domenica 1 ottobre 2017

il manifesto 1.10.17
«La sinistra deve fare una vera rivoluzione morale»
Naomi Klein. Nel discorso al Labour la cura dei lavoratori, del pianeta e delle persone deve far parte dello stesso programma. Perché oggi è impossibile separare una crisi dall’altra: caos climatico, colonialismo, élite dedite alla rapina e democrazia disfunzionale si sono tutte fuse insieme, come un mostro a più teste. I millennial non sopportano le false promesse. Sanders, Podemos e Corbyn dimostrano che partiti e movimenti devono allearsi
Naomi Klein alla conferenza del Labour di Brighton il 26 settembre scorso

La situazione là fuori è desolante. Come descrivere un mondo capovolto?
Capi di stato che twittano minacce di distruzione nucleare, intere regioni sconvolte dai cambiamenti climatici, migliaia di migranti che affogano lungo le coste dell’Europa e partiti apertamente razzisti che guadagnano terreno, nel caso più recente – e allarmante – in Germania.
Faccio solo un esempio, i Caraibi e gli Stati Uniti del Sud sono nel pieno di una stagione degli uragani senza precedenti. Porto Rico è completamente senza energia elettrica, e potrebbe restarlo per mesi, il suo sistema idrico e quello di comunicazione sono gravemente compromessi.
Su quell’isola, tre milioni e mezzo di cittadini americani hanno un disperato bisogno dell’aiuto del loro governo. Ma, come durante l’uragano Katrina, la cavalleria stenta ad arrivare. Donald Trump è troppo impegnato a cercare di far licenziare atleti neri, colpevoli di aver osato attirare l’attenzione sulla violenza razzista.
Per quanto sia incredibile, non è ancora stato annunciato un pacchetto federale di aiuti per Porto Rico. Secondo alcune analisi, sono già stati spesi più soldi per rendere sicuri i viaggi presidenziali a Mar-a-Lago.
E se tutto questo non fosse già abbastanza, hanno anche cominciato a spuntare gli avvoltoi: la stampa economica ribolle di articoli che spiegano come l’unico modo per far tornare la luce a Porto Rico sia vendere il loro sistema energetico nazionale. Magari anche le loro strade e i loro ponti.
Ho soprannominato questo fenomeno la «Dottrina dello Shock»: lo sfruttamento di crisi strazianti per approvare politiche che erodono la sfera pubblica e arricchiscono ulteriormente una ristretta èlite.
Abbiamo visto questo lugubre circolo vizioso ripetersi ogni volta: dopo la crisi finanziaria del 2008, e oggi con i Tories che vogliono sfruttare la Brexit per far passare senza dibattito dei disastrosi accordi commerciali che avvantaggeranno le corporation.
Ho messo in evidenza Porto Rico perché lì la situazione è particolarmente urgente, ma anche perché rappresenta il microcosmo di una crisi globale molto più vasta, che contiene molti degli stessi elementi: un caos climatico sempre più rapido, storie colonialiste, una sfera pubblica debole e trascurata, una democrazia completamente disfunzionale.
La nostra è un’epoca in cui è impossibile separare una crisi dall’altra: si sono tutte fuse insieme, rinforzandosi e sprofondandosi a vicenda, come un mostro a più teste sull’orlo del collasso.
Si può pensare al presidente degli Stati uniti nello stesso modo. Avete presente quell’orribile blob di grasso che sta intasando le fogne londinesi, che voi chiamate fatberg? Trump è il suo equivalente politico. Un concentrato di tutto ciò che è nocivo a livello culturale, economico e politico, tutto appiccicato insieme in una massa autoadesiva che abbiamo molte difficoltà a rimuovere.
Che si tratti di cambiamento climatico o di minaccia nucleare, Trump rappresenta una crisi che rischia di echeggiare attraverso molte ere geologiche.
Ma i momenti di crisi non devono necessariamente seguire la strada della «Dottrina dello Shock», non sono destinati per forza a creare opportunità per chi è già schifosamente ricco di arricchirsi ancora di più. Possono anche andare nella direzione opposta.
Possono rappresentare dei momenti in cui scopriamo il meglio di noi, e riusciamo a fare appello a riserve di forza e determinazione che non sapevamo di avere.
(…) Ma non è solo a livello della società civile che possiamo osservare il risveglio di qualcosa di ammirevole in noi quando si verifica una catastrofe. Esiste una lunga e gloriosa storia di trasformazioni progressiste a livello sociale innescate dalle crisi. Basta pensare alle vittorie della working class per quanto riguarda l’edilizia popolare all’indomani della prima guerra mondiale, o per il sistema sanitario nazionale dopo la seconda.
Questo ci dovrebbe ricordare che i momenti di grande difficoltà e pericolo non devono necessariamente riportarci indietro: possono anche catapultarci in avanti.
Queste lotte progressiste però non vengono mai vinte solo resistendo, o opponendosi all’ultimo di una lunga serie di oltraggi.
Per trionfare in un momento di vera crisi dobbiamo anche essere in grado di pronunciare dei coraggiosi e lungimiranti «sì»: un piano per ricostruire e affrontare le cause che soggiacciono alla crisi.
E questo piano deve essere convincente, credibile e, più di tutto, accattivante. Dobbiamo aiutare una società stanca e timorosa a immaginarsi in un mondo migliore.
Caos climatico, colonialismo, élite dedite alla rapina, democrazia disfunzionale. È impossibile separare una crisi dall’altra: si sono tutte fuse insieme, come un mostro a più teste
Theresa May ha condotto una campagna elettorale cinica facendo leva sulla paura e sui traumi degli inglesi per accaparrarsi più potere – prima la paura di un cattivo accordo per la Brexit, poi quella per gli orribili attentati terroristici a Manchester e Londra.
Il Labour e il suo leader hanno invece risposto concentrandosi sulle cause: una «guerra al terrore» fallita, le diseguaglianze economiche e una democrazia indebolita. E soprattutto avete presentato agli elettori un programma coraggioso e dettagliato, un piano per migliorare in modo tangibile la vita di milioni di persone: istruzione e sanità gratuite, un’azione aggressiva contro il cambiamento climatico.
Dopo decenni di aspettative al ribasso e di un’immaginazione politica asfittica, finalmente gli elettori hanno avuto qualcosa di promettente ed entusiasmante a cui dire «sì».
Le persone vogliono un cambiamento profondo – lo richiedono a gran voce. Il problema è che in fin troppi paesi è solo l’estrema destra a offrirlo, con un mix tossico di finto populismo economico e reale razzismo.
In questi ultimi mesi il partito laburista ha dimostrato che esiste un’altra via. Una via che parla la lingua della decenza e della giustizia, che non teme di chiamare col loro nome le forze responsabili di questa crisi, senza timore del loro potere.
Le passate elezioni hanno anche evidenziato un’altra cosa: che i partiti politici non devono temere la creatività e l’indipendenza dei movimenti civili – e che a loro volta i movimenti civili hanno molto da guadagnare dall’incontro con la politica tradizionale.
È un dato molto importante, perché i partiti tendono a voler esercitare il controllo, mentre i movimenti dal basso tengono alla loro indipendenza e sono quasi impossibili da controllare. Ma ciò che testimonia il rapporto tra Labour e Momentum (il movimento che sostiene Corbyn, ndr), o con altre ottime organizzazioni, è la possibilità di combinare il meglio di entrambi questi mondi e dare vita a una forza al contempo più agile e incisiva di qualunque impresa condotta in solitudine da partiti o movimenti.
Ciò che è accaduto in Gran Bretagna è parte di un fenomeno globale. È un’ondata guidata da giovani che sono entrati nell’età adulta nel momento del collasso del sistema finanziario, e mentre la catastrofe climatica ha iniziato a bussare alla porta. Molti vengono da movimenti come Occupy Wall Street, o gli Indignados in Spagna.
Hanno cominciato dicendo no: all’austerità, ai salvataggi delle banche, al fracking e agli oleodotti. Ma col tempo hanno capito che la sfida più grande è il superamento della guerra dichiarata dal neoliberismo al nostro immaginario collettivo, alla nostra capacità di credere in qualcosa al di là dei suoi cupi confini.
L’abbiamo visto accadere con la storica campagna alle primarie di Bernie Sanders, alimentata dai millennial consapevoli che una prudente politica centrista non offre loro alcun futuro. Abbiamo visto qualcosa di simile con il giovane partito spagnolo Podemos, erettosi sulla forza dei movimenti di massa sin dal primo giorno.
Campagne elettorali, le loro, che si sono infiammate a velocità incredibile. E sono arrivati vicini alla vittoria – più vicini di qualunque altro movimento politico genuinamente progressista statunitense o europeo di cui sia stata testimone nel corso della mia vita. Ma non abbastanza vicini.
Per questo, nel tempo che ci separa delle elezioni, dobbiamo pensare a come assicurarci che, la prossima volta, i nostri movimenti arrivino fino in fondo.
In tutti i nostri paesi, dobbiamo fare in modo di sottolineare il legame tra ingiustizia economica, razziale e di genere. Ci spetta capire, e spiegare, come i sistemi di potere che mettono un gruppo in posizione dominante rispetto agli altri – sulla base del colore della pelle, della religione, dell’orientamento sessuale e di genere – servano sempre gli interessi del potere e del denaro.
È nostro dovere evidenziare il rapporto tra gig economy – che tratta gli esseri umani come materie prime da cui estrarre ricchezza per poi buttarle – e dig economy, quella delle industrie estrattive che trattano la terra con la stessa indifferenza.
Dobbiamo indicare la strada per passare a una società fondata sulla cura reciproca e del pianeta, dove il lavoro di chi protegge la nostra terra e la nostra acqua viene stimato e rispettato. Un mondo dove nessuno, da nessuna parte, viene abbandonato – che si tratti di un edificio popolare in fiamme (come Grenfell a Londra, ndr) o di un’isola prostrata da un uragano.
È il momento di innalzare le nostre ambizioni e dimostrare come la battaglia al cambiamento climatico sia una sfida epocale per costruire una società più giusta e democratica.
Perché mentre usciamo rapidamente dall’epoca dei combustibili fossili, non potremo replicare la concentrazione del benessere e l’ingiustizia proprie dell’economia del petrolio e del carbone, in cui le centinaia di miliardi di profitti sono stati privatizzati, mentre i tremendi rischi che ne conseguono sono pubblici.
Sanders, Podemos e Corbyn dimostrano che partiti e movimenti devono allearsi. I millennial non sopportano le false promesse
Il nostro motto deve essere: lasciamoci alle spalle il gas e il petrolio, ma non lasciamo indietro nessun lavoratore. Ci spetta immaginare un sistema in cui sia chi inquina a pagare la maggior parte del costo della transizione.
E in paesi ricchi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, abbiamo bisogno di politiche sull’immigrazione e di una finanza internazionale che riconoscano il nostro debito nei confronti del sud del mondo – il nostro ruolo storico nella destabilizzazione delle economie e delle ecologie di paesi poveri per lunghissimi anni, e l’immensa ricchezza estratta da queste società sotto forma di esseri umani ridotti in schiavitù.
Più il partito laburista sarà ambizioso, perseverante e globale nel dipingere l’immagine di un mondo trasformato, più credibile diventerà un suo governo.
In tutto il mondo, vincere è un imperativo morale per la sinistra. La posta in gioco è troppo alta, e il tempo che ci resta troppo poco, per accontentarci di niente di meno.
Testo estratto dal discorso pronunciato il 26 settembre scorso alla conferenza del partito laburista di Brighton, courtesy LabourPress.
Traduzione in italiano di Giovanna Branca
L’ultimo libro di Naomi Klein si chiama «No is not enough» ed è stato pubblicato da Haymarket books a giugno scorso. L’edizione italiana uscirà per Feltrinelli

Il Fatto 1.10.17
L’invenzione del razzismo
di Furio Colombo

Capitolo primo: il tricolore
Da quando Italia è Italia gli italiani non sono mai stati amici intimi e fidati degli altri italiani. La spaccatura fra Nord e Sud era arrivata al punto dei memorabili cartelli sui portoni di Torino (anni 50): “Non si affitta ai napoletani”. C’è sempre stato in Italia il dominio (anche quando era onesto e non implicava corruzione) delle affinità di regione e anche di area. Chi, quando avrebbe detto la frase che è rimasta impronunciabile dal dopo Cavour fin quasi ai giorni nostri “l’Italia agli Italiani” ? Più strana ancora, e del tutto estranea alla vena culturale di questo Paese il logo “Prima gli italiani”.
Prima di chi, di che cosa, a meno che si stesse parlando di calcio? Ricordiamoci tre eventi esemplari. Primo: le bandiere italiane compaiono dovunque, dal Quirinale ai bassi di Napoli e persino sulle stazioni di benzina, solo alla vigilia di una partita internazionale ritenuta importante.
Secondo: in tutte le campagne italiane la bandiera tricolore segnala tuttora un punto vendita del coltivatore diretto che apre un banco dei suoi prodotti (il famoso km zero) su strade locali.
Terzo, quando Italia e italiani si sono sentiti coinvolti in un grande e pauroso affare internazionale, la guerra in Iraq (2003), sono comparse in tutto il Paese, milioni di bandiere arcobaleno, non di bandiere italiane, per dire “Pace”.
La gente sapeva benisssimo (persino i tanti che non ne potevano avere memoria personale) che l’esposizione in massa di bandiere tricolori avrebbe voluto dire guerra.
Dunque questo è un Paese di patriottismo di fatto, schivo di simboli nazionali fondato su un forte legame con un luogo, un borgo, un quartiere.
Capitolo secondo: autostima di Italia e di italiani
Chiunque abbia seguito la lunga lotta e i molti vittoriosi (ma non immediati) esiti del “made in Italy” conosce bene il percorso: la fiducia italiana per l’Italia è arrivata attraverso successi, a volte trionfali, ottenuti, riconosciuti, celebrati in altri Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti. La piccola Olivetti Lettera 22 si è affermata nel mondo (e riconosciuta non solo da milioni di compratori ma anche dai musei) quando è stata montata su una colonnina di ferro lungo un marciapiede della Fifth Avenue di New York in modo che i passanti potessero provare a scrivere.
Dopo la morte inaspettata e improvvisa di Olivetti, eminenti uomini di azienda italiani, chiamati a valutare il che fare, non si sono accorti che era pronto alla Olivetti, il primo grande computer europeo ed era pronta la tecnologia per il primo personal computer italiano. E tutto ciò ben prima dei miracoli della Silicon Valley.
Hanno preferito comprare IBM e poi Apple e Microsoft, e abbandonare il doppio capolavoro italiano che viaggiava con 20 anni di anticipo.
Come mai adesso mentre abbiamo spostato in America persino la Fiat e tutto il suo indotto, e mentre migliaia di borghi e villaggi sono spopolati e i bambini non nascono, sentiamo dire e ripetere, fra uno sventolio di bandiere, che “l’Italia appartiene agli Italiani” benché sia stata sempre svenduta o lasciata perdere o lasciata andare?
Capitolo terzo: che cosa hanno avuto gli italiani dall’Italia
Abbiamo detto fin dall’inizio che gli italiani sono scettici sul loro Paese, non si fidano dei connazionali e sono certi di non ricevere il dovuto. Una classe dirigente infima, distratta e corrotta per parare il problema del rendere conto del non fatto o del sottratto, ha inventato guerre che sono come gli incendi dolosi estivi: basta un accendino e divori una foresta. Provo a elencarle.
– Guerra delle paghe. Oltre a essere sempre più modeste sono anche sempre più incerte. Provocano sottomissione o rabbia. Gli immigrati si prestano come colpevoli (appena li fai mangiare e dormire o curare in ospedale), per sostenere che stanno rubando a te il dovuto.
– Guerra della rabbia. I migranti servono a sfogare la rabbia che un tempo provocava e induriva gli scontri politici, sociali e i reclami del lavoro. Nessun potente ti leva più niente o ti priva del dovuto. Sono loro, i migranti che si intromettono senza diritto. E per giunta, come ha detto una donna alla signora eritrea che voleva occupare la sua casa regolarmente affittata nei quantieri dei Trulli, è di pelle nera.
– Guerra dell’invasione. Avviene in un Paese spopolato, senza figli, dove le persone, rese infelici dagli inganni politici, dalla solitudine esistenziale e dalla mancanza di futuro, vengono persuase di un furto che non si può perdonare: ti rubano, loro e i loro figli, il futuro. E così nasce, lungo un percorso calcolato bene, l’incattivito razzismo italiano.

Corriere 1.10.17
Ipocrisie e ius soli
di Ernesto Galli della Loggia

L’incerta gestione politica che il Pd ha fatto della legge sulla cittadinanza e il relativo rimpallo di responsabilità non devono far perdere di vista il merito del provvedimento. Che è giusto che vada in porto — dal momento che alla necessaria integrazione degli immigrati serve una simile legge — ma con alcune modifiche dettate da circostanze che fin qui, invece, non sembrano essere state prese in considerazione. Circostanze che secondo me sono soprattutto le seguenti:
1) Se è demagogica l’immagine agitata dalla Destra di un’Italia a rischio d’invasione dall’Africa, è pure demagogica e falsa l’idea divulgata da certa Sinistra e da certo cattolicesimo, che approvare la legge sarebbe dettato da un elementare dovere di umanità. Fino a prova contraria, infatti, coloro che oggi si trovano in Italia, tanto più se con un regolare permesso di soggiorno (ed è a questa condizione che fa sempre riferimento anche il progetto di legge) non si trovano certo in una condizione di reietti, di non persone prive di diritti. Non sono condannati a un’esistenza immersa nell’illegalità.
E ssi e i loro figli, nati o no che siano qui da noi, sono protetti dai codici e dalla giustizia della Repubblica, hanno diritto all’assistenza sanitaria, hanno diritto a fruire del sistema d’istruzione italiano, possono iscriversi a un partito o a un sindacato. Non sono dei paria, insomma.
2) La cittadinanza una volta concessa non può essere tolta se non eccezionalmente. È una decisione in sostanza irrevocabile. Ma concederla o non concederla è una decisione che deve ispirarsi a criteri esclusivamente politici (non giuridici: nessuno ha diritto a divenire cittadino di alcun Paese se una legge non glielo riconosce. Non esiste, infatti, né può esistere, una sorta di diritto «naturale» a essere cittadino di questo o quello Stato: tanto più quando, come è ovviamente il caso di tutti coloro che mettono piede in Italia, si tratta di persone che una cittadinanza già ce l’hanno). Ho detto criteri politici: vorrei sottolineare «drammaticamente» politici, dal momento che con una nuova legge sulla cittadinanza come quella oggi in discussione si tratta niente di meno che di modificare il demos storico di un Paese.
Proprio perciò nel definire i caratteri di una tale legge una classe politica degna del nome non dovrebbe guardare solo all’oggi ma al domani e al dopodomani. Immaginare tutti i possibili sviluppi della situazione attuale valutando attentamente ogni eventualità.
3) In questa valutazione non può esserci posto per alcuna ipocrisia dettata dal politicamente corretto: bensì solo per il realismo, per un saggio realismo. Ora questo ci dice che non tutte le immigrazioni sono eguali (e dunque alla cortese obiezione che mi ha mosso il direttore di Repubblica Mario Calabresi circa la mia proposta di vietare la doppia cittadinanza — «non si capisce perché sia lecito e pacifico poter avere il passaporto italiano e quello statunitense ma sospetto mantenere quello marocchino o senegalese» — la risposta è semplice: perché il Marocco e il Senegal non sono gli Stati Uniti).
L’immigrazione islamica, infatti, è un’immigrazione particolare per almeno due ordini di ragioni: a) perché non proviene da uno Stato ma da una civiltà, da una cultura mondiale rappresentata da oltre una ventina di Stati, e con la quale la cultura occidentale ha avuto un aspro contenzioso millenario che ha lasciato da ambo le parti tracce profondissime; b) perché alcuni degli Stati islamici di cui sopra mostrano — non finga la politica di non sapere e non vedere certe cose — un particolare, diciamo così, dinamismo antioccidentale. Da un lato, alimentando sotterraneamente radicalismo e terrorismo, dall’altro (ed è soprattutto questo che deve interessarci) svolgendo un’insidiosa opera di penetrazione di natura finanziaria nell’ambito economico, e di natura politico-religiosa (apertura di moschee e di «centri culturali») all’interno delle comunità islamiche presenti nella Penisola. Le quali da tutto questo lavorio ricavano la spinta a un forte compattamento cultural-identitario di un contenuto tutt’altro che democratico (ci si ricordi per esempio dei sentimenti antiisraeliani/antisemiti già così diffusi in quel mondo).
4) La cittadinanza significa il diritto di voto. In una tale prospettiva e alla luce di quanto appena detto è necessario evitare nel modo più assoluto che, complice il prevedibile aumento dell’immigrazione africana e non solo, domani possa sorgere la tentazione di un partito islamico. Il quale, sebbene forte di solo il 3-4 per cento dei voti, tuttavia, con l’aiuto del proporzionalismo congenito del nostro sistema politico, potrebbe facilmente diventare cruciale per la formazione di una maggioranza di governo. C’è qualcuno che ha pensato a queste cose, a evitare che esse possano prendere una simile piega?
In realtà la legge di cui stiamo discutendo si chiama impropriamente dello ius soli mentre molto meglio sarebbe pensare a una legge fondata sullo ius loci .
Il testo attuale, infatti, non riconosce per nulla l’essere nato in Italia come condizione sufficiente per ottenere la cittadinanza, come dovrebbe fare una legge realmente ispirata a quel principio. Vi aggiunge essa per prima condizioni ulteriori di natura culturale e non, le quali riguardano sia il richiedente sia la sua famiglia (l’adempimento di un ciclo scolastico, il possesso di un regolare permesso di soggiorno da parte di un genitore, ecc.) sono personalmente convinto che a queste condizioni sia opportuno aggiungerne altre, in obbedienza a un principio basilare: e cioè che vanno, e possono essere, integrate le persone, non le comunità. E che proprio per far ciò è necessario, nei limiti del possibile e rispettando i diritti di tutti, cercare di allentare il più possibile il vincolo identitario-cultural-comunitario che spesso, specialmente nelle comunità islamiche, chiude gli individui in un involucro antropologico ferreo (si pensi alla condizione delle ragazze e delle donne in genere). Solo allentando un tale vincolo è possibile il reale passaggio a una nuova appartenenza ideale e pratica quale è richiesta dal partecipare realmente a una nuova cittadinanza.
Per favorire e insieme accertare quanto ora detto penso che almeno queste altre tre condizioni dovrebbero essere poste per ottenere la cittadinanza italiana da parte degli immigrati: l’obbligo di abbandonare la cittadinanza precedente; la conoscenza della lingua italiana in entrambi i genitori del giovane candidato, non già solo in uno di essi come nel testo attuale (genitore che poi finirebbe per essere quasi sempre il genitore maschio: mentre la conoscenza dell’italiano anche nella madre costituirebbe un indizio assai significativo di superamento della condizione d’inferiorità della donna tipica di molte culture diverse dalla nostra); infine l’obbligo di accertamenti sull’ambiente familiare a opera dei servizi sociali sotto l’egida di un apposito ufficio presso ogni prefettura.

il manifesto 1.10.17
Cento piazze e «un’invettiva», la Cgil per la libertà delle donne
Mobilitazione nazionale. Susanna Camusso spiega: Le parole sono armi contro le donne, spesso le narrazioni di stupri e femminicidi sono tossiche, vogliono ricacciarci indietro, ma non passerà
di Rachele Gonnelli

«Le parole possono essere armi, parole stravolte nel loro senso e che finiscono per essere usate contro le donne, come abbiamo visto in tutto il mese di settembre. E proprio non si può lasciarlo passare». Susanna Camusso, leader della Cgil, spiega così, sotto il palco di piazza Venezia, il senso della giornata di mobilitazione del principale sindacato per protestare contro la violenza sulle donne, la depenalizzazione del reato di stalking, e più in generale contro una narrativa tossica per cui stupri e femminicidi diventano spesso un processo alle vittime: cosa indossavano, erano troppo allegre, avevano bevuto, troppo nottambule, avevano un altro partner e così via.
IL LINGUAGGIO è così al centro di una manifestazione sindacale , Susanna Camusso lo ribadisce anche dal microfono di quella che è sono una delle decine di piazze nella quale la giornata per la libertà delle donne della Cgil si è articolata. «Segnaliamo un problema culturale, profondo», continua. È una critica esplicita «ai mass media, ma anche ai magistrati, ai politici, ai troppi silenzi maschili di chi maneggia le parole e proprio per questo ha una grossa responsabilità». Sono le parole ripetute dal palco dalla segretaria generale. Perché – come è scritto nell’appello nazionale lanciato dalla stessa Camusso e sottoscritto da decine di personalità femminili, incluse Luciana Castellina e Norma Rangeri, Bianca Berlinguer, Livia Turco, ieri apprezzato pubblicamente anche dalla presidente della Camera Laura Boldrini – «la violenza maschile sulle donne non è un problema delle donne, che non vogliono far vincere la paura e rinchiudersi dentro casa». E ancora: «Il linguaggio utilizzato dai media e il giudizio su chi subisce violenza, su come si veste o si diverte, rappresenta l’ennesima aggressione alle donne. Così come il ricondurre questi drammi a questioni etniche, religiose, o a numeri statistici, toglie senso alla tragedia e al silenzio di chi l’ha vissuta».
E LE CONDIZIONI DI LAVORO come entrano nel discorso sul linguaggio? Le donne non sarebbero più in grado di essere autonome e solidali di fronte a violenze e angherie se fossero più e meglio impiegate nei luoghi di lavoro? Com’è noto, l’Italia – dati Eurostat 2017 – resta penultima, quasi a pari merito con la Grecia, quanto a forza lavoro femminile impiegata. La percentuale di donne in età lavorativa (cioè dai 15 ai 64 anni) occupate in lavori extradomestici retribuiti sul totale delle donne di quelle età da noi resta al il 48,8 per cento, quando la media europea è del 61,1 per cento, e in alcuni paesi come la Svezia o la Germania supera largamente il 70 per cento.
«Certamente se le donne si trovassero di più nei luoghi di lavoro si sentirebbero meno sole, sarebbero più capaci di rompere il cerchio di solitudine delle violenze domestiche – risponde Susanna Camusso – anche se nei luoghi di lavoro spesso si trovano a vivere le stesse dinamiche della condizione generale, con in più talvolta le molestie. Ma affrontare il tema dell’occupabilità femminile significa – continua la leader della Cgil – parlare di asili, trasporti, pregiudizi sulla maternità, politiche sbagliate che erogano bonus invece di servizi, significa dire che non è più vero che le donne studiano di meno degli uomini, anzi, e che spesso trovano posti solo dequalificati. E c’è l’amarezza per noi – ammette da sindacalista – di dover sempre ricominciare da capo il discorso, perché mentre le donne, le ragazze, sono cambiate e sono cittadine del mondo come e più dei maschi, il racconto che viene fatto le ricaccia sempre indietro». E si torna al linguaggio.
E ALLA LIBERTÀ di scegliere, di uscire da logiche di ricatto e di subordinazione, in cui non viene riconosciuta la dignità di soggetto e si resta relegate in una condizione di oggetto, che sia preda o, nel migliore dei casi, vittima da tutelare. «Qualcuno ha definito il nostro appello un’invettiva – dice ancora Camusso dal palco romano – ed è vero. Gli appelli finora non sono serviti. Deve cambiare il modo di discutere di questi temi. Dietro i femminicidi non ci sono raptus, c’è solo l’idea che l’altra è un oggetto che possiedi e di cui puoi fare ciò che vuoi. Stiamo regredendo, ce lo dobbiamo dire: questi temi sono sempre più considerati solo delle donne». E lei schiera invece l’intera confederazione.

il manifesto 1.10.17
Il Gip: l’accusa delle due ragazze ai carabinieri è «estremamente verosimile»
Firenze. Per il Giudice delle indagini preliminari non c’è alcuna «macchinazione» da parte delle due studentesse statunitensi di 19 e 21 anni

Il racconto delle due studentesse americane che hanno denunciato di essere state violentate da due carabinieri in servizio, a Firenze, la notte del 6 settembre scorso, è «estremamente verosimile», e non c’è alcuna «macchinazione» da parte delle due statunitensi di 19 e 21 anni. Ad affermarlo è il Gip del tribunale di Firenze Mario Profeta che tra domani e dopodomani dovrebbe decidere la data dell’incidente probatorio richiesto dal pm titolare dell’inchiesta, Ornella Galeotti, per raccogliere la deposizione delle vittime. Le due ragazze, che sono rientrate negli Stati uniti, potrebbero essere sentite il prossimo 10 novembre, anche in teleconferenza se non dovessero riuscire a tornare in Italia.
La prima richiesta di incidente probatorio è stata respinta per un vizio di forma sollevato dagli avvocati difensori dei due carabinieri. Nell’ordinanza apposita, il giudice ripercorre la vicenda – come riferiscono i giornali locali – e definisce «estremamente verosimile l’ipotesi che i rapporti sessuali siano stati consumati contro la volontà o comunque senza un consapevole e percepibile consenso delle due ragazze».
Nel documento si riporta anche la trascrizione della prima telefonata alla polizia, giunta alle 3:48 del 7 settembre: «Venite a prenderci per favore. Violentati dalla polizia. Polizia macchina. La casa…». E la ricostruzione del racconto dettagliato delle violenze, confermato da altre due ragazze che coabitavano con le vittime e che le hanno raccolte in lacrime.
Per il Gip però non è necessaria l’interdizione dal servizio dei due carabinieri per un anno richiesta dal pm, in quanto si ritiene al momento sufficiente la sospensione disposta dall’Arma e inoltre «il clamore internazionale della vicenda non rende plausibile l’ipotesi di un rientro in servizio dei due indagati».

