati terroristici a Manchester e
Londra.
Il Labour e il suo leader hanno invece risposto
concentrandosi sulle cause: una «guerra al terrore» fallita, le
diseguaglianze economiche e una democrazia indebolita. E soprattutto
avete presentato agli elettori un programma coraggioso e dettagliato, un
piano per migliorare in modo tangibile la vita di milioni di persone:
istruzione e sanità gratuite, un’azione aggressiva contro il cambiamento
climatico.
Dopo decenni di aspettative al ribasso e di
un’immaginazione politica asfittica, finalmente gli elettori hanno avuto
qualcosa di promettente ed entusiasmante a cui dire «sì».
Le
persone vogliono un cambiamento profondo – lo richiedono a gran voce. Il
problema è che in fin troppi paesi è solo l’estrema destra a offrirlo,
con un mix tossico di finto populismo economico e reale razzismo.
In
questi ultimi mesi il partito laburista ha dimostrato che esiste
un’altra via. Una via che parla la lingua della decenza e della
giustizia, che non teme di chiamare col loro nome le forze responsabili
di questa crisi, senza timore del loro potere.
Le passate elezioni
hanno anche evidenziato un’altra cosa: che i partiti politici non
devono temere la creatività e l’indipendenza dei movimenti civili – e
che a loro volta i movimenti civili hanno molto da guadagnare
dall’incontro con la politica tradizionale.
È un dato molto
importante, perché i partiti tendono a voler esercitare il controllo,
mentre i movimenti dal basso tengono alla loro indipendenza e sono quasi
impossibili da controllare. Ma ciò che testimonia il rapporto tra
Labour e Momentum (il movimento che sostiene Corbyn, ndr), o con altre
ottime organizzazioni, è la possibilità di combinare il meglio di
entrambi questi mondi e dare vita a una forza al contempo più agile e
incisiva di qualunque impresa condotta in solitudine da partiti o
movimenti.
Ciò che è accaduto in Gran Bretagna è parte di un
fenomeno globale. È un’ondata guidata da giovani che sono entrati
nell’età adulta nel momento del collasso del sistema finanziario, e
mentre la catastrofe climatica ha iniziato a bussare alla porta. Molti
vengono da movimenti come Occupy Wall Street, o gli Indignados in
Spagna.
Hanno cominciato dicendo no: all’austerità, ai salvataggi
delle banche, al fracking e agli oleodotti. Ma col tempo hanno capito
che la sfida più grande è il superamento della guerra dichiarata dal
neoliberismo al nostro immaginario collettivo, alla nostra capacità di
credere in qualcosa al di là dei suoi cupi confini.
L’abbiamo
visto accadere con la storica campagna alle primarie di Bernie Sanders,
alimentata dai millennial consapevoli che una prudente politica
centrista non offre loro alcun futuro. Abbiamo visto qualcosa di simile
con il giovane partito spagnolo Podemos, erettosi sulla forza dei
movimenti di massa sin dal primo giorno.
Campagne elettorali, le
loro, che si sono infiammate a velocità incredibile. E sono arrivati
vicini alla vittoria – più vicini di qualunque altro movimento politico
genuinamente progressista statunitense o europeo di cui sia stata
testimone nel corso della mia vita. Ma non abbastanza vicini.
Per
questo, nel tempo che ci separa delle elezioni, dobbiamo pensare a come
assicurarci che, la prossima volta, i nostri movimenti arrivino fino in
fondo.
In tutti i nostri paesi, dobbiamo fare in modo di
sottolineare il legame tra ingiustizia economica, razziale e di genere.
Ci spetta capire, e spiegare, come i sistemi di potere che mettono un
gruppo in posizione dominante rispetto agli altri – sulla base del
colore della pelle, della religione, dell’orientamento sessuale e di
genere – servano sempre gli interessi del potere e del denaro.
È
nostro dovere evidenziare il rapporto tra gig economy – che tratta gli
esseri umani come materie prime da cui estrarre ricchezza per poi
buttarle – e dig economy, quella delle industrie estrattive che trattano
la terra con la stessa indifferenza.
Dobbiamo indicare la strada
per passare a una società fondata sulla cura reciproca e del pianeta,
dove il lavoro di chi protegge la nostra terra e la nostra acqua viene
stimato e rispettato. Un mondo dove nessuno, da nessuna parte, viene
abbandonato – che si tratti di un edificio popolare in fiamme (come
Grenfell a Londra, ndr) o di un’isola prostrata da un uragano.
È
il momento di innalzare le nostre ambizioni e dimostrare come la
battaglia al cambiamento climatico sia una sfida epocale per costruire
una società più giusta e democratica.
Perché mentre usciamo
rapidamente dall’epoca dei combustibili fossili, non potremo replicare
la concentrazione del benessere e l’ingiustizia proprie dell’economia
del petrolio e del carbone, in cui le centinaia di miliardi di profitti
sono stati privatizzati, mentre i tremendi rischi che ne conseguono sono
pubblici.
Sanders, Podemos e Corbyn dimostrano che partiti e movimenti devono allearsi. I millennial non sopportano le false promesse
Il
nostro motto deve essere: lasciamoci alle spalle il gas e il petrolio,
ma non lasciamo indietro nessun lavoratore. Ci spetta immaginare un
sistema in cui sia chi inquina a pagare la maggior parte del costo della
transizione.
E in paesi ricchi come la Gran Bretagna o gli Stati
Uniti, abbiamo bisogno di politiche sull’immigrazione e di una finanza
internazionale che riconoscano il nostro debito nei confronti del sud
del mondo – il nostro ruolo storico nella destabilizzazione delle
economie e delle ecologie di paesi poveri per lunghissimi anni, e
l’immensa ricchezza estratta da queste società sotto forma di esseri
umani ridotti in schiavitù.
Più il partito laburista sarà
ambizioso, perseverante e globale nel dipingere l’immagine di un mondo
trasformato, più credibile diventerà un suo governo.
In tutto il
mondo, vincere è un imperativo morale per la sinistra. La posta in gioco
è troppo alta, e il tempo che ci resta troppo poco, per accontentarci
di niente di meno.
Testo estratto dal discorso pronunciato il 26
settembre scorso alla conferenza del partito laburista di Brighton,
courtesy LabourPress.
Traduzione in italiano di Giovanna Branca
L’ultimo
libro di Naomi Klein si chiama «No is not enough» ed è stato pubblicato
da Haymarket books a giugno scorso. L’edizione italiana uscirà per
Feltrinelli