Repubblica 1.10.17
L’ordinanza
“A Firenze fu stupro contro i carabinieri nessun complotto”

FIRENZE. È «estremamente verosimile» che i rapporti sessuali avuti dalle due studentesse americane di 19 e 21 anni con i carabinieri Marco Camuffo, 46 anni e Pietro Costa, 32, in servizio a Firenze e intervenuti la notte fra il 6 e il 7 settembre in una discoteca, «siano stati consumati contro la volontà o comunque senza un consapevole e percepibile consenso delle due ragazze».
Lo scrive il gip Mario Profeta nell’ordinanza con la quale aveva rigettato la prima richiesta di incidente probatorio avanzata dalla procura. Sulla nuova richiesta della procura, il giudice deciderà all’inizio della settimana, ma sembra scontato il sì tanto che i legali si sono consultati sulla possibile data in cui ascoltare le ragazze che devono prenotare un volo (entrambe si trovano ora negli Stati Uniti): due le date ipotizzate, il 10 o il 20 novembre. Le violenze, secondo la ricostruzione delle giovani (a cui è stato riscontrato in ospedale, alcune ore dopo un tasso alcolemico di 1,59 e 1,68), sono state consumate sulle scale e nell’ascensore del palazzo dove le due abitavano. Lì i carabinieri le avevano accompagnate con la gazzella senza avvisare la centrale. Il giudice è convinto che quello che è emerso, e in particolare le prime dichiarazioni rese dalle studentesse, possano far escludere che loro abbiano orchestrato «una macchinazione» per accusare i due uomini.

il manifesto 1.10.17
Al Trullo, dove gli squadristi vanno a caccia di immigrati
di Giuliano Santoro

ROMA Prendete l’ingresso di una palazzina popolare in una periferia qualunque di Roma, trasformatelo in un non-luogo, avulso da ogni relazione sociale e ogni tipo di contesto, e fatene il set di uno teatrino razzista: «Roma ai romani», «Tolgono le case agli italiani per darle agli stranieri», «Il popolo italiano finalmente si ribella». Una cosa del genere è accaduta qualche giorno fa in via Giovanni Porzio, al Trullo, nel quadrante sud-ovest della capitale, quando un manipolo di estremisti di destra ha impedito che una casa popolare venisse consegnata alla famiglia che ne era legittima assegnataria. Tra di essi compariva Giuliano Castellino, volto noto del neofascismo romano con qualche inciampo nella droga (un paio d’anni fa nella sella del suo scooter venne ritrovato un etto di cocaina) e il tentato abboccamento nella destra di governo (c’era lui dietro l’operazione de Il Popolo di Roma, che all’epoca di Gianni Alemanno doveva costituire la base militante della scalata dell’allora sindaco al potere).
E ALLORA CONVIENE FARSELO, un giro al Trullo, per scoprire che quello della borgata in preda alla «guerra tra poveri», via di mezzo tra la legge della giungla e il codice del ghetto, è soltanto uno stereotipo. Tanto per cominciare, di Trullo ce ne stanno almeno due. Da una parte c’è la collina di Monte Cucco, dove sorgono le palazzine in cortina dell’Ater, teatro del raid xenofobo dell’altro giorno. Da qui, scorgendo oltre qualche ettaro di agro romano, si vede il «colosseo quadrato» dell’Eur. Il Palazzo della Civiltà italiana che si erge in mezzo alla zona residenziale e degli affari che per conformazione sociale e tradizione politica poco ha a che fare con la Roma popolare. «Pare un pezzo di Roma Nord catapultato da queste parti», dicono gli abitanti. Monte Cucco viene a sua volta percepito come un luogo a parte, circostanza abbastanza frequente nella Roma scollata e disunita frutto di decenni di urbanistica dissennata.
Nell’arcipelago di enclave che a volte pare essere diventata la città, la protuberanza di Monte Cucco viene percepita da alcuni come separata dal resto del Trullo, dove vive la maggioranza dei 30 mila abitanti. Più in basso, oltrepassati prima gli orti urbani che conducono alle palazzine popolari e poi la frontiera immaginaria rappresentata proprio dall’asse di via del Trullo, si dipana l’altra zona, quella di Monte delle Capre. È da queste parti che nel dopoguerra venne edificata la Rectaflex, la prima fabbrica italiana di macchine fotografiche Reflex. La fabbrica oggi ospita diverse attività per il quartiere. Al posto della sala saldature c’è un piccolo teatro. Dove sorgevano gli uffici e l’officina, una biblioteca di quartiere retta dall’attività di volontari.
«Un paio di anni fa circa – raccontano – veniva qui a prendere dei libri una donna eritrea. Anche lei aveva avuto la casa da quella parte». «Da quella parte» significa Monte Cucco. «Quella donna era molto spaventata – prosegue la nostra interlocutrice – raccontava di aver trovato un ambiente ostile, di aver dovuto mettere le grate alla finestra perché le entravano in casa al solo scopo di intimidirla». Come è andata a finire? «Deve essere andata via – ci dicono – perché non l’abbiamo più vista da queste parti, non è più venuta in biblioteca».
«ADESSO SI PARLERÀ soltanto dei razzisti, pareva che con la storia dei poeti e dei pittori fossimo riusciti a dargli un’altra immagine, a ‘sto quartiere», dicono al mercato, mentre si fa la spesa sotto il sole d’inizio autunno. Pare strano che Benito Mussolini, come si racconta, giusto in una giornata di ottobre di 77 anni fa, vedendo le case popolari, esclamò: «Sembrano caserme più che abitazioni». Quello che all’epoca si chiamava ancora Villaggio Costanzo Ciano, aveva il pregio strategico di trovarsi a ridosso della linea ferroviaria che da Roma conduceva a Civitavecchia. Ecco perché vi venne insediata una fabbrica di filo spinato, merce di cui doveva esserci grande richiesta nel periodo tra la Prima guerra mondiale e il fascismo. I «poeti e pittori» sono gli artisti metropolitani che hanno rilanciato la lingua del Belli scrivendo sui muri, e che hanno decorato il quartiere tempestandolo di graffiti.
Le periferie romane covano rabbia sotto la cenere lasciata dal fuoco di paglia dei proclami elettorali. L’altro giorno il leader di Forza Nuova Roberto Fiore ha annunciato che i quartieri in cui la sua formazione «riempie il vuoto lasciato dal Movimento 5 Stelle, che ormai ha perso totalmente consenso» sono Monte Cucco, Tor Bella Monaca, Magliana, Tor San Lorenzo, Tiburtino III e il Tufello, disegnando con precisione millimetrica la mappa dei luoghi della città teatro negli ultimi mesi di lugubri «marce per la sicurezza», minacce a centri di accoglienza, aggressioni. «Stiamo diventando egemoni», dice Fiore.
Si tratta di esagerazioni mitomaniache tipiche del personaggio, ma appare certo che dopo la valanga di voti che tutte le periferie romane hanno consegnato a Virginia Raggi, accerchiando letteralmente gli unici due municipi del centro storico in cui ha vinto il Pd, sono in cerca di un senso di fronte ai vuoti della nuova amministrazione. Ma la propaganda ha le gambe corte: al Tiburtino III è bastato che i comitati di abitanti, quelli veri non infiltrati da neofascisti, si organizzassero per far emergere la verità.
AFFACCIA SUL MERCATO del Trullo, in cima ad una scalinata, lo storico centro sociale Ricomincio dal Faro, che prende origine dall’occupazione di un cinema di ormai trent’anni fa e che assieme alla palestra popolare della ex scuola Baccelli in via Orciano Pisani costituisce un nodo di solidarietà del quartiere. Si trova proprio a Monte Cucco, «da quella parte», di fronte all’appartamento presidiato da Forza Nuova. «Certo che nel nostro territorio ci sono delle contraddizioni – raccontano – ma i razzisti come quelli dell’altro giorno vengono da altrove, qui non li conosce nessuno, fanno interventi spot, mordi e fuggi e poi vanno via. Noi abbiamo piena legittimità nel quartiere, ci muoviamo senza problemi. Proprio nello scorso mese di luglio in quel posto abbiamo fatto una festa popolare».

Il Fatto 1.10.17
Ci vuole un miracolo per unire la sinistra
di Antonio Padellaro

“C’è bisogno di una nuova forza di sinistra”.
Massimo D’alema. Corriere della Sera

Dicono le previsioni di voto che se alle prossime regionali in Sicilia il candidato del Pd, Fabrizio Micari (13%) e quello della sinistra, Claudio Fava (10%) unissero le forze per sostenere uno dei due, probabilmente non riuscirebbero lo stesso a eleggere il nuovo presidente ma darebbero per la prima volta dopo tanto tempo l’immagine di un centrosinistra unito e competitivo. Diciamo subito che non succederà almeno finché in questa interminabile guerra civile l’obiettivo comune dei due tronconi sarà di farsi la pelle a vicenda.
Succede così ad ogni elezione dove il Pd punta a sopprimere la sinistra mentre la sinistra lavora per indebolire il candidato Pd e il Pd stesso.
Caso di scuola la Liguria dove nel 2015 tra pugnali e veleni il centrosinistra riuscì a sbagliare un gol a porta vuota prendendosi a calci negli stinchi e consegnando su un piatto d’argento la Regione al centrodestra di Giovanni Toti.
Tutto merito, si fa per dire, di Matteo Renzi che negli anni avendo trasformato una contesa politica interna in una serie di inimicizie personali ha preferito perdere per strada pezzi interi del suo partito piuttosto che impegnarsi a fare il leader di tutti quanti e non soltanto dei suoi amici e sodali.
È uno schema suicida che in vista delle Politiche dell’anno prossimo sembra inevitabile, a meno di due miracoli. Il primo, per la verità, di miracoloso avrebbe soltanto la scoperta dell’acqua calda. Se cioé Mdp, Sinistra Italiana, Rifondazione, il movimento di Civati, con l’apporto dei comitati di Falcone e Montanari e con la cortese collaborazione del federatore Giuliano Pisapia unissero le loro non straordinarie energie in un unico cartello elettorale potrebbero raggiungere l’8, il 9 e forse anche il 10 per cento. Invece, restando divisi in tante sigle e siglette rischiano di non superare lo sbarramento del 3% buttando nel cesso milioni di voti. Dopodiché tutti quanti farebbero bene a espatriare.
È un calcolo di così puro buon senso a cui sicuramente verranno frapposti ostacoli di ogni genere.
Primo fra tutti il classico: ok ma poi chi comanda?
Il secondo miracolo prevede che Renzi facendosi forza e mettendo l’interesse del Paese davanti a quello suo personale offra alla sinistra unita il classico ramoscello d’ulivo (con la u minuscola) in vista di una futura alleanza di governo, e che la sinistra risponda con la stessa generosa apertura. Come si vede neanche San Gennaro potrebbe farcela.

La Stampa 1.10.17
Pisapia contro D’Alema: “Mi ha infastidito”
E lancia segnali al Pd: “Non è mio nemico”
“Manca rispetto verso di me”. Oggi va alla festa di Mdp
di Andrea Carugati

«Dentro Mdp c’è una divisione: una parte crede che sia utile un nuovo partito di sinistra che ha come primo avversario il Pd; un’altra, e spero sia maggioranza, crede in un nuovo centrosinistra. Sono entrambe legittime e le rispetto, ma sono loro a dover decidere cosa fare. Semmai c’è qualcuno di loro che non rispetta me». Alla vigilia del suo arrivo alla festa di Mdp a Napoli, dove oggi chiuderà la kemesse con Roberto Speranza, Giuliano Pisapia non scioglie la riserva su un suo impegno alla prossime politiche nelle stesse liste con D’Alema e Bersani. «Sono loro che hanno cercato me mesi fa, non io. Mi hanno detto che il loro percorso era il mio percorso. Ma io non me la sento di fare cose in cui non credo, come un partitino del 3% che non sarebbe in grado di cambiare il Paese».
Pisapia, arrivato alla festa di Retedem a Parma (la corrente più a sinistra del Pd) per un faccia a faccia con Andrea Orlando, non crede che il Parlamento riuscirà ad approvare una legge elettorale con le coalizioni. E boccia come «deleterio per il Paese» il Rosatellum a cui i dem stanno lavorando con Forza Italia. Non crede neppure che ci sarà una sfida alla primarie tra lui e Renzi: «Oggi sarebbero fuori dalla realtà». E tuttavia non vuole guidare una campagna elettorale contro il Pd: «Gli avversari sono la destra, i populisti, i fascisti che stanno tornando. Col Pd ci sono differenze, ma sono più le cose che ci uniscono da quelle che ci dividono. Si può fare una campagna elettorale non da avversari». «Penso che resterà il Consultellum. E che ognuno farà la sua lista», spiega l’ex sindaco, che invita la sinistra Pd a votare «gli emendamenti che alzano la quota di maggioritario che ora è solo al 34%». Ma respinge l’invito di Orlando a una iniziativa comune sulla prossima manovra. «Le nostre idee le abbiamo dette, mi aspetto dei segnali contro la povertà, e sul tema delle opere pubbliche per mettere il Paese in sicurezza».
Ma è sulla sua lista che Pisapia lascia ancora alcuni punti interrogativi: «Sarà una lista di sinistra-centro, come era la mia giunta a Milano. La faremo con chi ci sta. E servono facce nuove, quelle che incontro in giro per l’Italia, nelle Officine di Campo progressista, gente che magari non vuole candidarsi». Bersani e D’Alema? «Pier Luigi ha detto cose chiare sulla sua disponibilità a fare un passo indietro. Io anche. Se qualcuno pensa a una deriva minoritaria sarebbe un inganno agli elettori». L’ex sindaco ha come bersaglio Massimo D’Alema. Lui non vede manovre del Pd o dei media per dividerlo da Mdp. Anzi. «Al Corriere D’Alema ha detto che mi sostiene “indipendentemente” dal mio passato in Rifondazione. Mi ha infastidito: io sono fiero della mia storia, sono sempre stato coerente, io ho strappato Milano alla destra». E ancora sugli ex Pd: «Mi criticano perché non sono abbastanza di sinistra? Loro hanno votato quasi tutti i provvedimenti del governo Renzi. Se non erano d’accordo potevano non votare, o magari tacere oggi. In questo caso è il contrario del proverbio si “nasce incendiari e si muore pompieri”. Il nemico è diventato quello che ha fatto le leggi che loro hanno votato».
Resta però lo stop ad Alfano nel nuovo centrosinistra: «Nulla di personale, anzi. Ma il Pd deve guardare a sinistra, una coalizione con Ncd non consente di fare leggi di sinistra».
Pisapia vede in Gentiloni uno stile adatto per il futuro: «E’ bastato un cambio di metodo rispetto al predecessore per guadagnarsi la fiducia di tanti italiani. Anche dei sindacati e dei corpi intermedi che erano stati ignorati. Pensate cosa succederebbe se ci fossero anche delle novità di merito…». Prodi le darà una mano a ricucire il centrosinistra? «Sono sicuro che farà la cosa giusta anche stavolta, lo conosco bene. Ci sono oltre tre milioni di elettori di centrosinistra da recuperare». E se Pietro Grasso fosse il nuovo leader della sinistra? «Lo conosco bene e non voglio tirarlo in ballo. Io certo non avrei obiezioni. Ho già detto che non ci tengo a candidarmi…».

Corriere 1.10.17
Il Pd apre alle primarie con Pisapia E l’ex sindaco: non ho cercato io Mdp
di Maria Teresa Meli

Il leader di Campo progressista: «Non voglio fare una ridotta di sinistra del 3%»
ROMA Era un’idea della minoranza del Pd. Ne aveva parlato Andrea Orlando e, in tempi più recenti, l’aveva ripetuta in alcuni colloqui riservati la ministra Anna Finocchiaro. Ma finora, davanti all’ipotesi di primarie di coalizione tra Giuliano Pisapia e Matteo Renzi, dal fronte dei sostenitori del segretario del Pd si era levato un muro invalicabile. Ora le cose potrebbero davvero cambiare. Ora il Pd renziano non esclude più questa eventualità. Tanto più che l’ex sindaco di Milano ieri ha aperto all’alleanza con il Partito democratico.
Perciò alla vigilia delle elezioni politiche di marzo potrebbero tornare i gazebo. Ma non sarebbe una sfida a due Pisapia-Renzi. A quel punto verrebbe coinvolto anche il ministro Carlo Calenda, giacché l’alleanza che il Partito democratico intende costruire nel caso in cui passi il Rosatellum non si esaurisce nel rapporto con la sinistra, mai intende rivolgersi anche ai cosiddetti moderati. Non solo: come ha fatto sapere ieri Michele Emiliano, che ha detto di averne discusso con lo stesso Renzi, in campo potrebbe esserci anche una lista civica nazionale.
Le primarie, dunque. Il Pd non le sollecita, il segretario non ha dato ancora alcun «via libera» ufficiale, ma un autorevole dirigente renziano spiega: «Se si costruisse un’alleanza non saremmo certo noi a dire di no alle primarie. Però bisogna prima pensare all’alleanza perché non si può partire dalla coda». Il che significa, detto in parole povere, che prima Pisapia deve scegliere se seguire la strada che gli indica la maggior parte dei suoi. Ossia quella di un rapporto con il Pd.
Insomma, un’eventuale rottura tra Pisapia e gli scissionisti verrebbe salutata con favore al Nazareno. E ieri, a Parma, l’ex sindaco non ha rotto, però ha preso nettamente le distanze da certi progetti di Mdp: «Non sono io che li ho cercati, ma sono loro che hanno cercato me. Con Mdp ci sono delle differenze sulle quali bisogna fare chiarezza. Io non voglio fare una ridotta di sinistra che prenda il 3 per cento». E poi ha aperto con determinazione alla coalizione con il Pd: «Nel centrosinistra le cose che ci uniscono sono più di quelle che ci dividono».
Dunque, qualcosa si muove nel centrosinistra. Ma Mdp e Pd restano inconciliabili. Nessuna alleanza tra di loro. Solo un gioco del cerino per addossare gli uni agli altri l’onere della rottura. Una rottura inevitabile, stando a D’Alema.
Nel frattempo il Pd sta guardando anche al centro. C’è il gruppo «riformista» di Calenda. Ma c’è anche pure l’area cattolica che Renzi non intende trascurare. E infatti ieri era a Orvieto, a un convegno organizzato da dagli ex Ppi Fioroni e Gasbarra.
In quella sede, dopo aver detto che passerà i prossimi sei mesi (quelli che mancano alle Politiche) con «un’immagine di papa Francesco nel cuore», ha lanciato un appello: «Chi sta più a contatto con il mondo moderato deve far capire che non scegliere il Pd alle elezioni significa fare il più grande regalo possibile all’estremismo grillino o all’estremismo in camicia verde della Lega».

il manifesto 1.10.17
Pisapia: non farò una lista di sinistra

«Non me la sento di fare qualcosa di diverso da quello in cui credo e in cui si è impegnato Campo Progressista. Cioè una ridotta di sinistra che prenda il 3% e non aiuti a sconfiggere la destra. Io voglio una cosa molto più ampia». Lo ha detto ieri a Parma Giuliano Pisapia, intervenendo alla prima festa della minoranza del Pd guidata dal ministro Andrea Orlando, la corrente Dems. «Evitiamo di essere poco chiari», ha aggiunto l’ex sindaco di Milano e riferendosi evidentemente a D’Alema, «all’interno di Articolo Uno c’è chi ritiene più utile un nuovo partito di sinistra e chi invece crede in un nuovo centrosinistra. Non sono io che ho cercato loro, sono loro che sono arrivati da me e hanno detto “il tuo percorso è il nostro”. Questo elemento deve essere chiarito, non me la sento di stare con tutti».
Contemporaneamente, il ministro Orlando ha lanciato una doppia offerta in direzione di Campo progressista ma anche di Articolo 1. «Invitiamo tutti i soggetti del centrosinistra alla conferenza programmatica del Pd (in programma ad ottobre a Napoli, ndr) e facciamo un punto insieme ai gruppi che stanno a sinistra prima della legge di bilancio». Pisapia, ha aggiunto il ministro, «sa qual è l’elemento più utile per il centrosinistra, la ricostruzione di un processo unitario». Difficile che si possa fare partendo dalla legge elettorale. Pisapia boccia ancora il Rosatellum-bis perché «prevede solo una dichiarazione di apparentamento e non coalizioni con un programma e candidati condivisi». Orlando invece la considera «un passo in avanti» e si dice pronto a presentare emendamenti, con la sinistra, per aumentare la quota di maggioritario.

Corriere 1.10.17
Il test decisivo a Napoli con i bersaniani
di Monica Guerzoni

È il giorno in cui il vascello del centrosinistra o prende il largo o affonda. Nel Chiostro Santa Chiara di Napoli, dove stasera si chiude la Festa di Mdp, Giuliano Pisapia affronterà la prova dell’applausometro, dopo le ovazioni che bersaniani e dalemiani hanno tributato a Pietro Grasso.
Sul palco ci sarà Laura Boldrini, che smentisce contrasti per la guida del movimento: «Tensione per la leadership? Non esiste, è un modo di indebolire un progetto e io non mi presto a questo gioco». Poi toccherà al duello tra Pisapia e Roberto Speranza. I due si vedranno a quattr’occhi prima del confronto e il padrone di casa è convinto che le incomprensioni verranno chiarite. «La domanda che c’è nel Paese è più grande delle piccolezze legate ai gruppi dirigenti — media Speranza —. È un percorso faticoso, ma va avanti. Non si può più aspettare, adesso bisogna correre».
Pisapia non vuole sorprese e lancia un ultimo avviso. Lui è disposto a guidare un centrosinistra largo e inclusivo, che sfidi il Pd senza tagliare i ponti. Se invece Speranza, D’Alema e Bersani si accontentano di una «ridotta», di un «quarto polo» senza ambizioni di governo, si trovino pure un altro leader. I contrasti non sono ancora appianati, ma Speranza è ottimista: «Pisapia? Lo vedo determinato e netto. Stiamo costruendo lo stesso partito, che nascerà dal basso con una grande assemblea democratica».

il manifesto 1.10.17
Rosatellum, l’incostituzionale mito del capo
di Gianni Ferrara

L’illegittimità è un vizio congenito. Estirparlo, dissolverlo, si dimostra impossibile. E impossibile appare anche limitarne gli effetti. La lettura del Rosatellum-bis lo conferma. La composizione attuale del parlamento, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza numero 1 del 2014 e non sostituita, col dovuto scioglimento, da eletti col sistema elettorale risultante dalla stessa pronunzia della Corte, non sa infatti produrre che atti o proposte di atti illegittimi, appena attingano alla rilevanza costituzionale. Come dimostra la deformazione della Costituzione respinta dal corpo elettorale il 4 dicembre e l’Italicum, sanzionato dalla Corte costituzionale. Due constatazioni, queste, il cui significato e il cui valore sono del tutto assenti dal dibattito in corso alla Camera sulla legge elettorale che è interessato a tutt’altro che alla ricerca di un sistema rigorosamente coerente con la Costituzione.
Se lo fosse, infatti, il Rosatellum-bis non sarebbe stato presentato. Non lo sarebbe stato per l’eclatante, immediata, grossolana, irrimediabile violazione del principio fondante e qualificante il tipo di manifestazione indefettibile della volontà popolare, il voto. Voto che il Rosatellum schiaccia e distorce. Lo schiaccia amputandone la gamma delle potenzialità, quelle di scegliere il candidato o i candidati alla propria rappresentanza. Perché scelta che risulterà già operata nella lista da chi ha presentato la lista.
Chiarisco. L’articolo 48 della Costituzione fissa i caratteri del voto stabilendo che deve essere «personale ed eguale, libero e segreto». Lo personalizza quindi sia nell’elettore all’atto dell’esercizio del suo diritto di voto sia nel candidato per cui l’elettore vota, votandolo per chi è, oltre che per con chi si candida. Non lo personalizza certo in chi ha presentato o ha dettato la lista e nell’ordine con cui ha collocato i candidati della lista. Definendolo uguale, gli attribuisce la stessa efficacia di ognuno dei voti espressi nell’elezione che si svolge. Lo equipara quindi anche al voto di chi ha composto la lista. Qualificandolo come libero, ha voluto sottrarlo ad ogni coazione, compresa quella dell’ordine di lista. Stabilendone la segretezza ha voluto assicurare la massima garanzia ai caratteri che lo identificano.
Non poteva essere più rigorosa la configurazione del diritto di voto nella Costituzione. È la verità della democrazia che il voto deve rivelare, la credibilità di quel principio e di quella pratica che si denomina sovranità popolare. Il che significa che ogni compressione, ogni restrizione, ogni deviazione del diritto di voto coinvolge la forma di stato, incide sulla qualità della democrazia, incrina la Repubblica.
Il Rosatellum lo fa. E con conseguenze devastanti del sistema politico, quella di trasformare la figura di membro del parlamento, coinvolgendo immediatamente la stessa configurazione dell’istituzione di cui farà parte, e così il carattere e l’essenza della Repubblica parlamentare. Devastante perché preclude una credibile rappresentanza della base popolare della Repubblica che solo la proporzionale potrebbe assicurare all’attuale sistema politico italiano. Il Rosatellum è invece esattamente funzionale all’investitura dei «capi delle forze politiche che si candidano a governare», l’eversiva formula contenuta nel testo unico delle norme sulle elezioni al parlamento come modificato dal Porcellum. Formula che elude, esclude la funzione rappresentativa dell’elezione in parlamento per sostituirla con l’investitura di un «capo» di «forza politica» (si badi) non forza parlamentare. Formula che avrebbe imposto il rinvio di quella legge al parlamento per «manifesta incostituzionalità», rinvio sciaguratamente omesso dal presidente della Repubblica Ciampi.
Invece di sanare l’incostituzionalità manifesta, il Rosatellum la aggrava. Si guarda bene dal sopprimere l’istituzione dei «capi», prevede i collegi uninominali, li collega alle liste, e le blocca. Chi è eletto in parlamento da lista bloccata, come già l’eletto nel collegio uninominale, dovrà la sua elezione a chi ha compilato la lista collocandolo in modo da assicurargli il seggio che rientra tra quelli che la lista prevedibilmente otterrà. Rappresenterà così chi lo ha collocato nel posto corrispondente a quello che sarà prevedibilmente acquisito alla lista, in parlamento rappresenterà quindi il «capo» della forza politica. Non gli elettori.
Torna per altra via a riproporsi il progetto dell’uomo solo al comando, quello del capo della forza politica che prevarrà nelle elezioni. Lo avevamo sconfitto il 4 dicembre scorso. Far rispettare quella decisione del corpo elettorale è quindi obbligo costituzionale.

Corriere 1.10.17
La gioia di Vendola: twitter raddoppia
di Aldo Grasso

Un tweet ci seppellirà. Alla notizia che Twitter raddoppia (il social network passerà dai tradizionali 140 caratteri a 280), c’è una sola persona al mondo che ha gioito festosamente e ha accolto con entusiasmo il raddoppio. È Nichi Vendola, l’ex governatore della Puglia, ora militante di Sinistra italiana. Ecco il suo tweet: «280 caratteri su Twitter: “Un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità”...». Mentre altri mostravano perplessità (mirabile Giuliano Ferrara: «Bisognerebbe fare il contrario: dimezzare le battute disponibili. Così si impara a scrivere»), sul forum di Spinoza fiorivano battute: «Twitter passa dai 140 caratteri ai 280. È la riforma Vendola».
Nichi è noto per la sua oratoria barocchista, sghemba e logorroica, piena d’incisi, subordinate, divagazioni, frasi solenni, citazioni unte e bisunte, autocompiacimenti. Si libra sulle ali delle metafore, tanto da non riuscire più a tenere i piedi per terra: «Dobbiamo bonificare il territorio abitato dalla materia semantica, dai depositi di parole». Sì, per lui 140 caratteri erano poca cosa.
Eppure la bellezza di Twitter sta proprio nella retorica della brevità, nel costringere i sapientoni o gli odiatori da tastiera a esprimere facezie o efferatezze in 140 caratteri.
Lo scrivere breve non è solo un’arte o genere letterario, ma un modo di pensare. Tra poche parole, sostiene Nicolás Gómez Dávila, è più difficile nascondersi.

Repubblica 1.10.17
Pd, il patto tra Renzi e Emiliano “Una lista civica alleata ai dem”
Il governatore lavora a un contenitore per realtà locali, che coinvolga i sindaci di Lecce e Cagliari, Crocetta e altre figure simbolo dei territori
Pisapia pressa Mdp: “Sono loro che hanno cercato me dicendo che il percorso era lo stesso”
di Giovanna Casadio

ROMA. La rete la getterà Michele Emiliano. Il governatore della Puglia, che di Matteo Renzi è stato sfidante alle primarie e mai tenero con il segretario dem, questa volta gli ha sottoposto la questione e ne ha avuto già un via libera. Per evitare che il centrosinistra subisca un’altra débacle l’idea è quella di affiancare al Pd alle prossime elezioni del 2018 una lista civica nazionale con forze ben radicate e popolari. Spiega Emiliano, nella riunione di programma ieri della sua corrente Fronte Dem: «Basterebbe una lista civica così da tenere dentro tutte quelle energie che non fanno parte dei Dem ma dei molti progetti di governo, delle città e delle regioni e quindi sono liste civiche nella sostanza, liste di centrosinistra che in molti casi ci consentono di governare città importanti come Lecce».
Con Renzi ne ha appunto discusso. E circolano nomi e cognomi. Per ora solo “desiderata”, perché la tela è da tessere. Comunque si pensa di cooptare nell’impegno per una lista civica del centrosinistra i sindaci di Lecce e Cagliari, Carlo Salvemini e Massimo Zedda, anche se non candidati. Mentre potrebbero essere in lista Rosario Crocetta, il governatore uscente della Sicilia, Beppe Lumia, il presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci più volte nel mirino della mafia, l’assessore pugliese Paolo Bambagioni, Umberto Marroni. «Dobbiamo evitare l’isolamento del Pd, se no saremo travolti», è il filo rosso del ragionamento di Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera.
Il segretario del Pd ha capito l’antifona: se il centrodestra si unisce, il Pd non può stare chiuso in una torre d’avorio. Il modello di legge elettorale farà la differenza: con il proporzionale ci si allea dopo essersi contati nelle urne, mentre con il Rosatellum bis (che proprio il Pd ha presentato) è la capacità di fare coalizione ad avere la meglio.
E Renzi, ieri va ad Orvieto all’incontro dei cattolici Popolari organizzato dal Centro studi Aldo Moro di Beppe Fioroni, apre ai cattolici e ai moderati: «Il Pd è casa di tutti, di chi viene da un’esperienza più di sinistra, di chi viene da una più moderata e di chi smette di guardare il Pd come il luogo nel quale farsi le pulci reciprocamente». Dice di sé di essere in fase zen, di volere portare con sé in questa campagna elettorale «una immagine di Papa Francesco... ». Quindi invita: «Ognuno si metta comodo», nello schema che preferisce e cita quello 5-5-5 del film in cui Lino Banfi fa l’allenatore. «Ma basta parlare male del Pd perché o il Pd salva l’Italia o l’Italia va in mano a quelli che credono nelle scie chimiche ».
Se la nuova legge elettorale non finisce nei trabocchetti del voto segreto, anche a sinistra bisognerà rifare i conti. Giuliano Pisapia intanto batte sul tasto dell’unità e chiede a Mdp chiarezza: «Io ho una casa, Campo progressista, auspico una casa molto più grande. In Mdp c’è chi ritiene più utile un nuovo partito di sinistra e chi invece crede in un nuovo centrosinistra. Non sono io che ho cercato loro, sono loro che sono arrivati da me e hanno detto “il tuo percorso, è il nostro percorso”». Nessuna deriva minoritaria: «chi vuole starci, ci sta». Renzi convoca la direzione dem sul Rosatellum venerdì e il capogruppo Zanda: «Non votiamo emendamento 5Stelle anti Berlusconi ».

Repubblica 1.10.17
Nichi Vendola
Il fondatore di Sinistra italiana stronca l’alleanza con ex sindaco e dem: “Renzi ha completato i piani di Berlusconi”
“Grasso è più radicale di Pisapia L’Ulivo? Roba da sedute spiritiche”
intervista di Goffredo De Marchis

ROMA. Nichi Vendola, sette anni fa festeggiavate con Pisapia la conquista di Palazzo Marino. Cosa è successo da allora?
«Per sconfiggere la destra clericale e affaristica del sistema Moratti dovemmo prima sconfiggere il moderatismo e la subalternità culturale del centrosinistra. A Milano, come a Genova o a Cagliari o in Puglia, vincemmo mettendo in gioco candidati che spiazzavano gli apparati di partito e che non avevano paura di dire cose di sinistra. Ma parliamo davvero di una stagione esaurita, visto che il centrosinistra ha ridotto la sinistra ad un complemento d’arredo».
È cambiato Pisapia o siete cambiati voi?
«Direi che è cambiato il mondo, il riformismo stenta a riformare se stesso, i teorici della “terza via” sono stati arruolati e arricchiti dalle più inquietanti lobby economiche, Renzi ha portato a compimento il programma di Berlusconi, le politiche di austerità hanno reso agonizzante il socialismo europeo e stanno mettendo in crisi la stessa idea di Europa. In questo contesto evocare l’Ulivo rimanda ad una seduta spiritica più che a un progetto politico».

C’è una pregiudiziale di Pisapia su Sinistra Italiana?
«Non saprei dire, non ho letto i libri dei cosiddetti “marxisti per Tabacci”».
Lei è la prima importante creatura delle primarie del centrosinistra. Perché oggi “centrosinistra” è quasi una bestemmia?
«Non è una bestemmia, è una formula svuotata, un progetto disintegrato dalle scelte che il Pd è andato maturando negli anni del governo: dalla riforma autoritaria della Costituzione alla cancellazione dell’articolo 18, dalla pessima “buona scuola” allo sblocca cemento camuffato da “sblocca Italia”. Una deriva a destra che ha regalato al populismo e alla rassegnazione porzioni crescenti di elettorato».
Avete governato il Paese con l’Unione, siete stati sinistra di governo con lei in Puglia per 10 anni. State tornando alla sinistra minoritaria?
«Non c’è nulla di più minoritario del governismo a tutti i costi. Avere cultura di governo non significa essere intruppati dal pensiero unico del capitale finanziario. C’è una sinistra che la domenica si commuove per il magistero radicale di Papa Francesco e nei giorni feriali si genuflette dinanzi ai profeti della diseguaglianza, della precarietà del lavoro, della privatizzazione dei beni comuni, della necessità delle trivelle, o del realismo del vendere armi all’Arabia Saudita o del finanziare i lager per migranti in Libia».
Piero Grasso sarebbe un candidato migliore per la premiership rispetto a Pisapia, che ha la vostra storia?
«Non si può partire dall’invenzione di un leader per poi trovare un programma e un popolo. Si deve partire dal protagonismo di una comunità che reagisce alla paurosa regressione culturale che rimette in circolo i veleni del razzismo, del nazionalismo, del fascismo. Personalmente eviterei di tirare per la giacca la seconda carica dello Stato. Certo, Piero Grasso, che a differenza di Pisapia non è mai stato eletto con Rifondazione comunista, mi sembra assai più chiaro e radicale dell’ex sindaco».
Non sarebbe un errore correre con due liste a sinistra del
Pd?
«Impedire alla sinistra di ritrovare se stessa, la propria autonomia, il proprio coraggio intellettuale e politico, quello sì più che un errore sarebbe un delitto ».
Bersani e D’Alema dovrebbero fare un passo indietro nelle candidature?
«Non mi sono mai piaciuti quelli che cantano “giovinezza, giovinezza”. Io penso che ci sia bisogno di tutti e che le liste di proscrizione siano un brutto segnale ».
Lei sarà candidato?
«Per mia fortuna non soffro di astinenza da Transatlantico. Anche questa è una malattia della politica: l’idea che tu conti qualcosa solo se sei dentro le istituzioni e dentro i talk-show».
Renzi rappresenta davvero la destra secondo voi? È come Berlusconi?
«Renzi è stato la traduzione italiana del blairismo, l’idea cioè che sia superata la dialettica destra-sinistra. Lo ha scritto nella prefazione al famoso saggio di Norberto Bobbio, soprattutto questo superamento lo ha realizzato dal governo. Se non c’è più dialettica non vuol dire che c’è il vuoto: resta in piedi solo la destra, camuffata o da tecnica o da modernità».
La legge sulle unioni civili è una cosa di sinistra.
«Quella legge è il minimo sindacale per essere un Paese civile. Ma un importante avanzamento sul terreno dei diritti civili non può certo compensare il drammatico arretramento sul terreno dei diritti sociali».
Col governo Gentiloni cosa è cambiato?
«Molto nella forma, nulla nella sostanza. È lo stesso Gentiloni che rivendica la continuità col suo pirotecnico predecessore, mi pare».
Mdp ha rotto col Pd in Sicilia perché c’è Alfano. Ma quante alleanze avete fatto col centro ai tempi dell’Ulivo. Si ricorda?
«Come si può pensare ad una alleanza col Pd dopo la disastrosa esperienza del governo Crocetta? E come si può dimenticare che Alfano ha rappresentato l’ala neo-clericale della stagione berlusconiana? Ma soprattutto come si può soffocare la passione politica dentro compromessi sempre al ribasso? Noi, ai tempi dell’Ulivo, abbiamo posto questioni che forse meritavano un ascolto meno sprezzante: la riduzione dell’orario di lavoro, la lotta alle diseguaglianze, la costruzione di una Europa che non fosse solo una moneta».
Mai col Pd o mai con Renzi?
«C’è la politica e c’è anche la fantapolitica. Io farei mille alleanze col Pd che mette in agenda la restituzione di diritti e di potere al mondo del lavoro, che ripristina l’articolo 18 estendendolo a tutti i lavoratori, che guarda in faccia il disastro della scuola e dell’università, che sfida i populismi non rifugiandosi nel galateo di Palazzo o riducendo la domanda di giustizia a una questione di bonus ma offrendo prospettive di futuro ai giovani, che investe sull’ambiente piuttosto che sulla ricerca del petrolio con le trivelle. Ma questa è, appunto, fantapolitica ».
Così rischiate di far vincere Di Maio che ai sindacati suggerisce: riformatevi o ci pensiamo noi. Bel risultato per la sinistra.
«Vede? Anche Di Maio è diventato renziano. Una pecorella con Confindustria, ma rumoroso con chi rappresenta il lavoro. Il suo è il ruggito del coniglio ».
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MARXISTI E TABACCI
Giuliano ha una pregiudiziale contro di noi? Non so, non ho letto il libri dei cosiddetti marxisti per Tabacci
BERSANI E D’ALEMA
C’è bisogno di tutti e non mi piacciono le liste di proscrizione, né quelli che cantano giovinezza, giovinezza


L’ABBRACCIO DI MILANO
Nel 2010, quando Giuliano Pisapia vince le amministrative per il Comune di Milano contro Letizia Moratti, Nichi Vendola, suo grande sponsor, corre ad abbracciarlo e a festeggiare il successo. Oggi la distanza tra i due

Repubblica 1.10.17
Maurizio Landini
Di Maio parla con arroganza
“Un solo governo è intervenuto dall’alto Ed era quello del regime fascista”
di Monica Rubino

ROMA. «Penso che frequentare Cernobbio gli abbia fatto male, l’idea della politica che riforma i sindacati è autoritaria e contro i principi della Costituzione». Per Maurizio Landini, segretario nazionale della Cgil, Luigi Di Maio non sa di che cosa parla.
Quello del leader del M5S per lei è un attacco fuori luogo?
«In Italia c’è la libertà sindacale sancita dalla Carta costituzionale e non a caso esistono tante organizzazioni. Sono le lavoratrici e i lavoratori che devono essere messi nelle condizioni di riformare i loro sindacati. Non sono i governi a doverlo fare. È già successo una volta in passato, ma eravamo nel regime fascista. Se nel nostro Paese c’è la democrazia è anche grazie ai lavoratori e alle organizzazioni sindacali. Di Maio lo tenga a mente».
Il candidato premier del M5S vi accusa anche di essere pagati dallo Stato.
«Lui non sa che i sindacati non sono sostenuti dai soldi pubblici ma dal contributo volontario di chi decide di iscriversi. E non sa nemmeno che la Cgil ha depositato in Parlamento due anni fa la “Carta dei diritti”, che non solo chiede di conquistare un nuovo statuto per tutti i lavoratori, compresi quelli autonomi. Ma anche di riformare la rappresentanza, per mettere gli iscritti nelle condizioni di votare gli accordi, di eleggere i delegati, di avere più trasparenza nella gestione. Che ci sia da riformare i sindacati la Cgil è la prima a dirlo. Non abbiamo certo bisogno che Di Maio ci venga a spiegare come fare».
Le sembra strano che parole così dure vengano da un politico nato a Pomigliano D’Arco, storica sede dell’Alfasud?
«Si, trovo davvero singolare che lui, originario di una città dove un’azienda come la Fiat dal 2010 ha perso cause in tribunale per le discriminazioni sugli iscritti alla Cgil, non abbia mai speso una parola in merito. Se aveva dei dubbi sui sindacati, faceva prima a parlare con i lavoratori di Pomigliano anziché andare a Cernobbio».
Come si può garantire l’autonomia dei sindacati e aiutarli a riformarsi?
«Innanzitutto non facendo leggi come quelle varate dai governi di destra prima e di centrosinistra poi, come il Jobs act, che hanno ridotto i diritti dei lavoratori, favorito la frantumazione sociale e messo in discussione la rappresentanza collettiva. Qualche mese fa, quando ero ancora alla Fiom, invitammo Di Maio a venire alla nostra festa nazionale. I suoi collaboratori ci fecero sapere che non era interessato. Così come noi rispettiamo le forze politiche, allo stesso modo pretendiamo il loro rispetto».
Che ne pensa della “manovra shock” proposta da Di Maio per creare occupazione?
«La decontribuzione a pioggia non è un’idea particolarmente nuova e nemmeno molto diversa da quello che ha già fatto Matteo Renzi. Non si crea lavoro diminuendone il costo, ma colmando il ritardo negli investimenti pubblici e privati, nell’innovazione, nella ricerca e nello sviluppo, nella riqualificazione del sistema di formazione. Bisognerebbe puntare anche su forme di riduzione dell’orario».
Cosa intende il vicepresidente della Camera quando parla di “smart nation”?
«Un operaio una volta in un’assemblea mi disse: “Da quando si parla in inglese, tutti i diritti che avevo non ce li ho più”. È fuor di dubbio che siamo in una fase di cambiamento e che le tecnologie digitali si stiano intrecciando con l’automazione, ridisegnando il sistema produttivo, la mobilità e la comunicazione. Ma le tecnologie non sono neutrali, dipende come si usano e a quale fine. E a maggior ragione c’è bisogno di un più grande coinvolgimento dei lavoratori per ripensare un modello di produzione più sostenibile».

il manifesto 1.10.17
Catalogna, dove saremo domani?
di Ramon Luque

Per cercare di capire che cosa sta succedendo in Catalogna occorre guardare oltre la cronaca di questi giorni. Non si tratta di andare indietro nella storia per spiegare che il popolo della Catalogna rivendica da molto tempo la propria realtà nazionale. Voglio riferirmi al presente e al passato prossimo. Che cosa è successo negli ultimi tempi in Catalogna? In sintesi si sono incrociati tre elementi: la profonda crisi economica che colpisce la Spagna dal 2008 e che ha avuto, sulla mobilitazione cittadina dei catalani, un impatto determinante; una grave crisi della politica e del sistema costituzionale spagnolo nato nel 1978; e infine una crisi istituzionale, senza precedenti in 40 anni di democrazia, fra i governi e le istituzioni di Spagna e Catalogna. Un cocktail esplosivo che non poteva che sfociare nella situazione incandescente di questi giorni. La crisi economica ha spinto nelle strade di Catalogna, a rivendicare diritti democratici di base, centinaia di migliaia di persone che non sono necessariamente indipendentiste, ma che vogliono decidere democraticamente sui temi che le riguardano. Azione di empowerment popolare non reversibile. Rivendicazioni nazionali e lotta per i diritti sociali si sono intrecciate strettamente.
D’altro canto, il governo del Partito popolare (Pp) di Mariano Rajoy persegue una politica di involuzione democratica che sta scavando un fossato non solo fra destre e sinistre, ma anche fra reazionari e democratici. E infine ci sono stati l’errore politico di Junts pel Sí (Uniti per il sì), la coalizione che governa la Catalogna, di orientarsi verso l’indipendenza unilaterale, senza l’appoggio maggioritario della popolazione, e la reazione autoritaria di Rajoy che ne è derivata. Le due cose hanno portato al maggiore scontro istituzionale dai tempi del ritorno alla democrazia.
Due errori politici che pagheremo cari: perché non c’è governo che possa imporsi ai catalani nella loro aspirazione a decidere del proprio futuro e perché l’indipendenza unilaterale non è un orizzonte che in Catalogna abbia un’ampia maggioranza democratica; dunque la divisione non è solo fra Catalogna e Spagna, ma anche fra catalani.
Ecco le correnti di fondo del conflitto. Ma ovviamente la politica, la piccola politica in realtà, ha giocato le proprie odiose carte. Di fronte a centinaia di migliaia di persone che si mobilitano ininterrottamente dal 2012 in modo pacifico, per esigere in primo luogo il diritto a decidere e poi direttamente l’indipendenza, alcuni petits politiciens (in primis Artur Más, presidente della Generalitat) hanno cercato di trasformare la propria maggioranza precaria in maggioranza parlamentare assoluta, convocando elezioni e adottando la tattica di nascondere dietro una bandiera la corruzione del partito; tutto ciò senza ottenere alcun risultato, se non la radicalizzazione del processo. Sull’altro lato c’è Mariano Rajoy, che ha sistematicamente rifiutato l’apertura di canali di dialogo con il governo catalano. Ha lasciato marcire la situazione alimentando un nazionalismo spagnolo rancido e cavernicolo, con l’obiettivo di consolidare il proprio consenso elettorale e mantenere in stato di crisi costante il Partito socialista (Psoe). Un irresponsabile? No. Un piromane reazionario.
Ma ora siamo dove siamo. La Catalogna ha smesso di essere un tema catalano. C’è un prima e un dopo il 1 ottobre. La Catalogna ormai non può più essere cancellata dall’agenda politica spagnola, anzi – forse – da quella europea. Usciamo da un «processo» ed entriamo in uno scenario politico nuovo. Il grande dibattito che si intravede sarà fra rottura o ripresa della democrazia, in Catalogna quanto in Spagna. L’aspirazione a una Repubblica catalana si collegherà all’aspirazione democratica dei popoli di Spagna che vorranno lasciarsi alle spalle il regime del 1978, che ha avuto nel bipartitismo spagnolo la massima espressione.
Probabilmente il 1 ottobre non vincerà nessuno. Sarà il perfetto «catastrofico pareggio» (Gramsci). Quello che delinea una crisi: la quale consiste proprio nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non riesce a nascere.
Dunque, che cosa accadrà? Prima di tutto occorre sperare che le mobilitazioni siano democratiche e pacifiche come è sempre stato in Catalogna. E a partire da questo, che arrivi il tempo della Politica, del dialogo, della democrazia. Sono percepibili alcuni movimenti in questo senso. Domenica scorsa, a Zaragoza, forze politiche che divergono su molti punti – convocate da Unidos Podemos – hanno firmato la Dichiarazione di Zaragoza, che sarà un elemento decisivo nel futuro della politica spagnola. Vi si affermano tre punti che inevitabilmente finiranno per imporsi: l’impegno democratico al dialogo come unica strada per risolvere i conflitti; l’avvio del dialogo diretto fra il Govern de la Generalitat e il governo di Spagna; la fine delle misure di emergenza repressive da parte di Rajoy. Tutto questo con l’obiettivo che le catalane e i catalani possano esprimersi liberamente alle urne. Quando lo faranno, i legami di fraternità fra i popoli della Spagna si imporranno nei confronti di chi vuole la separazione, e i veri separatisti (il Pp e Rajoy) saranno sconfitti.
La politica della Dichiarazione di Zaragoza diventerà maggioritaria, in Catalogna e presso strati molto ampi della popolazione spagnola. È una scommessa per il futuro. Noi di Catalunya en Común ci impegniamo in tal senso. Il popolo catalano, maturo, democratico e politicamente responsabile, e le sue formazioni politiche, sapranno trovare la strada.
Prima o poi la Catalogna voterà democraticamente in un referendum riconosciuto, con tutte le garanzie istituzionali e dal carattere vincolante. A questo scopo avremo bisogno di politici di maggiore spessore. Il futuro non avrà come protagonisti né Puigdemont né Rajoy. E nessuno ne sentirà la mancanza.
(*) Segretario per l’Europa di Esquerra unida i alternativa (Euia) e della Commissione esecutiva per Partito della sinistra europea

il manifesto 1.10.17
«Con il ricorso contro la Statuto catalano il Pp ha ucciso la costituzione»
Sul fronte del Sì - intervista al ministro del govern Puigdemont, Toni Comín. «Non abbiamo commesso illegalità; il governo centrale sì, con la sua repressione che ha fatto saltare lo stato di diritto. Noi abbiamo solo tradotto la volontà cittadina in un processo istituzionale»
Barcellona, manifestazione per l'indipendenza; sotto il ministro catalano Toni Comín
di Luca Tancredi Barone

BARCELLONA Si definisce «orfano politico del Pci», «l’unico ministro comunista», catalanista e indipendentista. Per il conseller (o ministro) della sanità Toni Comín,  di Esquerra Republicana, il Tribunale costituzionale (Tc) è illegittimo e non è vero che la sua maggioranza parlamentare ha schiacciato i diritti dell’opposizione. Dichiaratamente omosessuale, con figlia, difende con orgoglio le politiche sociali e Lgbt-friendly del suo mandato.
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Che cosa si sta celebrando esattamente oggi?
Un referendum, come previsto dalla legge approvata dal Parlament catalano, con tutti gli ostacoli e le difficoltà logistiche che ci sta mettendo il governo spagnolo. Noi lavoriamo per superarli perché abbiamo l’obbligo di compiere la legge.
Secondo il Tribunale costituzionale questo referendum e la legge che lo istituisce sono illegali.
Le argomentazioni del Tc sono inconsistenti. Primo, perché il diritto di autodeterminazione è un diritto naturale dei popoli, accettato dal diritto internazionale, che prevale sugli ordinamenti costituzionali.
Secondo, perché nel 2010 il Pp ha fatto saltare per aria il patto costituzionale del 1978. Con il ricorso contro la Statuto catalano, hanno barato, hanno ucciso la costituzione.
Più che altre istituzioni, il Tc deve la propria legittimità a quello che fa: si chiama legittimità d’esercizio. Qui in Catalogna non ce l’ha più. È come un arbitro che indossa la maglietta di una squadra, non fischia i falli, e ne commette anche lui. In questi casi, devi uscire dal campo. Come ha fatto la Catalogna.
Un argomento insidioso.
Il problema della sentenza non è il suo contenuto. Nel patto costituzionale si dice che l’ultima parola sullo statuto ce l’ha il popolo catalano. Gli riconosce una sovranità maggiore di quella del Congresso (da cui era stato approvato lo statuto dopo l’ok del Parlament catalano, ndr). Nel 2006 i catalani l’hanno votato in un referendum (con una partecipazione del 49%, ndr). Il ricorso del Pp ha fatto saltare tutto.
Voi del governo comparate spesso questo referendum a quelli scozzese e del Quebec.
Anche il Regno Unito e il Canada avevano testi scritti che se letti con occhio legalista e autoritario non avrebbero permesso un referendum. Il Regno Unito ha un Trattato dell’Unione, che unisce Inghilterra e Scozia, che all’articolo uno dice «forever after», cioè nei secoli dei secoli. Proprio come «l’indissolubile unità» della Costituzione spagnola. Loro hanno capito che in uno scontro dove si chiede una cosa che formalmente non figura in costituzione ci sono solo due opzioni: o negoziare un referendum, o la repressione. Noi non abbiamo commesso illegalità; il governo centrale sì, con la sua repressione che ha fatto saltare lo stato di diritto.
Non mi pare voi siate impeccabili. Le due leggi annullate dal Tc sono state approvate in un giorno fra le proteste dell’opposizione.
Purtroppo in democrazia a volte c’è uno scontro fra diritti diversi. In questo caso lo scontro, provocato dall’opposizione, era fra il diritto all’autodeterminazione e il diritto dell’opposizione ad appellarsi al Consiglio di garanzia statutaria. Per dare loro questo diritto non avremmo potuto convocare il referendum. Abbiamo scelto di far prevalere il diritto dei cittadini catalani.
Avreste avuto più tempo presentando la legge prima. Che legittimità ha una legge chiave votata a maggioranza semplice quando per qualsiasi modifica dello statuto ci vogliono i 2/3?
Abbiamo cercato durante tutta la legislatura vie per fare questo dibattito nelle condizioni ideali. Ce l’ha impedito l’opposizione. Il regolamento permette di poter approvare una legge anche senza passare per il Consiglio di garanzia.
Secondo la vostra legge, entro 48 ore dovrete dichiarare l’indipendenza, dato che bastano più Sì che No per fare questo passo.
Dovremo vedere com’è andata la giornata elettorale. Finché non sapremo com’è andato lo scontro con il governo centrale, non sapremo qual è il nostro mandato. E no, non le do numeri, pronostici, soglie. Risponderò lunedì.
Non avete paura di aver illuso molte persone per niente?
No, perché in questo processo le istituzioni sono andate dietro alla gente, alle mobilitazioni della società civile. Noi abbiamo solo tradotto la volontà cittadina in un processo istituzionale.
Barcellona sta combattendo per ottenere la sede dell’Ema, l’Agenzia europea del farmaco. Non è contraddittorio?
Per i nostri obiettivi come governo no. Noi vogliamo che la Catalogna sia una repubblica indipendente, vogliamo che formi parte della Ue e che l’Ema abbia la miglior sede possibile, che per noi è Barcellona.
Alcuni pensano che una Catalogna autonoma dovrebbe uscire dalla Ue.
Se Barcellona è la migliore candidata lo è non perché fa parte del Regno di Spagna. Tutto indica che a medio termine la Catalogna sarà parte della Ue. Non entro nel dettaglio tecnico se dovremmo prima uscire e poi rientrare o potremmo rimanere dentro la Ue: in ogni caso il destino naturale della Catalogna è dentro la Unione.

il manifesto 1.10.17
«L’indipendenza non si dichiara, sono gli altri a riconoscerla»
Sul fronte del no - intervista al leader dei socialisti catalani Miquel Iceta . «La Generalitat sta infrangendo tutte le leggi. È legittimo volerle cambiare, ma senza scorciatoie come fa l’indipendentismo»
di Luca Tancredi Barone

BARCELLONA Miquel Iceta guida i socialisti catalani (Psc) dal 2014. Ha raccolto il timone di un partito che era il secondo granaio di voti socialisti in Spagna dopo l’Andalusia nel suo periodo di maggiore crisi. È stato il primo politico spagnolo negli anni 90 a fare coming out.
Come definisce quello che sta succedendo oggi?
Un’importante mobilitazione della gente che vuole l’indipendenza. Il governo catalano lo chiama «referendum», ma non lo sarà. Siccome non è né legale, né con garanzie, non se ne può dedurre un mandato per l’indipendenza.
Una mobilitazione tanto grande non la impressiona?
A me interessano tutte le cause che muovono tante persone, ma questa non la condivido. Gli indipendentisti sono capaci di mobilitare moltissime persone, ma dovrebbero riconoscere che non è una mobilitazione maggioritaria. È importante e non ce ne sono altre uguali in Europa, ma non riunisce la maggioranza dei catalani, come dimostrano le elezioni del Parlament del 2015 (dove gli indipendentisti ottennero il 48% dei voti, ndr).
Come mai sono così bravi?
Sono stati capaci di condensare in una sola molte altre rivendicazioni. La gente scontenta di come funziona il sistema politico o quelli che credono che il sistema economico sia ingiusto, quelli che vorrebbero una Catalogna migliore, hanno proiettato sull’indipendenza queste rivendicazioni. Come ha detto la filosofa Marina Sobirats, l’indipendentismo è l’unica utopia disponibile.
E perché voi non ci riuscite?
Perché noi non proponiamo un’utopia, proponiamo un’uscita pragmatica, senza quest’epica del «faremo un paese nuovo». A chi non piacerebbe un paese nuovo, in cui tutto sarà possibile e i sogni saranno alla portata di tutti? Certo che questo emoziona. Ma io penso che sia un miraggio. Sappiamo che la nostra idea non è maggioritaria, ma rappresentiamo comunque mezzo milione di catalani, abbiamo 122 sindaci (su 947, e che si sono rifiutati di appoggiare il referendum, ndr) – il Pp ne ha solo 1, in un paese di 900 abitanti, e Ciudadanos nessuno.
Non avete paura che vi si percepisca troppo vicini al Pp?
Noi non siamo vicini al Pp, siamo gli unici ad aver cercato di scalzarlo, con Pedro Sánchez. Ma domandiamo che si rispetti la legalità. Certo, la causa del problema qui è il Pp, con la questione dello Statuto e con la sua incapacità di dialogare e fare proposte.
Ha commesso illegalità in questi giorni con la repressione?
Secondo noi no. La Generalitat invece per sua stessa ammissione sta infrangendo tutte le leggi. Anche in Italia c’è stato un dibattito se il Veneto poteva fare un referendum d’indipendenza, e la Corte costituzionale ha detto di no. È un errore non rispettare le leggi. È legittimo volerle cambiare, ma senza scorciatoie come fa l’indipendentismo.
Qual è la vostra proposta?
Cambiare la costituzione, mai riformata seriamente dalla sua approvazione. Vorremmo che la Spagna diventasse federale, una Catalogna con maggior autonomia e un finanziamento migliore, e che questo accordo si possa votare.
Non è troppo tardi?
No, e comunque lo vedremo se si voterà questa o un’altra proposta.
Nel 2012 eravate a favore del referendum.
Sì, e anche ora: lo vogliamo sulla riforma federale. Nel 2012 proponevamo una consulta legale e accordata, ora ne vogliamo una concreta. Loro vogliono l’indipendenza, per noi è solo l’ultimo ricorso, e quindi dovrebbe essere l’ultima domanda, non la prima. L’indipendentismo fa fatica a capire che c’è gente che non la pensa come loro. È la cosa più preoccupante. Prima di rompere, noi pensiamo valga la pena cercare un nuovo accordo. Tutti i sondaggi dicono che su questo tema siamo pari. È un errore risolverlo a maggioranza essendo un tema non solo politico, ma di sentimenti di appartenenza.
Che succede ora?
Non ne ho idea. Se sono coerenti, devono dichiarare l’indipendenza. Ma se lo facessero, la Catalogna non sarebbe comunque indipendente, perché l’indipendenza non si dichiara, è una cosa che gli altri devono riconoscerti. E non vedo nessun paese europeo disposto a farlo, e meno ancora sulla base di un referendum illegale.

Il Fatto 1.10.17
Seggi difesi come barricate, la Catalogna vota la rivolta
Oggi il referendum - Le forze di sicurezza impongono l’ordine di Madrid sigillando le sedi elettorali, ma la popolazione occupa gli edifici. Timore di scontri
Mobilitazione permanente
di Elena Marisol Brandolini

La Guardia Civil è entrata ieri mattina nel Centro Telecomunicazioni e Tecnologie dell’Informazione, che è anche sede delle Telecomunicazioni del governo catalano e dell’Agenzia di sicurezza informatica, con l’ordine del Tribunal Superior de Justicia de Catalunya di bloccare fino a martedì 29 programmi che utilizza la Generalitat, sospendendo così tutti i servizi informatici che possano essere utilizzati in occasione del referendum di oggi. Questa misura che avrà ripercussioni sullo scrutinio e sull’eventuale voto elettronico, avrà effetti anche su altre procedure della Generalitat per i primi due giorni della settimana, come il pagamento di tributi.
Benché s’allunghi il bollettino di misure con cui Madrid sta coronando la strategia autoritaria per bloccare il referendum, la società catalana si mantiene pacifica e, in maggioranza, determinata a esercitare il diritto al voto. Consapevole delle difficoltà, inventa nuove forme di partecipazione, mobilitandosi a salvaguardia dei collegi elettorali per poter votare in condizioni di normalità.
Nelle città più piccole le comunità hanno spesso deciso di darsi appuntamento prima dell’apertura dei seggi e rimanere lì tutto il giorno, portandosi da mangiare. In questi casi, è difficile che la polizia intervenga con un’azione di forza, perché ci si conosce tutti. Più complicata può rivelarsi la situazione nelle grandi città, soprattutto Barcellona, dove si concentra il grosso dell’elettorato.
Così sono cominciate le occupazioni di scuole, centri civici e poliambulatori, sedi di collegi elettorali. Nelle scuole, la comunità educativa – insegnanti e famiglie degli alunni – hanno improvvisato venerdì pomeriggio feste di benvenuto dell’autunno che si protrarranno, possibilmente, fino alla sera. Sono andati a far loro visita ripetutamente i Mossos d’Esquadra con la comunicazione che oggi, a partire dalle 6 del mattino, sarebbero tornati per compiere l’ordine della giudice d’impedire l’apertura dei seggi. Almeno 1.300 quelli che potrebbero essere sigillati come lo è stato ieri il centro di raccolta delle schede.
Uno di questi edifici è quella scuola elementare intitolata all’architetto Jujol, al centro di Barcellona, nel quartiere di Gràcia. Al suo interno sono previsti 6 o 7 seggi elettorali. Alle 13 di sabato ci sono una sessantina di persone, tra ragazzini, genitori, maestre e gente della zona. Anche una coppia di giovani trasferitasi da poco: “Domani votiamo qui e siamo venuti a vedere lo spazio perché non lo conoscevamo. Ci sembra fantastica la scuola così”. Altri mettono l’accento sull’aspetto ludico, di aggregazione, di difesa di uno spazio pubblico.
Come Ivan “Sono del quartiere e sono venuto perché le scuole sono aperte. Le scuole, le piazze sono della gente”, o come dice una giovane donna, madre di due figli piccoli, che è qui con tutta la famiglia: “Stiamo qui con i bambini, giocando, facendo corsi, tra poco faremo un paella popolare”. “C’è molta gente e un buon ambiente, tra genitori, famiglie, vicini”, ci dice una giovane maestra. Dormono qui da venerdì ed “è come una colonia di fine settimana. Non sappiamo quando finiremo, è un po’ una sorpresa”, scherza, ma non troppo. Perché nessuno sa come finirà oggi.
Il servizio fotografico di queste pagine è di Fabio Bucciarelli, vincitore tra l’altro della Robert Capa Gold Medal e del World Press Photo

Il Fatto 1.10.17
La favola di Davide e Golia che nasconde la bufala della libertà
L’invenzione della storia - Origini e scuse di un mito fondatore
di Daniela Ranieri

È molto romantico pensare alla richiesta di indipendenza della Catalogna dal governo di Madrid in termini di lotta di un piccolo e battagliero popolo contro un impero centrale autoritario, figura che rimanda all’iconografia di Davide contro Golia e ci fa sentire tutti lord Byron in appoggio alla guerra d’indipendenza greca contro l’Impero ottomano. Tuttavia, le cose non sono così semplici. Il referendum annunciato per oggi è stato voluto e convocato dalla destra catalana e ha ottenuto la maggioranza nel Parlamento catalano nonostante fosse apertamente incostituzionale.
L’indipendentismo catalano si rifà a miti fondativi del tutto anacronistici e francamente paranoici. Secondo i due principali partiti indipendentisti, Junts pel Sí e Candidatura d’Unitat popular, la guerra di successione spagnola del 1700 sarebbe stata anche una guerra di secessione che si risolse nel 1714 in una repressione d’imperio del popolo catalano. Per di più, la Costituzione del 1978 sarebbe ostile ai catalani, che però la votarono col 92% dei consensi. L’accusa contro la Spagna di immiserire la regione è frutto di una anamorfosi politicamente pilotata: la crisi del 2008, con l’impoverimento del ceto medio che ha colpito tutta Europa, si è trasformata agli occhi della destra indipendentista nella pistola fumante dell’usurpazione secolare del governo spagnolo. Fu invece il governo catalano, tra il 2010 e il 2015, a imporre ai ceti deboli il costo della crisi: le risorse per il welfare (scuole, sanità, case popolari) sono state drasticamente ridotte, disoccupazione e precarietà sono aumentate, come l’esternalizzazione dei servizi statali al settore privato; il salario medio è diminuito, con 20 super-ricchi nel 2016 detentori del 20% della ricchezza totale.
In questa temperie la destra catalana ha avuto gioco facile a indicare al popolo il responsabile: il governo Rajoy, il cui Partito Popolare nel 2010 votò una riduzione della autonomia catalana. La soluzione era dunque la secessione e l’avvio di un processo costituente. Accanto al mito premoderno di uno Stato idilliaco, se ne è creato uno del tutto illogico: fuori dalla Spagna la Catalogna sarà più ricca.
Il governo spagnolo, come ha detto lo scrittore Javier Cercas al Fatto, avrebbe potuto riconoscere queste spinte dando loro una forma legale, ad esempio stabilendo che per la secessione fossero necessari i ¾ dei voti e non la maggioranza semplice come previsto unilateralmente dal governo catalano. Invece ha scelto di impiegare la Guardia Civil per sequestrare le schede e rinforzare agli occhi del mondo l’immagine di un Leviatano autoritario che impedisce al popolo l’esercizio della democrazia.
Come spiega l’antropologo marxista David Harvey, il nazionalismo – da ideale romantico – è oggi funzionale alla sopravvivenza dello Stato neoliberista, che “ha bisogno della sua forza di mobilitazione del consenso per creare le migliori condizioni per attrarre investimenti e competere sul mercato”. In quest’ottica il nazionalismo catalano è la reazione delle élite in una regione a forte diseguaglianza sociale nei confronti di uno Stato, la Spagna, altrettanto impoverito. Proprio come l’elezione di Trump, e in parte come la Brexit, dove a essere indicati come usurpatori erano gli immigrati e l’Europa, l’indipendentismo è l’esito inevitabile della degradazione del popolo e dei suoi diritti a opera della finanza e della politica a essa asservita, e perciò appartiene al sistema più di quanto si vanti di opporsi a esso. Vista come pervertimento della lotta di classe, l’indipendenza catalana ha ben poco di romantico.

Il Fatto 1.10.17
Indipendentisti sì, ma tanto amici del Cremlino
Ingerenze - La Brexit, il Front in Francia e ora la Spagna. Mosca fa leva sulle fratture dell’Europa
di Leonardo Coen

Tutto è cominciato ad aprile. Quando a Barcellona viene arrestato il programmatore russo Piotr Levashov, 36 anni, su richiesta degli Stati Uniti perché accusato di cyberspionaggio nel caso Russiagate. Che ci faceva in Catalogna questo misterioso hacker, il re dello “spam”, capo del motore spam Kelikhos, creato nel 2010, ex militare ed ex membro di Russia Unita, il partito di Putin?
Kelikhos, secondo il sito KrebsOnSecurity, avrebbe infettato dai 70 ai 90 mila computer, capace di inviare ogni giorno un miliardo e mezzo di messaggi. Inoltre, Levashov è di San Pietroburgo, come Putin. È diventato miliardario, secondo il New York Times, anche grazie alle commissioni che gli ha versato il Cremlino. Lo scopo? In America, favorire la vittoria di Donald Trump. In Europa, seminare dubbi nell’opinione pubblica sulla legittimità del processo democratico, favorendo partiti e movimenti euroscettici, populisti ed indipendentisti. Levashov, altro dettaglio significativo, girava sempre con un paio di guardie del corpo e cercava di non mettersi mai troppo in evidenza. Come una spia. Settembre 2016. Ora si capisce perché Levashov fosse in Catalogna. Per organizzare disinformazione a favore dei separatisti. La macchina delle ingerenze russe ripete lo schema già sperimentato con Brexit e poi con Trump, in Olanda (a favore di Geert Wilders, il leader xenofobo ed anti Bruxelles), in Francia (Front National di Marine Le Pen), in Austria e in Germania, con l’ultradestra tedesca di Afd. In Catalogna, il Cremlino ha visto un’altra opportunità per accentuare le fratture europee e indebolire l’Ue.
Non sono sospetti. Ma certezze. L’offensiva, segnalano le piattaforme di analisi sociali come Audiense, è documentata da un incremento massiccio di tweet, email, articoli, trasmissioni tv schierati a favore del separatismo. La Tv di Stato russa ha commentato due giorni fa la situazione come fosse frutto di una ineluttabile crisi: “Il mondo occidentale sta cadendo a pezzi, non siamo solo noi ad esserne colpevoli”. Si citano anche i referendum leghisti sull’autonomia. RT, network satellitare globale finanziato dal Cremlino, diffonde 42 servizi dal 28 agosto al 24 settembre, parecchi i titoli scorretti, come “la Ue rispetterà l’indipendenza catalana, però bisognerà aspettare il processo di adesione”. Fake. Sulla scena irrompe Julian Assange. Il 12 settembre twitta: “La nascita della Catalogna come Paese o guerra civile”. Il web è sobillato. Il 15 settembre (ore 6.46 pm): “Invito tutti ad appoggiare il diritto della Catalogna all’autodeterminazione”. Il tweet, rilanciato dai media e dal web russo, diventa virale. Quasi una parola d’ordine. Per NewsWhipquel giorno è il tweet che ha avuto maggiore influenza nel mondo. Il 21 il testimone passa a Edward Snowden: “La repressione della Spagna è una violazione dei diritti umani”. Infine, ecco Justin Raimondo, direttore del sito AntiWar, attivista no global che ha appoggiato Trump. Assange e i soldatini del web russo diffondono l’articolo: “Catalogna? Una piazza Tienanmen spagnola”.

La Stampa 1.10.17
Una ridicola carnevalata che minaccia l’Europa e crea altre fratture in Spagna
Gli indipendentisti potranno dire che ha prevalso il “Si” a prescindere dalla partecipazione e nonostante la mancanzadi trasparenza
di Juan Luis Cebrian

La prima volta che ho avuto l’opportunità di imbucare il mio voto in un’urna è stata in occasione del referendum che la dittatura franchista aveva organizzato nel dicembre del 1966 per ratificare la Legge Organica dello Stato, nome scelto per il patetico intento di istituzionalizzare il regime attorno a qualcosa che potesse sembrare una Costituzione. Poiché stavo facendo il militare, ho votato portando l’uniforme di soldato e seguendo gli ordini ricevuti, sotto serie minacce di essere arrestato se avessi fatto diversamente. Ovviamente ho votato «no», senza alcuna speranza che potesse servire a qualcosa, e così mi sono allineato, secondo i risultati ufficiali, con lo scarso 1,5% del censimento che esprimeva il suo rifiuto di fronte a quella carnevalata franchista organizzata con tutto il cinismo del mondo in nome della democrazia.
Alcuni giorni prima del voto, un giornalista europeo mi aveva chiesto, tra l’ingenuo e il sarcastico, dove si trovava l’ufficio del «No», perché voleva fare un reportage sui pro e i contro della proposta. «Quell’ufficio non esiste - risposi - l’unica propaganda permessa è per il “Sì”, promosso dagli organi ufficiali, con soldi pubblici e la massiccia presenza della tv statale, l’unica esistente». La presunta consultazione, aggiunsi, non era tale, non esprimeva la volontà degli spagnoli e sarebbe finita per non servire a nulla quando il dittatore fosse morto, cosa che poi sarebbe successa.
Le immagini di quell’epoca mi tornano irrimediabilmente alla memoria, considerate tutte le differenze, che forse non saranno tante in molti aspetti, rispetto al voto convocato oggi in maniera apertamente illegale da parte del governo autonomo catalano. Quest’ultimo e quello di Madrid si sono ingarbugliati in una polemica di profili quasi ridicoli, se non mettessero a rischio la stabilità politica spagnola. Mentre la Generalitat insiste che ci sarà il referendum, Rajoy si è stufato di dire che non si celebrerà. Ed entrambi potrebbero proclamare la loro vittoria al tramonto. Alcuni diranno che, nonostante gli ostacoli dei tribunali e la repressione di Madrid, sono riusciti a far sì che una massa considerevole di cittadini si avvicinasse alle urne o almeno cercasse di farlo: cioè, che la consultazione si è celebrata, salvo nei casi in cui è stato impedito dalle forze pubbliche. Altri, che non c’è stato il referendum perché, appunto, non poteva esserci.
Alcuni collegi saranno aperti, alcune urne saranno riempite ed evidentemente non si prevede l’abbondanza di voti negativi, quindi gli indipendentisti potranno dire, se lo vorranno, che avrà vinto il «Sí» a prescindere dalla partecipazione e nonostante l’assoluta mancanza di trasparenza.
È impossibile non riconoscere che le proteste per le strade superano di gran lunga qualsiasi previsione del governo di Madrid, anche se, in realtà, sembrerebbe non aver previsto quasi nulla in questo caso. La goffaggine del pubblico ministero, l’assenza della politica, l’incapacità statica del presidente hanno anche molte colpe in questo monumentale sbaglio, nel quale si mischiano l’indipendentismo con il diritto a decidere, e nel quale la gente si alza e riempie gli spazi pubblici con un’aria festaiola, come se fossimo a Rio de Janeiro, ma anche indignata, e con un obiettivo diverso dall’indipendenza: far fuori il governo Rajoy e le politiche del Partito popolare.
La sfida indipendentista non attenta più di tanto all’unità spagnola, che non verrà rotta, ma alla stabilità del processo politico ed economico e anche alla sopravvivenza stessa dello Stato. La carnevalata indipendentista, come quella franchista del ’66, non produrrà gli effetti desiderati da coloro che l’hanno ideata e promossa. Non ci sarà l’indipendenza in Catalogna come conseguenza della consultazione. Ma i danni creati, abbastanza visibili, saranno profondi: divisione e confronti tra i catalani; diffidenza mutua tra Catalogna e resto d’Europa; crescita dell’ispanofobia nella Comunità autonoma e logoramento della democrazia spagnola. Saremo di fronte, come se non bastasse, al rigermogliare del nazionalismo spagnolo, fomentato dalla destra al potere; alla frammentazione della sinistra, già accusata dopo il disordine interno che hanno prodotto gli attuali leader del Psoe; e a un rinvigorimento delle pulsioni conservatrici e del centralismo, considerevolmente dannosi per il futuro di tutto il Paese. Cattive notizie per gli spagnoli. Anche per gli europei in generale.
*Presidente del quotidiano spagnolo «El País» e membro della Real Academia Española
Traduzione di Pablo Lombó Mulliert

Corriere 1.10.17
Sarà una ferita all’unificazione europea (comunque vada)
di Antonio Polito

L a scorsa estate, seguendo le indicazioni del navigatore satellitare, sono passato dalla Spagna alla Francia senza neanche accorgermene. Non un cartello, un poliziotto, una bandiera. L’autostrada, semplicemente, cominciava in Spagna, varcava il confine nei Paesi Baschi, e continuava in Francia. È il bello dell’Europa unita, direte: un continente senza più frontiere. Se non fosse che due giorni prima un commando di terroristi aveva sconvolto Barcellona e la Catalogna, e tutti i media segnalavano il rischio che l’attentatore della Ramblas e i suoi complici potessero scappare in Francia per sfuggire alla caccia all’uomo. Constatare con quanta facilità avrebbero potuto muoversi, metteva un po’ i brividi.
Quella frontiera dissolta è solo uno dei troppi lavori lasciati a metà dal processo di integrazione europea. Abbiamo indebolito lo Stato nazionale, annunciando che le frontiere interne non esistevano più, ma non è mai arrivato lo Stato multinazionale, dotato di una polizia federale e di una Procura antiterrorismo, che potrebbe sostituirlo. Dalla stessa illusione, dallo stesso gioco di specchi, nasce la crisi catalana. La revanche di sentimenti indipendentisti è paradossalmente un effetto del successo dell’integrazione europea, e non sarebbe possibile se l’Unione non esistesse. Pochi catalani, scozzesi o fiamminghi, se la sentirebbero di avventurarsi per il mondo con il passaporto e il mercato che la loro piccola patria potrebbe offrire. Ma se invece trovano posto in un contenitore di nazionalità più ampio della Spagna o del Regno Unito o del Belgio, capace di proteggerli meglio economicamente e di garantire di più le loro differenze, perché mai restare dentro i vecchi confini, imposti dal vicino più forte e talvolta più arrogante. E infatti quasi tutti i movimenti indipendentisti sono filo-europei, preferendo condividere la propria sovranità con Bruxelles piuttosto che con le antiche capitali degli Stati che li hanno annessi.
Però quel nuovo contenitore multinazionale, tanto annunciato e predicato, nella realtà non c’è, è rimasto un miraggio. Si spiega così il grande imbarazzo con cui l’Unione Europea assiste allo scontro tra Madrid e Barcellona. È come se si fosse voltata dall’altra parte, per non vedere: da un lato i catalani che si sbracciano per avere una stanza tutta loro nella casa comune, e dall’altro gli spagnoli che di quella casa sono comproprietari per niente disposti ad affittare. Se l’Europa fosse schiettamente confederale, un’Unione di Stati, difenderebbe con più energia lo Stato spagnolo da una pretesa secessionista, togliendo ai catalani ogni illusione di poter essere accolti dopo una così traumatica rottura. Ma siccome l’Europa ha nel suo Dna il sogno federale di un’Unione tra popoli, non se la sente di condannare apertamente gli indipendentisti. Anzi, arriva a flirtare con loro quando le conviene, come ha fatto con gli scozzesi, a mo’ di rivalsa per la Brexit.
Bisogna aggiungere al dramma che si sta svolgendo nel cuore dell’Europa una delicatissima questione democratica. Dice al Corriere lo scrittore Xavier Cercas che il referendum è «un attacco alla democrazia in nome della democrazia». Una consultazione senza quorum, senza campagna elettorale degna di questo nome, senza legalità riconosciuta dalle corti, in cui basta prendere un voto in più per dichiarare la secessione, ha più le caratteristiche del plebiscito, o del colpo di mano. Ma, d’altra parte, veder difendere la democrazia recintando e pattugliando i seggi elettorali, sequestrando schede e urne, o imponendo censure, è un orribile spettacolo in questa parte del mondo, così fiera delle sue tradizioni liberali. Ecco perché ciò che oggi succederà a Barcellona non è un affare interno spagnolo, né puro folklore politico. Comunque finisca, è già una ferita alla storia dell’unificazione europea: ne mette a nudo l’ambiguità, e proietta un’ombra sul suo destino .

Repubblica 1.10.17
 Una storia politica scappata di mano
La fragilità e la paura di chi alza scheda bianca prigioniero dello scontro
CONCITA DE GREGORIO
I DUE LEADER
Il premier Mariano Rajoy e il presidente catalano Carles Puigdemont
BARCELLONA
FRAGILITÀ, paura. Dietro al frastuono delle urla di piazza, dei trattori e degli spari che occupano la scena, amplificati e replicati all’infinito dalle immagini su Internet e in tv, c’è una maggioranza di cittadini disorientata, spaventata dalla via senza ritorno che ha preso lo scontro. Costretta, in un certo senso, a schierarsi. Incredula di fronte all’incapacità di una classe politica che ha fatto di una palla di neve una pericolosissima slavina. Una classe politica che passerà alla storia per aver trasformato un dosso stradale in un muro, e di aver guidato bendata allo scontro. Per insipienza? Per mala fede? Per nascondere più gravi questioni? Arrivo in centro su un autobus guidato da un cittadino spagnolo di origine peruviana di nome Riccardo: vive e lavora a Barcellona da 14 anni, i suoi figli sono nati qui. Mi dice che andrà a votare scheda bianca. «Pensavo di non andare, l’indipendentismo non mi interessa, ma per come si sono messe le cose: vado». Posso registrare le sue parole? Certo. «Siamo liberi di esprimere la nostra opinione, no? Siamo una democrazia». In via Laietana (dove sfila oggi un migliaio di catalani sovranisti: Catalogna è Spagna dicono gli striscioni) incontro un avvocato sulla sessantina, esponente della borghesia delle professioni – la colonna dorsale di questa città. Non è indipendendista, non lo è mai stato. Tre mesi fa, in estate, mi aveva tenuta una serata intera a spiegarmi l’insensatezza della causa. Lui, i suoi colleghi, sua moglie, i loro amici: autonomia sì, indipendenza no. Ora, mi dice, bisogna andare a votare. Guarda il corteo: «Ci costringono, non ci si può tirare indietro ». Anche Ada Colau, sindaca della città espressa da En Comù Podem, una costola di Podemos – la novità politica più rilevante degli ultimi anni, arrivata a un passo da governare i Paese – voterà scheda bianca.
L’autista peruviano, l’avvocato borghese, la sindaca venuta dai movimenti. Non tutti i catalani sono indipendentisti, né tutti gli spagnoli sovranisti. Non è un derby, per quanto il Barça sia schierato. E’ una storia politica scappata di mano, e bisogna avere la pazienza e l’attenzione di decifrarla. Quando qualcosa accade è perché è già successo. «Niente comincia davvero, tutto è il proseguimento di qualcos’altro», scriveva Martin Caparròs sul New York Times lunedì scorso nella più equilibrata analisi letta fino a oggi. Caparròs, scrittore argentino, fondatore di Pagina 12, vive da anni in Spagna e lavora per il NYT. Spiega come meglio non saprei dire, provo a riassumere. Nessuno fino all’altro giorno ha mai parlato di indipendenza. Neppure i partiti che oggi la invocano. Il tema è sempre stato l’autonomia – fiscale, culturale, amministrativa: Catalogna ha sempre chiesto lo stesso regime di autonomia dei Paesi Baschi. Perché i Paesi Baschi l’hanno avuta e Catalogna no? Detto male, ma per capirsi: per via dell’Eta, la guerra civile che ha insanguinato la Spagna. Il Paese Basco ha ottenuto uno statuto autonomo quasi da stato federale, Catalogna no. Dopo decenni di lavoro politico nel 2006 si arriva a un accordo: Maragall (l’ex sindaco delle Olimpiadi, amatissimo) presidente della regione e Zapatero al governo, entrambi socialisti, trovano l’intesa per lo Statuto autonomo. Una legge regionale catalana ratificata dallo Stato centrale. La soluzione. Quattro anni dopo, nel 2010, il nuovo governo di destra guidato da Rajoy, Partito Popolare, porta lo Statuto alla Corte costituzionale (che in Spagna è di nomina politica) che lo cassa. Fine dei giochi, inizio della storia che ci porta a oggi. Nel 2010 in Catalogna c’era la stessa destra catalanista di adesso: non aveva mai parlato di indipendenza, sempre di autonomia. Irrompe però la crisi economica. Tagli alla scuola, alla salute, ai diritti. Casse vuote, corruzione alle stelle. Spiega Miguel Mora, che dirige la rivista Contexto, vive a Madrid ed è stato per anni corrispondente del Pais dall’Italia: «L’indipendentismo è una cortina di fumo delle élites che serve a nascondere la corruzione enorme sia del Partito popolare che di Convergencia e Uniò. Del Partito di Rajoy e di quello di Pujol. Mentre la gente impoverita scende in piazza, nasce Podemos, le classi politiche tradizionali ugualmente corrotte non trovano di meglio che agitare la facile bandiera della Patria. Le Patrie. Un diversivo. Il sistema economico controlla i media, il Psoe vira verso destra incalzato da Podemos. Il governo di Madrid prova a nascondere gli scandali della sua guerra sporca, una guerra di Stato fatta di dossieraggi contro i catalani e di servizi deviati». La Catalogna, regione ricca, dà a Madrid la colpa dell’impoverimento. La destra catalana per governare si allea a Esquerra repubblicana, forza cattolica borghese di sinistra. Nessun rivoluzionario all’orizzonte. Gli indipendentisti sono una esigua minoranza, ancora, sotto il 20 per cento: tra loro i giovani dei Cup, area centri sociali, necessari al governo catalano. Scrive Caparròs: «La maggioranza dei catalani non può immaginare la sua regione fuori dall’Europa, il suo tenore di vita impoverito e il Barça giocare fuori dalla Liga». Chiaro. Artur Mas nel 2014 convoca un referendum consultivo: va a votare la minoranza dei catalani. E’ il segnale per avviare una trattativa, ma Rajoy si nega. Miguel Mora: «La cocciutaggine e la miopia di Rajoy, accecato dal pericolo di soccombere sotto gli scandali del suo governo, è lampante. Se poi mandi 15 mila poliziotti, arresti funzionari, chiudi i siti internet costringi tutti a scendere in piazza persino per una causa non loro». È pur sempre un paese la cui classe dirigente, a destra, è nipote della dittatura. «Arrivano in piazza le bandiere, che hanno la caratteristica di scappare di mano. Ora l’82 per cento vuole l’indipendenza. È la fine della stagione della classe politica che ha portato alla Costituzione del ‘78. Fino a pochi mesi fa non c’erano rivoluzionari, non c’erano indipendentisti. C’era una regione che chiedeva autonomia. Ora siamo sull’orlo di una guerra civile». Nessuno saprà mai cosa avrebbero votato i catalani se li avessero lasciati votare. Non era l’indipendenza la posta in palio. «Io credo che gli stessi dirigenti catalani abbiano paura di vincere, delle conseguenze». Paura, di nuovo. Carles Puidgemont, giornalista pubblicista di Girona, diceva a questo giornale a giugno: «Sono costretto ad arrivare in fondo, ormai». Costretto. Un Simon Bolivar suo malgrado, dicemmo allora. Conservatori cattolici di destra iscritti al ruolo dei rivoluzionari. Conservatori e cattolici anche a Madrid, iscritti alla repressione. La violenza spinge all’illegalità. Doppio fallo, speculare. Il re tace. Podemos si chiama fuori. Astenuti dalla finta contesa, perché non è l’indipendenza la posta, ma chi governerà il Paese nei prossimi anni. Un gioco politico di potere che chiama in piazza il popolo «col vecchio trucco delle Patrie», scrive Martin Caparròs sul New York Times. Il vecchio pericolossissimo trucco.

Repubblica 1.10.17
Si prepara la tempesta ma l’Europa combatte per vincere
di Eugenio Scalfari

DELLA Germania e dell’Europa si è già scritto molto sui giornali e su tutti i mezzi di comunicazione del mondo intero. Ora aspettiamo, anche perché è la stessa Angela Merkel ad aspettare. A noi urge che l’Europa faccia qualche passo avanti, ma in quale direzione e quando? La Cancelliera ha bisogno di aspettare almeno un anno: deve perfezionare la sua alleanza con i liberali e i verdi, deve sondare il capitalismo tedesco che è una delle forze portanti del Paese; deve capire gli umori del cosiddetto popolo sovrano e conoscere il modo tutt’altro che facile di limitare l’improvvisa crescita dal 4 al 13 per cento dell’estrema destra para-nazista che in alcuni distretti, specie nell’Est tedesco, ha incassato percentuali ben superiori al 13, fino ad arrivare al 30 per cento.
Insomma, Merkel si trova in una situazione estremamente complessa; il suo Paese sta vivendo una fase pre-rivoluzionaria nel senso reazionario del termine. Del resto la storia della Germania moderna è sempre stata assai diversa da quella delle altre grandi Nazioni europee, come la Francia e l’Inghilterra. In quelle — tanto per dirla in breve — c’era un Re e i mutamenti sociali e politici avvennero gradualmente anche se crebbero società diverse rispetto ai punti di partenza (parliamo del periodo tra il Cinquecento ed oggi).
In Germania non fu così, almeno fino al Bismarck di fine Ottocento. Solo a quel punto il governo fu unitario. Prima era un territorio frammentato.
SEGUE A PAGINA 25
C’ERANO i Grandi elettori, i Principi o anche i Re della Sassonia, della Prussia, della Baviera, della Renania, delle città baltiche o amburghesi. Spesso nominavano l’imperatore dell’istituzione carolingia, ma contava ben poco. Insomma tardò molto a diventare una nazione e quando alla fine lo diventò, allora fu una potenza quasi egemone dell’Europa. Talmente egemone da suscitare l’avversione delle altri grande potenze europee, a cominciare dalla Francia pre e post rivoluzionaria.
È dunque su questo tema, storicamente occidentale, che gioca Merkel. La Cdu nasce come un partito di centro-destra, strutturalmente alleato con il Csu che è nettamente una destra, sia pur democratica.
Naturalmente ci sono anche i socialisti del centro-sinistra e i semi-comunisti della Linke ma non hanno mai avuto la maggioranza salvo brevi e rari casi, l’ultimo dei quali fu quello di Schröder che governò dal 1998 al 2005. Un esempio certo singolare e di una rara cultura politica fu Helmut Schmidt. Ma è acqua passata. Un altro personaggio di grande statura europea fu Adenauer, contemporaneo del nostro De Gasperi. Era uno dei pochi tedeschi europeisti, ma quello ormai è un tempo lontano.
***
L’Europa d’oggi ha una quantità di problemi che ovviamente sono anche problemi italiani. Ne abbiamo parlato infinite volte e quindi non è il caso di ripeterci. Ma tra essi emerge un tema di fondo che possiamo definire con una parola: società. Che cos’è e come si concepisce la società? Parliamo naturalmente del mondo occidentale che ha una sua storia impossibile da confrontare con l’Oriente.
La società è un “insieme”. Deriva da un istinto di fondo della nostra specie, quello della sopravvivenza. È il fondamento degli altri istinti. Comincia dal neonato che lo avverte inconsapevolmente e continuamente: se ha fame piange, se ha un dolore di nuovo piange, se è sazio ride e s’addormenta.
Ovviamente, quando l’età aumenta, quell’istinto emerge con sempre maggior chiarezza e si biforca: la tua sopravvivenza individuale e quella della specie. La prima è naturalmente la più avvertita perché noi siamo tutti individui; la seconda emerge di fronte ad eventi che impressionano tutti: una strage di persone compiuta da una guerra o da cause naturali. Gli individui sentono dolore dentro di loro e reagiscono aiutandone le vittime e castigandone i responsabili con apposite leggi e solidarizzando con i colpiti. L’istinto di sopravvivenza è perciò assai complesso per i suoi effetti sociali. Ma la società non è dominata soltanto da quell’istinto: c’è la rete degli interessi non solo individuali ma della famiglia, della comunità di cui si fa parte, della città dove si vive, della Nazione di cui si fa parte, della religione che si pratica. Siamo tutti elementi fondamentali che configurano la società mondiale sempre più complessa. Questa complessità sfocia spesso in un’ideologia e nella politica che si propone di realizzarla.
Oggi però viviamo tempi bui. Molti reagiscono a queste situazioni affrontando la politica. L’affluenza alle elezioni sta crollando in quasi tutto l’Occidente. Si è visto in Francia dove Macron è stato eletto da una minoranza mentre il grosso degli elettori è rimasto a casa. Si è votato la settimana scorsa in Germania con molte astensioni e si era votato anche in America con l’elezione minoritaria di Trump.
Accanto all’astensione, che si registra soprattutto tra i giovani, si verifica anche un netto aumento di partiti che provocano la rabbia popolare contro la società e chi la guida, cioè le classi dirigenti. L’attacco più violento viene da una destra e una sinistra estreme, che con opposte motivazioni sono però accomunate da vero e proprio ribellismo. Non sono furori nuovi, la storia ci dice che ci sono sempre stati, non come situazioni permanenti ma come momenti di grave decadenza dell’istinto di stare insieme. C’è un detto di carattere religioso che ha un valore generale ed è questo: «Dio ha creato l’amore ed anche il viaggio».
Il viaggio, in questa frase, significa il mutamento che molto spesso provoca la trasformazione dell’amore in un sentimento diverso o addirittura opposto: non più amore ma indifferenza, antagonismo o addirittura odio; non più Noi ma Io, non più pace ma guerra, non più democrazia e libertà ma tirannide. Per fortuna (e per sopravvivenza) il viaggio verso il peggio non è la situazione naturale della società, anzi è un’emergenza e come tutte le emergenze non è la naturalità, ma non è neppure un raro evento. La natura è “l’insieme”, spesso però insidiato dall’emergenza.
In un bel libro di Roberto Calasso uscito in questi giorni e intitolato L’innominabile attuale c’è una splendida immagine di Baudelaire con il quale il libro si chiude e che descrive purtroppo la situazione che stiamo vivendo: «Sintomi di rovina. Edifici immensi. Numerosi, uno sull’altro, appartamenti, camere, templi, gallerie, scale, budelli, belvedere, lanterne, fontane, statue. Fenditure, crepe. Umidità che proviene da una cisterna situata vicino al cielo. Come avvertire la gente e le nazioni?».
Purtroppo le cose ora stanno così.
I concreti problemi che abbiamo davanti a noi e che la nostra discussione sulla natura della società può aiutarci a risolvere sono i seguenti: 1. Come affrontare il tema del rafforzamento dell’Europa avendo come stadio finale la Federazione dei 19 Paesi dell’Eurozona. 2. Come risolvere il problema dell’emigrazione dall’Africa verso l’Europa. 3. Come risvegliare i giovani a partecipare alla politica democratica.
Nell’ampio discorso di Macron pronunciato pochi giorni fa alla Sorbona il processo verso l’Europa federale si fonda su una riforma delle attuali istituzioni dell’Ue: un ministro delle Finanze dell’Eurozona, responsabile di fronte ai 19 Paesi della politica economica, avendo come interlocutore il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Un ministro responsabile della sicurezza interna dell’Europa minacciata dal terrorismo. Un esercito europeo formato da contingenti forniti dagli eserciti dei 27 Paesi dell’Unione. Una politica dell’immigrazione che tenda ad arginare l’arrivo di masse africane e a favorire la crescita economica di quel continente che ci fronteggia. L’abolizione del Trattato di Dublino di cui si parla da tempo senza però che sia mai stata realizzata.
Questo è il programma esposto da Macron. Naturalmente il Presidente francese vuole la Francia alla guida di questo programma e fa conto dell’appoggio soprattutto dei Paesi del Sud Europa a cominciare dall’Italia. Del resto questa leadership francese è più che giustificata dalla storia europea.
Quanto al tema dei giovani esso è affidato soprattutto a loro. Essi possono ed anzi debbono collaborare alla fondazione di scuole adatte a modernizzare la loro educazione culturale, non solo nel proprio Paese ma anche su scala europea (una sorta di Erasmus su scala continentale e addirittura mondiale) ma la base di riavvicinamento dei giovani alla società, alla parola scritta, ai libri della cultura classica e a quelli della modernità illuministica, dipende da loro, dall’ambiente familiare in cui vivono, e dalle loro discussioni tra compagni di vita. I giovani debbono vivere come legittima e anzi doverosa ambizione quella di fornire la nuova classe dirigente europea. Questo è un problema fondamentale del prossimo futuro e ha l’elemento determinante della politica nel senso aristotelico del termine.
Da questo punto di vista la società globale e la sua sempre più sviluppata tecnologia contengono al tempo stesso elementi positivi e negativi rispetto alla formazione dei giovani. Positivi perché dispongono di mezzi di comunicazione sempre più sviluppati; negativi perché quei mezzi rischiano di distrarre i giovani, di impedire al loro pensiero di svilupparsi e di favorire soltanto il loro individuale piacere. Il piacere, di qualunque tipo esso sia, deve provenire anche dal pensiero nel senso profondo del termine. Se così non è, il piacere accentua un individualismo spensierato ed egoista e peggiora i tempi bui nei quali stiamo vivendo.
C’è una splendida canzone del grande jazz che ha la motivazione dei tempi bui che stiamo attraversando. Si chiama Stormy Weather e motiva quello “Stormy”: «Da quando il mio compagno ed io non stiamo più insieme piove sempre — keeps rainin’ all of the time — piove sempre».
Il blues esprime tristezza e malinconia, come le poesie di Dante e di Guido Cavalcanti le quali però contengono anche la speranza del futuro. Se i giovani le rileggessero crescerebbe in loro quella speranza di cui il mondo di oggi ha estremo bisogno.

il manifesto 1.10.17
Travagli nella parabola della Rivoluzione
Russia 1917. Una prospettiva, quella dello storico inglese Stephen A. Smith, che mentre descrive «Un impero in crisi 1890-1928» estende gli effetti dei «dieci giorni che sconvolsero il mondo» fino alle attuali tensioni nazionaliste
di Stefano Garzonio
Edizione del

Un centenario in sordina quello della rivoluzione d’ottobre del 1917: certo, sono moltissime le iniziative commemorative e le occasioni di studio preparate in Russia e nel mondo, ma nessun festeggiamento commensurabile a quelli che segnarono, ad esempio, i duecento anni della rivoluzione francese. Nella nostra editoria ad alcune pubblicazioni di indubbio interesse e novità, per esempio il volume in uscita da Jaca Book, La rivoluzione russa di Pier Paolo Poggio, Giovanni Codevilla e Stefano Caprio, va ad aggiungersi da Carocci un importante contributo dello storico inglese, Stephen A. Smith, La rivoluzione russa Un impero in crisi 1890-1928 (pp. 464,euro  34,00) nella introduzione al quale si chiarisce subito che scrivere di questi eventi è per forza di cose «un’impresa di carattere peculiarmente politico», ciò che fa scegliere all’autore di attenersi a una trattazione il più possibile obiettiva.
Questo stesso intento porta Smith ad ampliare la trattazione storica della rivoluzione russa, partendo dagli anni del regno di Alessandro III, e a dedicare ampio spazio anche ai fatti di inizio secolo, dalla guerra giapponese alla rivoluzione del 1905 fino alla Grande Guerra. Allo stesso tempo, la sua trattazione si estende a tutti gli anni venti, al periodo della Nep, e giunge alla Grande Svolta staliniana alla vigilia della collettivizzazione, della grande industrializzazione e degli anni del Terrore. Una particolare attenzione, dunque, viene prestata a temi e questioni che nella storiografia precedente al 1991 avevano suscitato minore interesse e, in concreto, al problema della dimensione imperiale e nazionale della rivoluzione, questione ancora molto viva ai giorni nostri, e che nei confronti della rivoluzione è stata a suo tempo acutamente trattata da Vittorio Strada nel suo volume Rivoluzione e impero (Marsilio).Tutti i dettagli della storia
Proprio la questione dell’impero spinge Smith ad affrontare le implicazioni etniche e nazionali della rivoluzione e della guerra civile. Dalla rassegna di quegli eventi si ottiene un quadro di riferimenti assai utile anche per indagare le questioni nazionali nel mondo post-sovietico dei nostri giorni, dall’annoso problema del nazionalismo grande russo, dell’antisemitismo, ma anche della russofobia, a quello dei nazionalismi degli altri popoli dell’impero (dal Baltico, al Caucaso, all’Ucraina, all’Asia Centrale) e oltre. Sono tutti aspetti dei conflitti interni alla rivoluzione che Smith giustamente confronta e contrappone agli intenti dichiarati del nascente potere proletario: affermare una prospettiva internazionalista e universale, che avrebbe dovuto realizzarsi nella vittoria del socialismo in tutto il pianeta.
Lo storico inglese ripercorre la storia dei rapporti e delle contrapposizioni tra i bolscevichi e gli altri movimenti politici di orientamento socialista, caratterizza i dissidi anche all’interno dello stesso partito comunista, traccia tendenze e conflitti che risultano significativi anche per comprendere la storia più recente di quelle nazioni e di quei popoli che vennero inglobati nelle varie repubbliche socialiste dell’Urss. Sempre con un occhio attento alla storia più recente, Smith affronta il tema delle persecuzioni contro la Chiesa e la politica antireligiosa sviluppata fin dal successo del colpo di stato dell’Ottobre.
Centrale, poi, l’analisi dei tratti sociali, culturali, politici del variegato mondo contadino russo e del suo rapporto con il nuovo potere dei Soviet. Allo stesso tempo, Smith sviluppa anche un fruttuoso confronto con la storia della cultura russa e sovietica, tra tradizione, innovazione, pragmatismo e aspettative catartiche, negli anni che precedettero la piena affermazione dello stalinismo. E affronta in modo assai vivace il tema della violenza rivoluzionaria, rifiutando molti degli stereotipi interpretativi fin qui accettati e mettendo a confronto il periodo dell’autocrazia con quello del nascente stato sovietico, quello della guerra civile e quello del terrore rosso della Ceka. Approda così a constatare la «ubiquità della violenza» nella rivoluzione: nel mettere ovviamente in evidenza la tendenza del potere sovietico a «plasmare il corpo sociale» con pratiche di schedatura, carcerazione, deportazione e così via, non minimizza il carattere violento e repressivo dell’ancien régime enumerandone i numerosi antecedenti e stabilendo interessanti analogie. Di grande rilievo è anche l’analisi offerta dallo storico inglese del rapporto tra azione rivoluzionaria, gestione del potere e ideologia, e, allo stesso tempo, del passaggio dalla rivoluzione di popolo a quella «dall’alto» attuata da Stalin fino al recupero di molti tratti dell’autocrazia.
Interpretazioni precedenti
In questa prospettiva, Smith tiene conto, pur tendendo a superarle, delle varie letture precedentemente offerte della rivoluzione russa, da quella di Martin Malia, che parla di «ideocrazia», attribuendo grande importanza all’ideologia anche nelle scelte pratiche e contingenti della gestione del potere, a quella di Richard Pipes che vede la persistente influenza dello zarismo nel definirsi del nuovo stato sovietico e della stessa concezione della dittatura del proletariato che si realizza poi nell’incontrastata autorità di Stalin.
Il quadro che se ne ottiene è pacatamente obiettivo: qualcuno lo leggerà come «distaccato e disilluso», ma Smith offre l’opportunità unica di poter ripercorrere le diverse fasi della storia russa con un occhio al loro significato più propriamente universale, all’opposizione tra socialismo e capitalismo anche in una prospettiva che conduce alla contemporaneità e alle nuove situazioni conflittuali del nostro tempo tra Russia e Occidente.
Certo è che lontano dai trionfalismi e dalle aspettative che parvero dischiudere i «dieci giorni che sconvolsero il mondo», accettata la fine «della spinta propulsiva dell’Ottobre» e lontano da qualsiasi posizione di parte, sottolinea l’importanza della rivoluzione nell’edificare uno stato che non solo seppe tener testa a lungo al capitalismo, ma soprattutto fornì un alto tributo di sangue come decisivo baluardo contro la vittoria del fascismo.
In questi tempi di dilagante russofobia e riabilitazione di movimenti nazionalistici a suo tempo alleati del nazismo quella di Smith è una presa di posizione decisa e niente affatto scontata.

il manifesto 1.10.17
Notizie da un Io smisurato quanto i suoi debiti
Classici. Estraneo alla introspezione psicologica, il carteggio dello scrittore russo denuncia l’odiato «buon senso» borghese, le «vili» impellenze economiche, la nostalgia della Russia vista dai viaggi in Occidente
di Valentina Parisi

Se si volesse individuare il luogo di un climax speciale nelle lettere dostoevskiane curata da Ettore Lo Gatto nel 1950 e riproposte ora da Nino Aragno con il titolo I demoni quotidiani (2 voll., pp. 930, euro 30,00) lo si troverebbe probabilmente nella missiva del 24 marzo 1870 indirizzata da Dresda ad Apollon Majkov. Qui Fëdor Dostoevskij, benché sprofondato nella stesura dei Demoni («Quel che scrivo è una cosa tendenziosa. I nichilisti e gli occidentalisti diranno che sono un retrogrado! Che il diavolo se li porti…»), comunicava già all’amico l’idea per il progetto che l’avrebbe occupato nell’ultimo decennio della sua esistenza e cioè quel romanzo chiamato provvisoriamente La vita di un grande peccatore che si sarebbe poi tramutato nei Fratelli Karamazov. Mai la esuberante immaginazione dello scrittore era stata mobilitata contemporaneamente su tanti fronti, a evocare visioni che andavano dalla figura tormentata di un protagonista «ora ateo, ora credente, ora fanatico e settario, ora di nuovo ateo» alle mura di un eremo dove avrebbe voluto convocare Belinskij, Caadaev e Puskin (ovviamente sotto mentite spoglie) a discutere della Russia e dei suoi destini. Ricatti editoriali
D’altronde, se i propositi creativi si succedevano nella sua mente a una velocità così vertiginosa, ciò era dovuto più che altro a una circostanza che lo avrebbe accompagnato lungo tutto l’arco della sua carriera e che emerge con flagrante evidenza anche dalla lettera a Majkov: «E intanto sono positivamente in una posizione terribile (mister Micawber). Non ho una sola copeca e dobbiamo vivere fino all’autunno, quando avremo il denaro». Paragonandosi ironicamente al personaggio tragicomico creato da Charles Dickens in David Copperfield, il romanziere russo sottolineava una costante («ho lavorato tutta la vita a causa del denaro e tutta la vita sono stato in bisogno») che rendeva la sua situazione ben differente da quella dei colleghi aristocratici, in primo luogo Ivan Turgenev e Lev Tolstoj. Così, non c’è da meravigliarsi se le «vili» questioni economiche tornano nelle sue lettere con un’insistenza che conferma la convinzione espressa da studiosi come Donald F. McKenzie secondo cui l’opera letteraria è anche il prodotto della contrattazione talora spietata con quegli intermediari chiamati editori.
Estraneo alla dolorosa, lancinante introspezione psicologica che caratterizza altri carteggi (uno su tutti, anche se il contesto è ovviamente diverso, quello di Marina Cvetaeva), l’epistolario di Dostoevskij, fin dalle prime lettere indirizzate al fratello Michail negli anni quaranta, è innanzitutto una viva testimonianza di come funzionava il sistema editoriale russo verso e oltre la metà dell’Ottocento, tra contratti-capestro, scadenze angoscianti e anticipi che spesso servivano agli autori esclusivamente per saldare i debiti precedenti. Per non parlare della censura di Stato, più potente e temibile di qualsiasi critico.
berato dalla necessità di provvedere alle esigenze della propria famiglia e a quella del fratello prematuramente scomparso, pungolato da un amor proprio almeno pari al proprio talento e incalzato in continuazione dagli editori, al di là del lavoro creativo Dostoevskij difficilmente prendeva la penna in mano se non per cercare di strappare prestiti agli amici, impietosire i creditori e proporre ai redattori delle riviste le sue opere ancora non scritte, eppure già quantificate in fogli di stampa.
A Apollinarija Suslova
Ciononostante, le sue lettere si leggono a tratti come un autentico romanzo, soprattutto là dove l’autore tende a sottolineare (non senza un certo autocompiacimento) la propria estraneità all’odiato «buon senso» borghese e all’attaccamento filisteo al denaro, anche nelle situazioni di indigenza più estreme. Emblematiche, a questo proposito, sono le missive inviate da Wiesbaden alla sua amante Apollinarija Suslova, prototipo per il personaggio di Polina nel Giocatore. Dopo aver sperperato alla roulette fino all’ultimo centesimo, lo scrittore si era letteralmente asserragliato in una stanza d’albergo che non poteva più pagare e, nutrendosi soltanto di un tè «cattivissimo», attendeva nervosamente che da Ginevra Aleksandr Herzen gli spedisse del denaro per uscire da quella situazione imbarazzante.
Proprio in quei giorni, tormentato dal disprezzo dei camerieri tedeschi che gli lesinavano perfino le candele per scrivere di notte, Dostoevskij mise a punto la trama di Delitto e castigo.
Una analoga sensazione di accerchiamento emerge dalla lettera del 23 aprile 1867 indirizzata sempre a Suslova, in cui le comunica di essersi risposato con la stenografa che l’aveva aiutato a consegnare il Giocatore in soli ventiquattro giorni e di essere precipitosamente partito con lei alla volta di Dresda per evitare di finire in carcere per debiti come mister Micawber. Sebbene il soggiorno all’estero, prolungatosi per ben cinque anni, avesse permesso a Dostoevskij non solo di sfuggire ai creditori, ma anche di riprendersi dalle crisi epilettiche che a Pietroburgo lo perseguitavano con sempre maggior frequenza, la nostalgia per la Russia, non smise mai di attanagliarlo. Di converso, l’immagine che dell’Occidente affiora dal carteggio con gli amici Majkov e Nikolaj Strachov è quantomeno desolante, anzi: fa quasi fatica a emergere rispetto al ricordo, ampiamente idealizzato, della madrepatria. Già nel settembre 1863 Dostoevskij aveva riferito della singolare impossibilità di scrivere di Roma, pur trovandosi nella Città Eterna ormai da qualche giorno, a tal punto le preoccupazioni russe lo sovrastavano. A maggior ragione, questa reticenza varrà per quei luoghi in cui lo scrittore, benché disgustato dalla routine familiare, vivrà barricato tra le quattro mura domestiche, pur di evitare i suoi compatrioti emigrati, da lui invariabilmente tacciati di liberalismo e russofobia.
Le tappe europee
Così, Ginevra gli appare «noiosa, tetra, una stupida città protestante con un clima orribile»; Vevey dannosa per i nervi suoi e della moglie; Firenze «bella ma molto umida». Dal canto suo, Dresda ha l’unico vantaggio di essere meno cara di Pietroburgo, mentre Milano gli nega anche quel conforto che almeno gli concedeva la Svizzera, vale a dire poter uscire di casa per leggere i giornali russi al caffè. Consapevole di frustrare le aspettative dei suoi corrispondenti con sfoghi eccessivamente irruenti e biliosi, Dostoevskij ammetterà nel 1865 ad Aleksandr Vrangel’: «Io non so scrivere lettere e non so scrivere misuratamente di me stesso». Ed è forse proprio questa smisuratezza a rendere il suo epistolario tanto più interessante, elevandolo a riflesso fedele di un’esistenza braccata e inquieta.

il manifesto 1.10.17
Il viaggio di un testo dalla mente alla messa in pagina
Paleografia. Venti saggi di importanza strategica per leggere in una dimensione nuova la vicenda millenaria della nostra civiltà letteraria: «Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura», da Carocci
di Corrado Bologna

«Eccetera, perché la minestra si fredda», appuntava, con un ghiribizzo, Leonardo da Vinci, interrompendo certe riflessioni geometriche tramandateci dal codice Arundel. La mano, pròtesi della mente, non riesce ad afferrare al volo e a trasferire sulla carta i lampi dell’immaginazione, velocissima; la scrittura urge nella penna per trasformare l’idea in traccia, in segno permanente, ma il tempo stringe, la vita si impone. Allora la mano ricorre a una stenografia del pensiero, timida sineddoche di avvenire, vana promessa di un ritorno sul tema: eccetera… Anche Leopardi costellò lo Zibaldone di eccetera, come un appuntamento dato a sé stesso per non lasciare incompiuta un’idea inespressa. La mano, scrivendo, si lascia andare verso l’infinito, si sforza di assorbire nel testo lo spazio e il tempo. Vorrebbe procedere ininterrotta, sfidando i limiti naturali: il tempo dell’esistenza, lo spazio del corpo che fissa dei segni su un supporto destinato a raggiungere altri uomini. Con quella mente che sta scrivendo dialogheranno in un piccolo, eroico braccio di ferro contro l’ora tarda della notte, la fine dell’inchiostro o della carta, la fine della vita.
Il pensiero prende corpo
Nell’Antropologia della scrittura (Mondadori, 1982) Giorgio Raimondo Cardona, etnolinguista e glottologo magistrale, fra i primi ha messo in luce l’importanza della relazione fra la mente istantanea e la lenta mano che lavora la materia, crea manufatti e opere d’arte, allinea lettere per dare corpo di parola al pensiero. A lui si deve un’importante riflessione sugli «aspetti antropologici e sociologici dell’uso dei sistemi di comunicazione grafica (…), di quel che la scrittura significa per il singolo e per il gruppo, di come essa sia stata utilizzata, in breve di tutti gli aspetti al di fuori e all’intorno del sistema grafico vero e proprio».
Accanto e in dialogo con Cardona, sulla stessa lunghezza d’onda anche se in un diverso campo scientifico, lavorava Armando Petrucci, che nel 2009 scrisse una bella introduzione alla ristampa per Utet dell’Antropologia della scrittura. Petrucci è il più grande paleografo del nostro tempo, non solo in Italia. Ha fondato e diretto a lungo Scrittura e Civiltà, una rivista che ha aperto orizzonti straordinari sulla storia delle scritture e sul gesto dello scrivere, sempre in equilibrio originale fra ricerca storica, paleografica e antropologica. Con un’attività formidabile di riflessione sul metodo e di studio specialistico applicato alla storia materiale dei libri, ha contribuito come pochi a trasformare la paleografia in una scienza dello spirito incarnato nel movimento della scrittura, dimostrando come le strutture del pensiero si riflettono nell’invenzione di modi di produzione e di organizzazione dei testi, nella forma materiale dei libri, nell’architettura segreta delle pagine.
Rapporti di scrittura
La paleografia è diventata un’imprescindibile funzione storiografica, in particolare nel campo della letteratura, con Armando Petrucci e la sua scuola (uno per tutti, Marco Cursi, autore delle più innovative ricerche su Giovanni Boccaccio editore dei testi propri e altrui e di un recente manuale, prezioso per l’ampiezza dell’orizzonte e per la ricchezza documentaria: Le forme del libro. Dalla tavoletta cerata all’e-book, Il Mulino 2016). Oggi Carocci raccoglie venti saggi di Armando Petrucci di importanza strategica per leggere in una dimensione nuova la vicenda millenaria della nostra civiltà letteraria, in Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura (pp. 726, 169 tavole, € 59,00). Da questi scritti, divenuti fondamentali via via che uscivano, abbiamo imparato a ripensare la storia della letteratura come storia della mano autoriale che scrive per rappresentare agli occhi di chi leggerà le idee elaborate nella mente creatrice, e insieme come testimonianza di un dispositivo culturale che, trasmettendo messaggi, codifica maniere di pensare e di guardare la realtà, esprimendola graficamente. Nel passaggio dall’autografo alle copie su cui i copisti faticano per trasferire il testo verso l’Altro (altri tempi, altri spazi, altre culture) si introducono non solo errori, ma metamorfosi della messa in pagina, dell’«ordine mentale e grafico» che imprime una segnatura indelebile al testo nel suo diventare libro.
La scrittura, ci ha insegnato Armando Petrucci, è insieme traccia grafica e specchio di una visione del mondo. Per comprendere appieno la mutevole tradizione e fortuna dei testi occorre riconoscere la forma organizzatrice della grafia e dell’impaginazione nella metamorfosi lungo il tempo, saper valutare «le tecniche, i modi di operare, i risultati diversi» derivanti da «atteggiamenti mentali» legati all’epistéme di ogni età e «da processi educazionali e da livelli culturali profondamente differenti».
La pratica speciale di «scrivere» un testo di natura letteraria può essere analizzata dal paleografo e dal filologo in fertile solidarietà. Petrucci ha ideato l’efficace formula «rapporto di scrittura» per indicare «il tasso di partecipazione diretta, cioè propriamente grafica, dell’autore all’opera di registrazione scritta di un suo testo in una qualsiasi fase dell’elaborazione, dal materiale preparatorio alla prima traccia, agli abbozzi, fino alla stesura finale». Questo «rapporto di scrittura», del quale il volume di Petrucci fornisce una fenomenologia di straordinaria vastità e varietà, «si presenta in modi assai diversi all’interno delle diverse aree culturali e linguistiche occidentali, ma soprattutto con diverso rilievo e diverse caratteristiche». La filologia, che scruta le increspature, le faglie del testo per coglierne la dinamica genetica e la storia della trasmissione e ricezione, può giovarsi dell’impostazione paleografica intesa a rendere trasparenti «la natura e la finalità degli interventi», «le tecniche esecutive», «la gestione degli spazi di scrittura e riscrittura», «i tempi di esecuzione e dunque gli strati geologici delle operazioni correttive, sostitutive o aggiuntive». Le due operazioni sincrone della mise en texte e della mise en page convergono nella costituzione di un testo nel libro: e noi dobbiamo tentare di ricondurre il testo, giunto a noi attraverso libri sempre diversi, alla forma in cui l’autore lo pensò e lo scrisse.
Una cultura provinciale
Come dichiara il titolo del saggio più esteso del volume (il quale contiene fra l’altro gli studi importantissimi sul Canzoniere Vaticano, sull’autografo del Decameron, su Libro e scrittura in Francesco Petrarca), nasce allora una Storia e geografia delle culture scritte. Si ricostruisce così un formidabile arco di storia della civiltà letteraria italiana dall’XI al XVIII secolo, ricco di analisi di dettaglio, capace di restituire la trama di pratiche sociali conservate per inerzia ma interrotte da improvvisi, «fittissimi sommovimenti» innovativi, che definiremo catastrofi (in questi termini paleontologi e geologi quali Stephen Jay Gould e Niles Eldridge descrivono l’evoluzione delle specie).
Uno dei nodi cruciali di questa vicenda è il Trecento, in cui del «”tessuto” omogeneo di cultura scritta che si veniva formando nell’Italia del tempo, la Commedia dantesca finì per costituire lo strumento connettivo ed espansivo essenziale». E poi il Quattro-Cinquecento, con l’introduzione della stampa e lo spalancarsi di una Babele caotica di editori che avviano alla fruizione moderna il libro grazie a strumenti paratestuali (a partire dal frontespizio e dagli indici) che oggi riteniamo organici al libro, e che invece nacquero per «ragioni di commercializzazione di un prodotto che sempre più di frequente veniva esposto alla vendita su banchi e strutture esterne di librai fissi o anche in spazi aperti». Infine il venire alla luce, fra Sei e Settecento, della consapevolezza che «l’Italia (…) possedeva una cultura letteraria non nazionale, ma provinciale, non solo nel senso di isolamento e di dipendenza dal resto dell’Europa, ma anche di mancanza di un’unitaria circolazione interna di idee e di libri dipendente dall’esistenza di rigide separazioni regionali». La vicenda del «blocco» regionalistico e del provincialismo italiano, che un intellettuale «europeo» come Leopardi descriverà con lucido distacco antropologico, emerge chiaramente dalla storia dello scrivere.

il manifesto 1.10.17
Eisenstein, vita e mondo convergono sul Messico
"Sergei Eisenstein and the Antropology of Rythm", una mostra a Roma, Fondazione Nomas. Secondo le curatrici Marie Rebecchi e Elena Vogman, l’antropologia visiva di Sergei Eisenstein ha il suo culmine in «Que viva Mexico!», il film incompiuto del 1931-'32
di Dario Cecchi

ROMA Marie Rebecchi ed Elena Vogman sono due specialiste di Ejzenštejn: la prima italiana ma attiva presso l’EHESS di Parigi; la seconda presso la Freie Universität di Berlino. Sono le curatrici di un’interessante mostra alla Fondazione Nomas, a Roma (fino al 19 gennaio 2018). Titolo, Sergei Eisenstein and the Anthropology of Rythm. La fondazione si occupa principalmente di arte contemporanea. La mostra prefigura dunque un’incursione, ci auguriamo duratura, nel mondo delle «immagini in movimento».
Non serve ricordare che Ejzenštejn è uno dei giganti della storia del cinema. Tuttavia, sebbene una celebre battuta faccia pensare il contrario, non fu affatto un pedante edificatore di monumenti (al partito, all’ideologia o alla storia). I suoi film – da Sciopero del 1924 alla trilogia incompiuta su Ivan il Terribile del 1945-’46, per fare solo due nomi – sono coraggiosi tentativi di portare ai suoi limiti il linguaggio cinematografico. A distanza di quasi un secolo dall’inizio di quella vicenda è possibile riconoscere in formule come il famigerato «montaggio verticale» non un metodo di lavoro ormai consegnato ai libri di storia del cinema, ma – a recepirle in modo originale – un modo di concepire un’esperienza delle immagini che, nell’epoca del dominio della «iconosfera», urge rigenerare e per così dire ricostruire dalle fondamenta.
Non è possibile aggirare la base ideologica del lavoro di Ejzenštejn, che non era però rigida, ma si nutriva delle più svariate sollecitazioni artistiche, culturali, scientifiche e filosofiche, dentro e fuori il marxismo. Il regista russo è stato un lettore memorabile, tanto onnivoro nelle scelte quanto lucido nel perseguire una linea di pensiero coerente. Il suo cinema è in dialogo costante con una teoria che oltrepassa i confini del campo cinematografico e costituisce un’estetica compiuta, una riflessione sull’opera d’arte e sul genere di esperienza che essa rende possibile. Volendo ridurre in una formula una riflessione tanto complessa, sparsa in scritti spesso incompiuti, l’opera d’arte è innanzitutto un’azione sulla percezione, che ha lo scopo di plasmare, perfino traumatizzare se necessario, la sensibilità dello spettatore e attivare nella sua mente nuovi processi di pensiero. Si vede bene fino a che punto questa teoria dialoghi con il formalismo e la psicologia, che andavano mettendo a punto in quegli anni notevoli ipotesi di lavoro. Penso a Šklovskij e Vygotskij, che di Ejzenštejn furono interlocutori diretti. C’è un punto però che contraddistingue la posizione di quest’ultimo: alla base dell’opera dell’arte (non oggetto, ma azione) c’è sempre – non solo nel cinema ma in tutte le arti, dalla pittura alla poesia – un lavoro di montaggio che opera una scomposizione e ricomposizione del reale e assume a tratti il valore, come è detto nella Teoria generale del montaggio, di una dionisiaca «morte e resurrezione» della realtà.
Lo sforzo teorico di Ejzenštejn non è l’impegno di un artista engagé, o che coglie le implicazioni filosofiche del suo lavoro. In lui l’esperienza e la comprensione della vita e del mondo procedono di pari passo e tendono verso una composizione organica crescente. Arriviamo così alla mostra. Le curatrici individuano un periodo della vita di Ejzenštejn in cui questo questo movimento di convergenza assume una configurazione particolarmente esemplare, per la quale Rebecchi e Vogman hanno trovato l’efficace definizione di «antropologia del ritmo»: si tratta del viaggio fatto in Messico tra il 1930 e il 1932. Ejzenštejn vi si trova per dei sopralluoghi relativi ad alcuni progetti da realizzare con l’americana Paramount. È un periodo di frequenti viaggi all’estero, in cui conosce alcuni tra i principali intellettuali dell’epoca. La mostra ne dà conto, con fotografie e documenti che illustrano quanto il regista fosse entrato in contatto con il surrealismo francese, cui lo univa un interesse profondo per l’analisi delle forme naturali attraverso il medium artistico. Penso alle fotografie «(sotto)marine» di Painlevé presenti nella mostra, le quali testimoniano di un rapporto particolarmente intenso con Georges Bataille e in generale con la costellazione di personaggi e idee che si condensa attorno al progetto di Documents. Nel 1932 la Paramount, su pressione delle autorità sovietiche, interrompe bruscamente la collaborazione e trattiene il materiale girato in Messico da Ejzenštejn, che deve rientrare a Mosca. Dal girato la major ricavò diversi film «apocrifi»: solo nel 1955 Jay Leida poté realizzare per il MOMA un montaggio filologicamente affidabile, dal titolo Eisenstein’s Mexican Project; un’operazione analoga fu promossa nel 1998 dal Gosfil’m di Mosca.
Nella mostra si possono visionare queste immagini, grazie anche alla preziosa collaborazione di Till Gathmann, cui si devono sia i montaggi sia l’impianto grafico del bel catalogo, pensato come un vero e proprio pendant (e non un semplice «apparato») della mostra: trattandosi di un filmato della normale durata di un film, la fruizione è inevitabilmente frammentaria. È forse, però, una visione non troppo lontana dallo spirito cui queste immagini si informano, almeno allo stadio compositivo in cui le conosciamo. C’è una forte attenzione per la ritualità: processioni con mortificazioni corporali (stazioni della via crucis, pellegrini che camminano sulle ginocchia); corride; feste carnevalesche il cui tema dominante è la morte (la maschera del teschio). Non si tratta di dare sfogo al pathos. Ejzenštejn risale alle radici delle manifestazioni più elementari della vita tentando di cogliere e descrivere il ritmo di questi fenomeni, come argomentano in modo persuasivo le curatrici nei saggi (in inglese) del catalogo.
Accanto ai filmati la mostra espone dei disegni di Ejzenštejn. Si tratta delle riproduzioni di alcune pagine del taccuino messicano. Sono immagini che fondono insieme tauromachia, sacrificio religioso ed erotismo spesso omoerotico. Il montaggio crudeltà-sacrificio-penetrazione sessuale è interessante soprattutto perché gioca sul disegno come elemento che si riconfigura secondo un principio costruttivo analogo al montaggio – come fa capire bene Eisenstein in Guanajauto, il film del 2015 che Greenaway dedica al viaggio messicano di Ejzenštejn – per cui al tratto disegnato corrisponde una penetrazione più profonda della realtà, quasi che ferita nella carne e disegno diventassero due facce della stessa medaglia, due manifestazioni di un unico fenomeno vitale: non si dà rappresentazione come mera replica del reale, contro ogni comprensione ingenua dell’immagine nell’epoca della sua «riproducibilità tecnica». Ma si dà rappresentazione solo come riapertura di una comunicazione tra diversi viventi (il rappresentante, il rappresentato, il medium che li unisce), dunque eventualmente anche come ferita, come taglio.
Vorrei segnalare infine due chicche della mostra. Si tratta di alcune fotografie del genere typazh, qualcosa di più che semplici provini: qualcosa a metà tra il lavoro preparatorio e la ricerca fisiognomica, figlia un po’ dell’antica teoria dei «caratteri» e un po’ del positivismo moderno. Il che ricorda il debito con il lavoro e la riflessione di Kulešov. L’altra chicca consiste in alcuni disegni e foto di scena per il progetto del 1939 per un documentario sul grande canale «Fergana», in Uzbekistan. Il progetto è di grande interesse non solo perché si parla dell’acqua, altro elemento basilare della vita, ma anche perché ispira a Ejzenštejn un ritorno agli interessi per l’Oriente, motivo di fascino per tutta la cultura russa, e apre prospettive (politiche oltre che estetiche) che meritebbero di essere attentamente valutate. Vediamo così disegni e fotografie di uomini abbigliati come principi e khan in pose che ricordano miniature persiane. Ci sono insomma tutti gli indizi per immaginare uno sviluppo delle ricerche sulla «antropologia del ritmo», che ora sappiamo essere uno dei motori principali nel lavoro dell’autore della Corazzata Potëmkin!

Il Fatto 1.10.17
“Oggi il passato è puro nulla… Mi occuperò del presente”
Marco Tullio Giordana - “Un film su Aldo Moro? I ragazzi, ma anche i trentenni, non sanno neanche chi era”
di Paolo Isotta

Quando, nell’agosto del 1980, uscì Maledetti, vi amerò, un regista grande e originale si rivelò. Con Marco Tullio Giordana siamo diventati amici tre decenni dopo; di quel film mi colpirono l’ironia, il dipinto d’ambiente dal ductus balzachiano e insieme l’alta pietà verso i vinti, i macinati dalla Storia. Svitol, un para-terrorista di sinistra, va in crisi– non da “pentito” – per la pietà che sente verso Moro rapito e assassinato.
“Allora, col festival di Cannes e il successo, in sala e di critica, mi pareva di avere il mondo ai miei piedi. Il film successivo, La caduta degli angeli ribelli, che fu invece fischiato a sangue, mi insegnò che nulla vale per sempre.”
Come incominciasti?
Ho fatto il liceo classico, a Milano. La mia era una famiglia borghese … con qualche scampolo di una passata ricchezza …. Mio padre morì quando ero bambino. Subito dopo mi sono trasferito a Roma, facevo il nègre di un aiutante alla sceneggiatura di Rodolfo Sonego. A un certo momento il progetto venne accettato …
È un peccato che questo ritratto di una generazione oggi sia introvabile! E lo stesso “La caduta degli angeli ribelli”…
Habent sua sidera …
Che tu abbia fatto un ottimo liceo, ma ancor più che tu davvero ami il latino e il greco, e la cultura, traspare dalla tua conversazione e anche dai tuoi libri. Quello sull’assassinio di Pasolini è agghiacciante.
È il documento, in forma narrativa, del mio minuzioso studio degli atti del processo a Pino Pelosi – ora ch’è morto mi hanno cercato in tanti per intervistarmi, ma mi sono negato – ; ed è la sceneggiatura del film.
Il film è del pari agghiacciante. Ma è molto bello il romanzo “Vita segreta del signore delle macchine”. Mi colpisce il torbido rapporto fra i tre protagonisti, un ricco, un magistrato e un brigatista rosso, suo attentatore …
Il mondo dei terroristi rossi era orrendamente astratto, asessuato. In quello dei terroristi neri esisteva un eros omosessuale patologico, come un simbolo fisico di un altrettanto orrendo dominio psichico.
In tema di terrorismo, ti ripeto: dovresti fare un film sul caso Moro, su quel che si svolgeva nel mondo della politica, quando si decise di sacrificarlo …
… mentre Ciro Cirillo, che poteva ricattare tutti, venne salvato. Sul rapimento, le (mancate) trattative e l’assassinio, è difficile aggiungere qualcosa a L’affaire Moro di Sciascia … Ma non per questo non voglio fare il film che mi chiedi – ammesso che si trovasse un produttore. Il fatto è che, se un libro puoi scriverlo per un lettore incognito o sperato, un film dev’essere indirizzato al pubblico che c’è. I ragazzi, ma anche i trentenni di oggi, Moro non sanno neanche chi era. E di saperlo, non gl’interessa … Il passato, dice Mefistofele in Goethe, è puro nulla … per loro. Basta, per me, film storici. Voglio occuparmi del presente.
È un altro peccato, perché “Romanzo di una strage”, su piazza Fontana, e “Sangue pazzo”, su Osvaldo Valenti e la Repubblica Sociale, sono due meraviglie. Ma non posso darti torto. A ottobre la Rai trasmetterà “Due soldati”. È una storia intensa; molto precisa la raffigurazione del mondo della camorra campana …
La vicenda: un soldato della zona di Castel Volturno muore per un attentato in Afghanistan. Il suo omologo è un ragazzino autista e corriere della camorra … Viene ferito e si rifugia in un complesso di case in costruzione, proprio in quella dove, di lì a poche settimane, sarebbe andato a vivere il soldatino colla ragazza che avrebbe sposata … Ed è soccorso dalla giovanissima “vedova”. Da questo rapporto, che non è erotico, incomincia un oscuro suo percorso di rifiuto del crimine nel quale vive – non “pentimento” in senso giuridico ….
In questi giorni stai montando un altro film, sul vuoto che si fa attorno a una donna violentata che denuncia il violentatore. Ma sei anche un regista teatrale. Un anno fa ci fu la “prima” di un tuo ottimo “Questi fantasmi” di Eduardo, subentrando a Luca De Filippo colla sua compagnia. Hai altro teatro nei tuoi progetti?”
L’amico – anche carissimo tuo – Cristiano Chiarot, da poco soprintendente al Maggio Musicale Fiorentino, mi ha invitato a fare la regia di due opere di Verdi, La battaglia di Legnano e Un ballo in maschera. Se son rose fioriranno…
Finalmente vedremo due capolavori rispettati nella loro essenza drammatica! E sarai bistrattato dai cosiddetti “competenti” e incompreso dal pubblico …
Pazienza. Un artista deve possedere anche un’etica, servire il testo e l’autore: non servirsene. Se poi quest’etica coincide col proprio piacere, la vita non è così brutta …

Il Fatto 1.10.17
Concorso da vice-ispettore: la Polizia spara (strafalcioni)
La selezione - Gli incredibili elaborati degli agenti (molti poi promossi): da “estrema orazio” a “che l’ho impartisce”. E tanti copiano dal web
di Thomas Mackinson e Ferruccio Sansa

“Estrema orazio” scrive un agente. Un altro usa percuotere con la “q”. C’è quello che s’inventa “l’ascriminante” e quello che non azzecca un’acca in tutto l’elaborato.
Ma il problema non sono i crimini contro la grammatica. Ci sono agenti di polizia, poi risultati vincitori del concorso per diventare vice-ispettori e quindi destinati a far carriera, convinti che si possa sparare al rapinatore colpendolo alle gambe purché “disarmato e in fuga”. E altri che confondono pena con reato.
È tutto nero su bianco negli elaborati del famigerato concorso per 1.400 posti da vice-ispettore bandito nel 2014. Quello che segnerà la futura classe dirigente della polizia e che sta suscitando una marea di scontento nel mondo delle questure. Centinaia di ricorsi tra gli oltre 20mila esclusi, per non dire di centinaia di messaggi infuriati sulle chat dei poliziotti. Lo stesso capo della Polizia, Franco Gabrielli, aveva bollato il concorso come un “papocchio”. Non solo: “Dovremmo porci il problema non di annullare il concorso – aveva aggiunto Gabrielli – ma di togliere la qualifica anche di agente a chi ha scritto” certi temi. Invece poi tutto è andato avanti e il 12 settembre scorso i vincitori hanno cominciato i corsi in diverse città. Non parliamo di aspiranti poliziotti, ma di agenti in servizio con almeno sette anni di esperienza sulle spalle.
Ogni concorso in polizia porta una polemica. Era già successo a quello per 559 nuovi agenti che Gabrielli aveva annullato dopo un’inchiesta della magistratura. Ma qui è più complicato perché si tratta di agenti che sono già in polizia, cioè di una selezione interna. Un concorso che ha spinto qualcuno ad appendere la divisa al chiodo per la rabbia e la delusione. Come Matteo Fiorio, fino al 31 luglio agente di polizia che oggi sale i gradini del Tribunale di Verona da avvocato. Dopo 15 anni di servizio ha preferito indossare la toga anche perché con una laurea in giurisprudenza e l’abilitazione alla professione forense è stato bocciato al concorso da vice-ispettore, “mentre – sostiene lui – colleghi che non sanno scrivere in italiano e ignorano l’abc del diritto sono passati”. Così ha deciso di fare ricorso contro la propria amministrazione al pari di altri 558 agenti, molti dei quali raccolti nell’associazione “Tutela&Trasparenza” che ora rappresenta come legale. Acquisiti gli atti del concorso e i temi dei vincitori, li ha fatti leggere anche al Fatto Quotidiano.
Per gli ispettori, si scopre dagli elaborati, saper scrivere in l’italiano non è poi “fondame-ntale”. Scritto e troncato così: -ntale. Insieme a “l’ho impartisce”, “l’ho esegue”. Eppure chi l’ha scritto ha vinto il concorso da vice ispettore. Ed è in buona compagnia perché tra i 2.127 idonei c’è chi scrive più volte “estrema orazio”, e nello spiegare cosa sia la legittima difesa inventa nuove teorie come “l’ingiusta offesa posta in essere anche da cose o animali”. Promosso pure lui, insieme a chi scrive “ammenta” con la t, “perquotono” e “endicap”. Non basta: “Tra i 2.127 idonei è stato analizzato un campione di 800 temi. Un centinaio presenta parti copiate da internet e libri di testo”, riferisce l’avvocato Fiorio. Ma tra i candidati vincitori c’è chi sostiene che – nel caso di un rapinatore in una banca – “non si è autorizzati a sparargli ad altezza petto bensì sulle gambe per evitare la fuga”. Un vincitore propone una nuova definizione dell’omicidio: “Un soggetto che deve uccidere una persona con la pistola, il soggetto per uccidere, deve materialmente, oltre che avere una condotta commissiva nel puntare la pistola con l’intenzione di sparare, affinché avvenga l’evento morte si deve verificare lo sparo”.
La storia inizia nel 2014 quando, a fronte di una carenza d’organico di 11mila persone, il Ministero dell’Interno indice un concorso per 1.400 vice ispettori. Si candidano in 22mila e 7mila superano la prima selezione. Il 29 gennaio 2015 partecipano a quella scritta, un elaborato di diritto penale: struttura del reato, cause di giustificazione, l’esercizio del diritto, l’adempimento del dovere e l’uso legittimo delle armi. Il pane quotidiano per poliziotti con un minimo di 7 anni di servizio. Ma il 17 dicembre 2016, a distanza di quasi un anno dalla prova, ecco la sorpresa: passano 2.217 candidati di cui oltre 1.400 con lo stesso punteggio, circostanza che farà dubitare della corretta applicazione dei criteri di valutazione. Un professore di statistica della Sapienza, Andrea Polli, ha prodotto uno studio che ha aperto la strada a un mare di ricorsi. Ma il Tar del Lazio boccia la richiesta di provvedimenti immediati in attesa di pronunce sul merito. Sostanzialmente viene stabilito che la commissione gode di una sorta di intangibilità dovuta alla “discrezionalità tecnica”: non spetta ai giudici giudicare l’operato della commissione o gli elaborati dei ricorrenti. Fiorio non ci sta: “La giurisprudenza afferma che discrezionalità non è sinonimo di arbitrarietà”.
Il 6 gennaio scorso Gabrielli annuncia che tutti gli scritti sarebbero stati ricorretti da una speciale commissione di verifica, presieduta dal prefetto e all’epoca vice capo della Polizia Matteo Piantedosi. Il suo mandato è rivedere le posizioni “dei candidati titolari di contenziosi”. Gabrielli, dopo la rilettura dei testi, nel marzo scorso parla di “concorso a rischio annullamento”. Ai sindacati viene assicurato che oltre 330 candidati sui 550 esclusi che hanno fatto ricorso (in pratica il 66%) saranno riammessi e questo “per riabilitare colleghi bravi che si sono visti valutare in maniera non corretta”. Un concorso “nato male e finito peggio”, aggiunge Gabrielli.
Ma il 22 maggio viene annunciato che saranno avviati soltanto gli idonei: 1.400 come da bando, più i 475 ulteriori che erano stati dichiarati tali. Ciò senza alcuna correzione degli elaborati esclusi in quanto la commissione esaminatrice, convocata per la ricorrezione, “ha ritenuto di non voler provvedere ad un’attività di rivalutazione”. E neppure di divulgare ai ricorrenti i suoi atti perché ritenuti “non ostensibili”. Il 12 giugno il Dipartimento pubblica la graduatoria dei vincitori: avanti tutta. Così arrivano le interrogazioni firmate da Pippo Civati (Possibile), Nicola Molteni (Lega), Angelo Tofalo (M5S) ed Enrico Zanetti (Scelta Civica): chiedono di conoscere i costi della commissione di cui hanno fatto parte il vicecapo della Polizia, vari prefetti e funzionari d’alto livello chiamati a svolgere un lavoro che si è rivelato inutile. Ipotizzano responsabilità per danno erariale e all’immagine della Polizia. “Questo concorso è la sommatoria di tutto quello che non si deve fare”, ha detto Gabrielli mesi fa, mostrando disagio per il concorso nato prima del suo arrivo. I vertici della Polizia, interpellati ieri dai cronisti, non commentano la vicenda. Avanti tutta.

Il Fatto 1.10.17
La carta che salva il giornalismo
Contro Google & C. - I gruppi editoriali hanno sbagliato tutto sul web e ora è tardi
La carta che salva il giornalismo
di Iris Chyi

Negli ultimi 20 anni molti giornali americani hanno sperimentato la diffusione di notizie online, ma hanno avuto un successo limitato. I consumatori ricevono continuamente notizie online, ma la maggior parte di loro si rivolge a “news aggregator” come Yahoo News e Google News o social media come Facebook.
Ma la maggior parte degli aggregatori e i siti di social media non producono contenuti originali di notizie. Ripubblicano le notizie prodotte dai giornalisti e beneficiano di tali contenuti senza dover pagare niente o quasi. Con un vasto bacino di utenti che attrae una grande quantità di pubblicità, Google e Facebook sono diventati giganti tecnologici. Al contrario, la maggior parte dei 1.300 quotidiani americani operano in aree geografiche ristrette con una media giornaliera al di sotto delle 30.000 copie in circolazione, numero destinato a scendere. Per questi giornali competere online con Google e Facebook è come per un ristorante locale sfidare McDonald’s. Non c’è possibilità di vincere.
È in questo scenario che la News Media Alliance chiede al Congresso un’esenzione alle limitazioni dell’antitrust, in modo che i quotidiani possano negoziare insieme a Google e Facebook. Ma la maggior parte dei giornali sta condividendo attivamente i propri contenuti su queste piattaforme, molti hanno assunto redattori di social media per distribuire gratuitamente contenuti su Facebook e Twitter. Di conseguenza, tanti lettori online hanno smesso di visitare i siti web dei giornali: il 44% degli adulti americani ora riceve notizie su Facebook.
Dopo 20 anni di sperimentazione digitale, i ricavi delle pubblicità online dei giornali sono rimasti insignificanti: da 3,2 miliardi di dollari nel 2007 a 3,5 miliardi nel 2014. Google, invece, ha registrato 89,6 miliardi di dollari di entrate globali e Facebook 27,6 miliardi di dollari nel 2016. E la spesa pubblicitaria digitale degli Stati Uniti totale è stata di 72,5 miliardi di dollari nel 2016.
Tutti gli indizi suggeriscono che i giornali americani hanno perso la battaglia digitale. Il motivo per cui sono ancora qui è che le edizioni in carta stampata, nonostante le sostanziali perdite, producono ancora delle entrate, grazie alla pubblicità e agli abbonamenti. La buona notizia è che i principali quotidiani delle metropoli vengono acquistati da un terzo degli adulti locali e, sorprendentemente, si tratta di lettori disposti a pagare per le notizie sulla carta stampata. Questa è una buona notizia perché i giornali rimangono le istituzioni più importanti che forniscono una copertura locale necessaria che nessun Facebook, nessun Google, Twitter o Instagram prenderebbero mai in considerazione.
Ora i giornali stanno cercando di ridefinire i loro rapporti con Facebook e Google attraverso un’esenzione da parte dell’antitrust. Questa esenzione, anche se concessa, non modificherebbe facilmente il risultato di una partita perdente, come quella tra un ristorante locale e il McDonald’s – soprattutto se l’industria dei giornali non affronta le conseguenze di alcune scelte sbagliate e di breve respiro prese soltanto in nome di una “trasformazione digitale”. Ma è importante che i politici arrivino a riconoscere come il potere di mercato si sia spostato verso i giganti digitali che stanno davvero inghiottendo il giornalismo (e tutto il resto).
Traduzione di Eleonora Mazzeo
UTNews The University of Texas at Austin

il manifesto 1.10.17
Yom Kippur con marcia neonazista a Göteborg
Svezia, 10 arresti e 20 feriti. Movimento di resistenza nordica in piazza e contromanifestazione negli stessi giorni in cui va in scena alla Fiera del libro la polemica per lo spazio dedicato all'ultradestra. Le preoccupazioni della comunità ebraica, sotto attacco nel "Giorno dell'Espiazione"
di Camilla Martini

Una manifestazione neonazista ha attraversato il centro di Göteborg nel pomeriggio di ieri scatenando una contromanifestazione e tensioni con la polizia, con un bilancio di 10 arresti e almeno 20 persone in ospedale. Tra i fermati c’è Simon Lindberg, leader del Movimento di resistenza nordica, organizzatore della marcia.
Si tratta della seconda manifestazione neonazista nel giro di due settimane: la prima si era tenuta senza permesso, mentre quella di ieri ha ricevuto l’approvazione della polizia, pur con una modifica del percorso che prevedeva al principio il passaggio davanti alla Sinagoga di Göteborg proprio nel giorno di Yom Kippur.
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Secondo il premier svedese Stefan Löfven «si stanno passando i limiti della decenza. Se le forze neonaziste hanno il diritto di manifestare, bisognerà cambiare le leggi per difendere la democrazia». Morgan Johansson, ministro degli Interni, annunciato l’apertura di una discussione in parlamento su come contrastare le forze anti-democratiche nel Paese. Tra queste, rientrano a suo parere i Democratici svedesi, che alle elezioni 2014 hanno raccolto il 12,9% delle preferenze.
Nella costellazione di movimenti di estrema destra, si fa notare il Movimento di resistenza nordica, che in Svezia conta un centinaio di aderenti. Il fondatore, Klas Lund (condannato per tentato omicidio) viene dalla Resistenza bianca ariana come quasi tutto il gruppo originario che fondò il partito nel 1997. L’obiettivo del movimento è stabilire un governo nazionalsocialista di razza nordica e alcuni membri hanno dichiarato candidamente che la lotta richiederà spargimenti di sangue. Il gruppo è considerato dai servizi segreti svedesi il più pericoloso. Più della metà degli attivisti noti sono stati condannati per reati di vario tipo. Uno dei suoi membri Hampus Hellekant, è stato coinvolto nell’omicidio del sindacalista Bjorn Soderberg nel 1999. Il gruppo è sospettato di essere coinvolto in alcuni episodi violenti degli ultimi mesi: tre bombe su centri per rifugiati a Göteborg, moschee incendiate a Örebro, Uppsala, Eskilstuna, Eslöv.
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Rispetto alla definizione di questi attacchi come terrorismo, la posizione del procuratore incaricato delle indagini sulle bombe di Göteborg, Mats Ljungqvist, è ambigua: gli attacchi erano rivolti ai soli rifugiati, perciò non hanno, a suo dire, scatenato il panico tra gli svedesi. Intervistata da Radio Sverige, la storica svedese di origine colombiana Edda Manga, si dice invece molto allarmata. «Abbiamo visto atti terroristici di destra tutte le settimane, negli ultimi tempi. La polizia non prende la cosa seriamente, i politici nemmeno e penso sia un problema di egemonia bianca: non si sentono minacciati personalmente».
Un altro ramo del dibattito riguarda la libertà di espressione di cui dovrebbero per legge godere anche i gruppi estremisti. Manga sostiene che la difesa dei diritti dei nazisti sia assurda e denoti una «grave ignoranza della storia e delle basi della democrazia». Come lei la pensano i più di 200 autori che hanno deciso di boicottare la Fiera del libro di Göteborg a causa della presenza tra gli espositori del settimanale di estrema destra Nya Tider (Tempi Nuovi). La direttrice Maria Källsson, che l’anno scorso aveva ceduto di fronte alle pressioni dell’opinione pubblica, difende ora strenuamente la propria tesi: «La fiera non vieta opinioni. Non accettiamo tuttavia esibitori che vadano contro la legge: questo è il limite che ci siamo posti».

Corriere 1.10.17
Le «imam» delle carceri
Il progetto sperimentale anti radicalizzazione su un migliaio di reclusi di 8 penitenziari italiani Fra le guide spirituali anche quattro donne: «Spieghiamo il Corano, spesso ad analfabeti»
di Goffredo Buccini

La prima volta, al carcere di Bollate, non tutti le hanno prese sul serio: alcuni sono rimasti nelle celle, diffidenti o, forse, oltraggiati da quella presenza femminile. Ma lei e la sua collega Soraya non si sono perse d’animo. «Abbiamo parlato del perdono», dice: « Se il Creatore perdona noi, noi dobbiamo perdonarci a vicenda... ». Libro alla mano, Sura 39, versetto 35: « Allah cancellerà le loro azioni peggiori e li compenserà per ciò che di meglio avranno fatto».
Yamina e le altre
Già, perché Yamina Salah se l’è studiato a fondo, il Corano, s’è laureata in diritto islamico ad Algeri, è presidentessa delle donne musulmane d’Italia e può spiegare detti e precetti del Profeta a chi non è neppure in grado di leggerli («in prigione abbiamo trovato un 70 per cento di analfabeti tra la nostra gente, tanti non hanno fatto neppure le scuole, per questo sono così rigidi, chiusi»).
L’Ucoii, la più forte organizzazione islamica italiana, ha mandato lei e Soraya Houli a Milano, la marocchina Fatna Ajiz a Verona e la tunisina Fattum Boubaker a Canton Mombello, nel Bresciano, a predicare tra i detenuti che vengono da Paesi musulmani, per prevenire la radicalizzazione, sostituire parole di tolleranza a litanie di rancore: quattro guide spirituali in aggiunta a otto imam accreditati dal nostro ministero. «Un salto culturale», dice Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia: «Una delle maggiori distorsioni del radicalismo sta proprio nel disconoscimento del valore delle donne».
Il progetto sperimentale
«La prima volta erano cinquanta detenuti, nel teatro del carcere», racconta Yamina (Bollate ha un’importante tradizione di recupero legata alle sue attività teatrali): «Poi abbiamo sentito le voci che giravano tra loro... “sono donne in gamba”, dicevano. È andata meglio». Il progetto, in gestazione per oltre un anno, è infine partito sei mesi fa: in collaborazione tra il Dap (il nostro dipartimento penitenziario) e l’Unione delle comunità islamiche d’Italia. L’Ucoii, un tempo assai vicina alla Fratellanza Musulmana, è stata riformata con coraggio dal suo presidente Izzedin Elzir, palestinese di Hebron, imam a Firenze, convinto che la fede sia una libera scelta e il velo lo sia ancora di più (ha una figlia diciassettenne, Lin, che, benché credente, non lo indossa): «Alle donne che subiscono imposizioni o violenze noi diciamo: denunciate, denunciate, denunciate».
I numeri
Le carceri coinvolte nel progetto pilota sono per il momento otto (Torino, Cremona, Modena, Sollicciano a Firenze, San Vittore a Milano oltre a Bollate, Canton Mombello e Verona). La partecipazione va dagli 80 ai 140 detenuti per carcere: dunque circa un migliaio di detenuti sugli undicimila provenienti da Paesi islamici oggi reclusi in Italia. È un inizio, un segno. Secondo il XIII rapporto dell’associazione Antigone (che cita il ministero della Giustizia) i detenuti islamici a rischio sarebbero 365. Di questi, 165 sono «monitorati» («con condanne o precedenti di proselitismo»); 76 «attenzionati» (per atteggiamenti che fanno «presupporre la vicinanza all’ideologia jihadista», il più scontato dei quali è l’esultanza dopo gli attentati) e «124 segnalati» («per relazioni con soggetti che appartengono ai due precedenti livelli»). Un aggiornamento delle cifre, benché non ufficiale (si tratta di dati riservati), induce a ritenere che sensibili al contagio jihadista possano essere al momento almeno quattrocento detenuti. I criteri sono elaborati dal Nic, il nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, e dal Casa, il comitato di analisi strategica antiterrorismo.
Migliore sostiene che al Casa circolino «ogni settimana notizie aggiornate che vengono dal carcere e dal mondo attorno al carcere». Il rapporto con le comunità «è fondamentale», dice, per conoscere e prevenire. Ma il terreno è assai accidentato. Il criminologo Alvise Sbraccia ha spiegato per il dossier di Antigone come gli imam venuti dall’esterno, per bravi e motivati che siano, vengano spesso considerati «spie» dai detenuti musulmani che preferiscono scegliersi un imam tra i compagni di prigionia (per l’Islam, imam può essere chiunque diriga la preghiera e venga eletto dagli altri). Ciò fa capire perché in dieci anni siano stati appena 22 gli imam accreditati dal ministero dell’Interno e ammessi nei nostri istituti di pena. E in fondo dà anche la misura della sfida lanciata dall’Ucoii.
La sfida
Gli italiani convertiti all’Islam sono un centinaio. «E non devono assolutamente radicalizzarsi perché non potrebbero neppure essere espulsi, appunto in quanto italiani», ragiona Izzedin Elzir: «In carcere ci si può convertire per cose semplici, piccole, per gentilezza, per un dattero...». Nel totale dei detenuti a rischio vanno naturalmente compresi i più a rischio di tutti, quei 44 arrestati per reati di terrorismo internazionale, sottoposti al regime di As2 (alta sicurezza 2) a Sassari e Rossano Calabro. Da laggiù, la strada delle guide islamiche e della ragione contro il radicalismo appare ancora tutta da inventare.
«Eppure dobbiamo spiegare a queste persone, che proclamano con durezza “il Profeta ha fatto così, il Corano dice così”, come nella pratica dell’Islam ci siano tante cose che si possono fare in modo più leggero, più facile», sorride lieve Yamina. Che si coccola il ricordo migliore: «A giugno un ragazzo che doveva essere scarcerato mi ha detto: “Quale moschea mi consigli?”. Aveva paura di finire in una moschea radicale, cercava già il pensiero più equilibrato. Uscendo ha pianto».


Corriere La Lettura 1.10.17
Trionfa la famiglia Dio vince solo se si chiama Allah
di Manlio Graziano

Secondo il principio di sussidiarietà, se un ordine sociale inferiore è capace di svolgere il suo compito, l’ordine sociale superiore non deve interferire, ma tutt’al più sostenerlo. Questo viene in mente «spogliando» i risultati contenuti nei sondaggi sui valori più importanti in 60 Paesi e territori, Italia esclusa.
Premettiamo che i sondaggi non hanno nulla di scientifico. Se sono fatti bene, possono indicare delle tendenze, e servire quindi da linee-guida per gli operatori sul terreno, siano essi politici o economici. Ma, sia nel campo della politica che in quello del commercio, i sondaggi possono essere fuorvianti: ce ne siamo accorti in recenti tornate elettorali, e se ne sono accorti, a volte, certi creatori di nuovi prodotti apprezzati nei sondaggi, ma poi tristemente invenduti. Pensare, poi, di trarre delle conclusioni globalmente valide da un sondaggio svolto in 60 Paesi sarebbe azzardato: ricordiamo che gli Stati generalmente riconosciuti come «sovrani» sono 196, di cui 193 membri dell’Onu.
Tuttavia, questi risultati qualche cosa ci dicono. E forse, se possiamo far uso della logica induttiva («se dieci gatti hanno la coda, allora tutti i gatti avranno la coda»), ci permettono di avanzare qualche prudente osservazione generale.
Intanto, due dati saltano all’occhio: l’importanza accordata alla famiglia, e viceversa la pochissima importanza accordata alla politica. Anche qui, beninteso, occorrerebbe capire cosa intendano gli intervistati per famiglia e per politica: è chiaro che l’idea (e la pratica) che uno svedese, un indiano, un iracheno e un ecuadoregno hanno della famiglia non è la stessa. Ma c’è nondimeno un sentimento molto diffuso (in soli cinque Paesi su 60 la famiglia non rappresenta il valore più importante), che fa del rapporto con i consanguinei e i parenti acquisiti il valore-rifugio dei nostri tempi. Se fosse lecito trarne una lezione generale, si potrebbe dire che il dato segnala una tendenza alla bunkerizzazione, o, se si vuole usare un termine più rispondente alla realtà attuale, alla tribalizzazione: la crisi e la perdita di credibilità delle strutture pubbliche (il secondo aspetto che risalta dal sondaggio) spinge a regredire fino a trovare nella cosiddetta «cellula originaria della società» — la famiglia (o la tribù) — il bunker dentro cui sperare di preservarsi dalle minacce, vere o immaginarie, della nostra epoca.
Sarebbe, quindi, il trionfo del principio di sussidiarietà di cui si parlava all’inizio, uno dei cardini della dottrina sociale della Chiesa cattolica. La Chiesa sostiene la famiglia non solo avversando divorzio e unioni omosessuali, ma soprattutto facendone la seconda tappa dell’ordine sociale, giusto dopo l’individuo. Nella Rerum novarum Leone XIII scriveva: «Non è giusto che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato: è giusto, invece, che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti». La Chiesa ha instancabilmente combattuto lo Stato, e oggi avrebbe di che rallegrarsi per la piega che stanno prendendo i sentimenti generali: la famiglia batte la politica 55 a 13. Ma la vittoria è molto più ampia di quanto non dica il risultato, per usare un’espressione dei commentatori calcistici, perché 55 sono i Paesi in cui la famiglia è al primo posto, e 13 sono quelli in cui la politica non è all’ultimo posto: ma, in 11 dei 13 casi in cui non è all’ultimo posto, è al penultimo. Famiglia e politica giocano chiaramente in due campionati valoriali diversi.
La famiglia, però, trionfa indipendentemente da ogni connessione con la religione. È «molto importante» (quasi dappertutto con percentuali prossime al 100% degli intervistati) anche in Paesi dove la religione è l’ultima delle preoccupazioni («per nulla importante»), ai quattro punti cardinali: in Svezia come in Cina, in Australia come in Corea, in Giappone come in Estonia. Quindi, la sua funzione di collante sociale, o auspicato tale, è universale — sempre applicando il ragionamento induttivo. In soli cinque casi non appare come il primo valore: in tre Paesi musulmani (Egitto, Algeria e Qatar) e, sorprendentemente, nei Paesi Bassi, dove le si preferisce l’amicizia, e in Ghana, dove passa in secondo piano dietro al lavoro. Occorre notare che l’Africa nera è decisamente sottorappresentata nell’indagine, con soli cinque Paesi su 48, cioè poco più di un decimo del totale; e di quei cinque Paesi, il lavoro, inteso come valore, è in buona posizione anche nello Zimbabwe (secondo) e Ruanda (terzo), mentre è meno apprezzato in Nigeria e in Sudafrica.
Sull’importanza della religione, il sondaggio presenta una conferma, ma anche qualche dato sorprendente. La conferma riguarda il rapporto religione/reddito. Anche se il criterio qui seguito è quello del reddito pro capite nei Paesi a destra nel grafico (cioè quelli col reddito più elevato), la posizione media occupata dalla religione è 3,8; mentre in quelli a sinistra (col reddito più basso) è 2,8. Più un Paese è povero, più è religioso, anche se naturalmente vi sono eccezioni (non è un’eccezione il Qatar, ma il suo reddito pro capite è statisticamente irrilevante, dato l’esiguo numero di abitanti). Vi sono solo tre Paesi nei quali la religione rappresenta il valore più importante: Qatar, appunto, Algeria ed Egitto; dei 15 Paesi in cui la religione è il secondo valore più importante, 11 sono musulmani, uno è misto (Nigeria), e gli altri tre sono l’India, il Sudafrica e Trinidad e Tobago. In Turchia, la religione è al terzo posto, e l’assenza di due grandi Paesi musulmani come l’Iran (il meno religioso del Medio Oriente, secondo tutti i rilevamenti conosciuti) e l’Indonesia non permette di trarre altre conclusioni se non quelle, note, della particolare importanza della religione nella vita dei fedeli musulmani. Una caratteristica che l’islam condivide con l’induismo e con il buddhismo: ma i Paesi a maggioranza buddhista sono sottorappresentati in quest’inchiesta (solo la Thailandia è presente), e quindi il confronto viene a mancare. Altri Paesi noti come particolarmente religiosi (Romania, Polonia, Cipro, Filippine, Messico, Brasile, Ruanda tra gli altri) offrono qui un’immagine inusuale di sé, da questo punto di vista; ma la percentuale di coloro che la considerano «importante» è comunque molto alta.
Ultima osservazione. Il tempo libero sembrerebbe avere un ruolo speculare a quello della religione, in rapporto al reddito: più il Paese è ricco e più il tempo libero è un «valore», ed è «importante». Il ricco bighellona, e il povero prega. È una caricatura, ovviamente, ma è anche un angolo visuale interessante per considerare il mondo di oggi. Tra le sue contraddizioni, forse, questa non è la meno importante.

Corriere La Lettura 1.10.17
La noia creatrice
Questa è la condizione, diceva Hegel, in cui si ricerca l’ignoto
E, aggiungeva Leopardi, è qui che si coltiva l’infelicità da cui scaturisce la poesia
di Carlo Bordoni

Tutto ha avuto inizio molto tempo fa. Forse Dio si annoiava e per questo ha creato il mondo, dando inizio a una modalità contraddittoria di considerare quel sentimento insopportabile che abbatte anche l’animo dei più forti, rende abulici e insoddisfatti. Di sé e della propria esistenza. Chiaro che l’attribuzione di una noia eterna a Dio, a giustificare la creazione, non è che l’invenzione di chi intendeva trovare un senso a una condizione di disagio. La noia è un attributo strettamente umano e non c’è verso di riferirla a entità superiori. Ma proprio perché umana, è bene cercare di vederla come qualità, piuttosto che un difetto, e trovare una giustificazione alla sua esistenza.
La noia è figlia dell’ozio. Se si risale nel tempo, alla latinità classica, si scopre che otium e negotium ( nec-otium ) erano intimamente connessi al comportamento umano. L’ o tium non era affatto il nulla, ma l’occuparsi di sé, delle proprie attività private, della conoscenza, del benessere. Il negotium era invece il lato estroverso di sé, la gestione degli affari pubblici, della partecipazione politica, lo scambio con gli altri. Sia l’ozio sia la noia hanno la possibilità di rivelare inediti aspetti creativi nelle diverse modalità attuative: la noia, a differenza dell’ozio, ha una marcia in più; possiede un’energia dirompente che è capace di fare miracoli. Può accadere che spinga a prendere decisioni insolite, a concepire idee rivoluzionarie, a progettare qualcosa che in condizioni normali non si farebbe mai. La creatività, allora, appartiene più alla noia che all’ozio.
La noia moderna
Eppure la noia, così come la concepiamo oggi, è un concetto relativamente recente, introdotto dalla modernità per una società tecnologizzata che privilegia il lavoro, il rendimento e bandisce l’ozio, l’attesa, la lentezza. Considera i tempi vuoti improduttivi e quindi socialmente inutili, ma anche tendenzialmente «pericolosi», poiché lasciano il tempo di riflettere. Nella divisione del lavoro sociale, il compito di pensare è riservato ad altri. In questa logica della produttività, la noia moderna è il nemico da sconfiggere. Per i bambini è un diritto non riconosciuto dai genitori, che li costringono ad attività extrascolastiche; per gli adulti un lusso che non possono concedersi, per gli anziani una condanna avvilente inflitta dalla società.
Strano destino, quello della noia: inventata dalla modernità e da questa combattuta come un indesiderabile corpo estraneo. Lo spazio del «far niente» è visto negativamente e i sistemi sociali — dalla religione alla scuola — hanno cercato di scandire il tempo con attività organizzate, precisando per ogni momento della giornata i compiti da svolgere, così da impedire la noia, preludio all’indebolimento dello spirito, al cedere a comportamenti viziosi o peccaminosi, se non a gesti violenti.
Gli stati totalitari, che temevano più di ogni altro sistema politico la libertà di pensiero, hanno sempre dato impulso alle attività dopolavoristiche, organizzando il tempo libero con meticolosa attenzione, regolando ferie e vacanze anche per i più giovani.
Con la crisi della modernità, invece di combattere la noia, si riprendono in considerazione i suoi benefici effetti; si recupera, per così dire, il lato umano di questo sentimento, la consapevolezza di sé. Che è poi il suo senso più antico, passato attraverso i secoli con connotazioni diverse, a seconda delle esigenze sociali. Quando nel Medioevo prende il nome di accidia, è sintomo di debolezza morale più che fisica, che per quella società è un peccato mortale, poiché rompe i legami sociali, causa l’inazione, la perdita della speranza e della fede. Dante colloca gli accidiosi nel canto VII dell’ Inferno , sommersi nella palude Stige, colpevoli di «un’ira lenta» nei confronti del mondo. Meno grave è la «melancholia», versione rinascimentale dell’accidia. Invece nell’Ottocento, ormai in piena modernità, la noia recupera in parte la sua caratteristica nobile, propria degli artisti e dei geni, riallacciandosi all’antico significato di otium . Hegel le attribuisce il compito di ricercare l’ignoto; in Leopardi è l’infelicità da cui però scaturisce la poesia. Il tardo romanticismo la vede in forma di spleen con Baudelaire e Huysmans, effervescente di suggestioni poetiche, ma anche desiderio di lasciarsi trasportare dalla vita con languido struggimento. Definita da Heidegger «il tempo morto del sempre uguale», la noia del Novecento si avvicina all’angoscia, considerata un vuoto da cui partire per «direzionare la propria vita altrove». Per Sartre prelude alla nausea e assume lo stesso gusto di un’esistenza priva di senso. Con Morin si collega al tempo libero e rientra nelle problematiche del loisir , inoltrandosi nel consumismo, utile antidoto alla noia e garante del progresso economico.
Gli antidoti
L’industrializzazione ha sviluppato un’inedita contrapposizione tra tempo libero e tempo del lavoro, che nelle società precedenti non aveva senso. L’aumento del tempo libero ha posto il problema di come impiegarlo: non basta riposarsi, divertirsi o viaggiare. Il tedio incalzante è fugato dall’invenzione dell’hobby, passatempo moderno con cui distrarre la mente e svolgere un lavoro non retribuito, più soddisfacente del lavoro obbligatorio e ripetitivo.
Il successo dell’hobby compete con la professione nella costruzione dell’identità individuale, si fa segno distintivo e motivo di auto-affermazione. Dalla collezione di francobolli al bricolage, nasconde un germe di creatività destinato a crescere. Anche se inviso ad Adorno, perché fa pensare a un comportamento paranoico — «La libertà organizzata è coatta, guai se non hai un hobby, una occupazione per il tempo libero» — il più modesto hobby ha aperto la strada al fai-da-te, eludendo l’intervento degli intermediari. Dal ritirare denaro da un bancomat al prenotare alberghi e biglietti aerei: modalità di lavoro gratuito, che la tecnologia e internet hanno reso possibile, spazzando via l’hobby.
Ormai il tempo libero è presidiato: più che dalla possibilità di svolgere attività piacevoli, dall’ossessione a utilizzare servizi, informarsi e comunicare, in uno stretto rapporto con la macchina che si sostituisce all’umano nella quotidianità dei rapporti.
Le relazioni uomo-macchina superano il tempo di quelle a contatto con altre persone ed evitano la noia: è curioso come, a differenza delle interazioni umane, rapportarsi con la macchina non sia noioso. Anzi, talmente assorbente che non stupisce vedere persone chattare tra loro nella stessa stanza o coppie sedute allo stesso tavolo che smanettano sul telefonino senza guardarsi; viaggiatori che sui bus o sui treni evitano di guardare dal finestrino, tutti presi dallo schermo luminoso, la nuova finestra sul mondo.
La chiusura totalizzante nel rapporto uomo-macchina, anche se può dare l’impressione di grande autonomia, permettendo di svolgere attività utili che prevedevano lunghe attese e costi, ha cancellato la noia e con essa ogni capacità creatrice che ne poteva derivare.
Ha in sostanza perfezionato la finalità di «controllo» della libertà di pensare che finora era stata svolta dal lavoro materiale e dall’organizzazione del tempo libero della modernità.
Apatia e creatività
Se si vuole essere creativi, bisogna recuperare una certa dose di noia creatrice che era propria dell’ otium . È solo quando vi sono le condizioni e il tempo di riflettere, recuperando il taedium vitae — che per Seneca era l’opportunità di «frequentare se stessi» ( secum morari ) — che possono rivelarsi intuizioni preziose, soluzioni impreviste. Così il cervello ha l’opportunità di «creare». Verbo affascinante, che apre spiragli straordinari, connessi alla capacità umana di immaginare; verbo tanto inquietante da essere censurato in certe comunità, poiché di pertinenza esclusiva del divino. Eppure squisitamente umano: saper creare è una qualità che appartiene a tutti e può rivelarsi in relazione alle capacità individuali e all’occasionalità.
Il filosofo francese Étienne Souriau sostiene che «per inventare è necessario pensare a lato», tanto che il pensiero laterale o divergente, un pensiero non rigido e persino stravagante, è considerato creativo per eccellenza. Per emergere, ha bisogno di una condizione di «apatia», cioè di assenza di pathos , di passione o partecipazione emotiva: ha bisogno della noia. La mente libera, ma annoiata, è più predisposta a trovare soluzioni. Non è strano che uno scrittore di fantascienza come Isaac Asimov sia stato chiamato a far parte di una commissione incaricata di studiare modalità «non convenzionali» per la difesa antimissilistica, proprio perché in grado di offrire un pensiero non condizionato, a suo modo apatico, in un contesto di specialisti. Lo racconta lo stesso Asimov in un testo inedito del 1959, ritrovato casualmente, Come le persone producono nuove idee , dove sostiene che la creatività è strettamente individuale, dipendente dalle conoscenze pregresse e dall’opportunità di metterle in relazione tra loro. Un’ipotesi non sempre condivisa. Oggi che la conoscenza è più complessa e richiede un bagaglio maggiore di saperi, si è portati a ritenere che la creatività sia prodotta dal gruppo, non più dal singolo.
La creatività, insomma, come istanza sociale, non conformista e priva di metodo; qualcosa che ha a che fare col general intellect di cui parlava Marx. Quel sapere condiviso e generalizzato che è patrimonio dell’intera società. E che forse ha bisogno di un’immensa noia collettiva per creare l’innovazione necessaria a migliorarsi.

Corriere La Lettura 1.10.17
La storia (ri)scritta sotto la sabbia
Si trova in Iraq
Una città sconosciuta forse fondata da Alessandro Magno nel corso della sua campagna contro Dario III di Persia
E la fortezza in Israele dove i ribelli ebrei furono assediati dalle legioni
di Livia Capponi

In questi giorni gli archeologi del British Museum hanno scoperto a Qalatga Darband, nel Nord dell’Iraq, una città sconosciuta forse fondata da Alessandro Magno nel corso della sua campagna contro Dario III di Persia. La scoperta è stata fatta quasi casualmente, esaminando vecchie immagini girate da satelliti della Cia negli anni Sessanta, ormai declassificate e rese pubbliche dal 1996. La missione fa parte del progetto noto come Iraq Emergency Heritage Management Programme, in cui gli archeologi britannici collaborano alla formazione di colleghi iracheni, che devono poi partecipare al recupero dei siti danneggiati dall’Isis.
L’insediamento, sulla strada fra Iraq e Iran, potrebbe risalire al 331 avanti Cristo, quando Alessandro inseguiva Dario, dopo averlo sconfitto nella battaglia di Gaugamela, presso Mosul in Iraq. Sono state già recuperate due statue, di Persefone e Adone, monete, strutture per la produzione di olio e vino, e oggetti del periodo ellenistico e sono stati individuati i resti di un fortino e di un tempio. Si trattava probabilmente di un centro commerciale in grado di fornire all’esercito macedone vettovaglie e insediamenti per i soldati. Se la notizia fosse confermata sarebbe una delle molte città (più di settanta secondo Plinio il Vecchio) che il grande conquistatore fondò o rinominò in Asia a scopo strategico e commerciale. Basti pensare a Kandahar, alias Alessandria Arachosia, o a Aï Khanoum, alias Alessandria sull’Oxus, in Afghanistan, dove sono stati rinvenuti frammenti di un trattato di filosofia aristotelica e di poesia greca, testimonianza della presenza di cittadini-lettori di gusto ellenistico.
Sono numerosi i casi in cui il clima arido ha permesso di conservare abbondanti masse di reperti archeologici. Soprattutto in Egitto le sabbie del deserto ci hanno regalato oggetti impressionanti per il perfetto stato di conservazione. Nei primi anni del Novecento il grande egittologo piemontese Ernesto Schiaparelli scopriva Deir el-Medina, il «villaggio operaio» che ospitava gli architetti e le maestranze impegnati a costruire le tombe della vicina Valle dei Re presso Tebe (Luxor), la capitale dell’Egitto faraonico. Il villaggio ha una planimetria regolare e allungata che ricorda quella di una nave. Una strada principale lo divideva in due grossi quartieri, «di dritta» e «di sinistra», e le maestranze erano suddivise in «squadre di tribordo» e «di babordo» come su una nave, ed erano composte da circa sessanta persone ciascuna, capeggiate da un architetto. Nella necropoli il 15 febbraio 1906 la Missione archeologica italiana trovò il pozzo d’accesso a una scalinata e a un corridoio sotterraneo che finiva con una porta in legno. All’apertura di questa porta si presentò uno spettacolo incredibile: una camera funeraria intatta con i corredi di due personaggi di alto rango, il «direttore dei lavori» Kha e sua moglie Merit, della fine del XV secolo a.C. Erano accatastati letti e mobili di ogni genere, ancora coperti da grandi lenzuola di lino, vasellame, lampade e poi sarcofagi, maschere funerarie, vesti, gioielli, cassette con cosmetici e parrucche, senza contare i pani e il cibo in grande quantità. Da allora il corredo rappresenta uno dei nuclei più importanti del Museo Egizio di Torino, dove le mummie di Kha e Merit sono state sbendate virtualmente grazie a radiografie ospedaliere, rivelando, oltre a informazioni di carattere fisico, i gioielli e amuleti che erano stati posti sotto le bende.
Una recente mostra al Museo Egizio ha ricordato l’esplorazione della Missione archeologica italiana (Mai) della Valle delle Regine, un’estesa necropoli con tombe scavate nella roccia alla convergenza di una serie di wadi, antichi letti di torrenti ormai prosciugati, che segnano le alture calcaree del deserto occidentale presso Luxor. Per tutto il Nuovo Regno (1550-1069 a.C.) la necropoli ospitò sepolture di principi, principesse o alti dignitari. Fra il 1903 e il 1906 furono esplorate una sessantina di tombe; furono rinvenute fra le altre la magnifica tomba di Nefertari, sposa di Ramesse II, e quella del principe Khaemuaset, un figlio di Ramesse III, riutilizzata come nascondiglio per accogliere altre mummie e corredi funerari. Francesco Ballerini, brillante egittologo comasco e braccio destro di Schiaparelli, annotava: «Piuttosto che una tomba, appariva come un sepolcreto; ma non nel rigido ordine funerario, ma per il vasto corridoio e per le camere dove dappertutto era una confusione orrenda di sarcofagi aperti, di mummie rovesciate, vasi, statuette giacenti disordinatamente, rimescolate, come se una strana bufera avesse sconvolta quella Casa dell’Eternità».
Le scoperte furono documentate da dettagliati resoconti, disegni, appunti e da fotografie scattate durante i lavori di scavo e oggi parte dell’Archivio del Museo Egizio. La Mai, infatti, adottò un approccio nuovo e un fine strettamente scientifico, staccandosi da quello dei cacciatori di tesori: «Il nostro scopo — scrive Ballerini — è di fare una esplorazione sistematica di tutta la Valle dove sono sepolte le regine e pubblicarne tutte le tombe conosciute e sconosciute che finora non furono mai da alcuno pubblicate».
Altro sito desertico di grande rilevanza storica è quello di Masada in Israele, circa cento chilometri a sud-est di Gerusalemme. Qui, su uno sperone di roccia in mezzo al deserto, alto 550 metri, inaccessibile e scosceso, il re Erode di Giudea costruì un lussuoso palazzo-fortezza impreziosito da mosaici e dotato di tutti i comfort, incluso un impianto di riscaldamento e terme. Durante la rivolta giudaica contro Roma del 66-70 d.C., la fortezza fu presa dai Sicarii, un gruppo di ribelli diremmo oggi «estremisti» guidati da Eleazar Ben Yair. Nel racconto dello storico Flavio Giuseppe, lui stesso un ebreo protagonista della guerra e passato dalla parte di Roma, qui vi fu un lungo assedio che si concluse nel 73 d.C. con l’ingresso dei legionari di Flavio Silva nella fortezza. I Romani, subito colpiti dal silenzio impressionante che regnava, trovarono i cadaveri di 960 uomini, donne e bambini suicidatisi pur di non essere catturati. Giuseppe mette il racconto in bocca a due donne che erano sopravvissute nascondendosi in una cisterna.
Oggi la storia del suicidio di massa è considerata una delle tante invenzioni narrative che caratterizzano l’opera di Giuseppe, e che riflettevano i problemi e le preoccupazioni del suo tempo. L’archeologia, del resto, non ha mai confermato il mito di Masada; un assedio ci fu e i ribelli furono uccisi, mentre i corpi ritrovati, una trentina, appartengono forse ai Romani e gli ostraca (frammenti di terracotta) recanti nomi di persona forse servivano a qualcos’altro, non a sorteggiare chi doveva uccidere o suicidarsi. Tuttavia lo scavo di Yigael Yadin nel 1963 fu un vero pellegrinaggio archeologico, a cui parteciparono giovani di tutto il mondo, e tuttora i militari israeliani giurano che «mai più cadrà Masada».
Uno studio recente dello storico olandese Miguel-John Versluys riporta l’attenzione sul sito di Nemrud Dag in Turchia, montagna del Tauro Orientale sulla cui sommità l’American School of Oriental Researches trovò nel 1953 i resti monumentali della tomba-santuario di re Antioco I di Commagene, un tumulo di 150 metri di diametro con altari e cinque statue colossali alte nove metri, decapitate, le teste poste in terra. Esse raffigurano Antioco I, la dea Tyche, gli dei Zeus-Oromasde, Apollo-Mitra-Helios-Ermes ed Eracle-Artagnes-Marte, a testimoniare il sincretismo religioso greco-armeno-persiano dell’epoca, oltre a giganteschi leoni e aquile, simboli di regalità. Il bassorilievo del «leone astrale» raffigura l’oroscopo del 6 luglio 61 o 62 a.C., forse il compleanno o l’incoronazione di Antioco I, mentre la sepoltura del re è ancora da scoprire.
Fra i più famosi monumenti del Nord Africa, infine, c’è il «Colosseo nel deserto» di El-Djem in Tunisia, cioè l’anfiteatro dell’antica città romana di Thysdrus, dove Giulio Cesare insediò i suoi veterani nel 45 a.C. e che poi Settimio Severo e Gordiano ampliarono e abbellirono, facendone il più grande centro di produzione di vino e olio d’oliva dell’Africa romana. In epoca ottomana la città fu smantellata per ricavarne materiale da costruzione, e la desertificazione del clima ha fatto la sua parte, riducendo la ricca città antica ad un piccolo villaggio. L’immenso anfiteatro era secondo solo al Colosseo di Roma, e poteva ospitare 35 mila spettatori. Oggi è meta prediletta di registi cinematografici ed è stato il set, fra gli altri, dei film Il gladiatore di Ridley Scott e Brian di Nazareth dei Monty Python.

Il Sole Domenica 1.10.17
La verità sulla Rivoluzione d’Ottobre
Uno dei più importanti filosofi «liberal» spiega perché è stata un disastro: per il popolo, per l’Europa, per la sinistra. Ma poteva andare in un altro modo?
di Michael Walzer

È stata un disastro - per il popolo russo, per l’Europa, e per la sinistra in tutto il mondo. Il fatto che la teoria marxista non prevedesse una rivoluzione in Russia è talvolta considerato un segno della debolezza della teoria, ma sarebbe meglio considerarlo un segno della sua forza morale. Le previsioni di Marx erano in realtà ambiziose e giuste. Questa rivoluzione non ci sarebbe dovuta essere. La società russa non era pronta ad appoggiare e sostenere una rivoluzione autenticamente socialista e democratica.
Un disastro per il popolo russo: perché la rivoluzione ha portato nella sua scia una brutale dittatura, polizia segreta, processi farsa, purghe, deportazioni di popolazioni, gulag siberiani e assassinii di massa. Tutto questo è ben noto, per quanto sia stato negato per troppo tempo da molta parte della sinistra.
Un disastro per l’Europa: perché il Partito comunista tedesco, sotto la direzione di Mosca, adottando la politica del “tanto peggio tanto meglio”, combattendo contro i socialdemocratici come fossero il nemico più vicino, ha contribuito a portare i nazisti al potere; perché il patto Hitler-Stalin ha permesso l’attacco della Germania a Occidente (e non ha impedito un successivo attacco a Oriente); e perché all’indomani della Seconda guerra mondiale, si sono instaurate delle dittature comuniste nell’Europa dell’Est, mantenute al potere dall’esercito sovietico.
Un disastro per la sinistra: perché la rivoluzione è arrivata in un momento in cui si stava rafforzando la versione socialdemocratica della sinistra europea e ha prodotto un’enorme divisione nella sinistra e un forte indebolimento della socialdemocrazia; perché il bisogno sentito da molti a sinistra di difendere la repressione e il terrore nell’Unione sovietica ha portato alla corruzione morale, a quello che Albert Camus ha definito l’evento centrale del Ventesimo secolo: «L’abbandono dei valori della libertà da parte dei movimenti rivoluzionari»; perché quando, infine, i partiti socialdemocratici sono andati al potere in Europa occidentale dopo la Seconda guerra mondiale, il loro necessario anticomunismo li ha resi più conservatori di quanto sarebbero potuti essere. E perché in altre parti del mondo i comunisti hanno preteso di essere gli unici di sinistra, hanno assassinato chiunque contestasse questa loro rivendicazione e hanno instaurato regimi brutali: in Cina, Corea del Nord, Cambogia e Vietnam.
Non posso immaginare che qualcuno sostenga che tutto questo non conta a fronte del grande risultato del rovesciamento del regime zarista. La vecchia autocrazia russa era veramente tremenda, ma sembra quasi benevola se mettiamo bene a fuoco quello che è successo dopo. È importante metterlo bene a fuoco, ma potrebbe essere politicamente utile anche cercare di scrivere una storia controfattuale: come sarebbero state la Russia, l’Europa e la sinistra oggi se i Menscevichi (i socialdemocratici russi) avessero vinto? A volte è bello sognare.

Il Sole Domenica 1.10.17
Se non ci fossero stati i bolscevichi...
di Emilio Gentile

Può uno storico usare l’immaginazione nel ricostruire un evento storico, considerando cosa sarebbe accaduto nel divenire della storia, se quell’evento non fosse accaduto?
La proverbiale frase: “la storia non si fa con i se” altro non è che una sublime banalità. Il “se” ha una sua dignità nel lavoro dello storico, se lo storico non è un profeta con gli occhi volti al passato, come lo definiva Novalis; né un teologo, che con gli occhi di Dio vede in anticipo il fine del divenire storico; né un ideologo, che considera inevitabile ogni accadimento, come inevitabilmente ciascun vagone di un treno corre sugli stessi binari verso una meta prestabilita. Uno storico serio non può evitare di pensare quale sarebbe stato il corso della storia se un fatto non fosse accaduto. Perché in ogni momento della storia, quel che avviene, avviene sempre in un complesso intreccio di circostanze e di situazioni, di impreviste e imprevedibili iniziative di azione, individuali e collettive. La scelta di agire in un senso piuttosto che in un altro, con il risultato che ne consegue, può generare un diverso corso di avvenimenti. E in tale intreccio, il caso, o la fortuna che dir si voglia, come l’amore nelle relazioni umane, può esercitare la sua capricciosa sovranità.
L’uso del “se” non è soltanto il divertimento di un sogno, come dice Michael Walzer: è un necessario esercizio della razionalità critica nella interpretazione della storia. Esso consente allo storico di comprendere meglio la complessità dei fattori che intervengono negli accadimenti, dove alla fine è l’azione umana che decide un corso piuttosto che un altro. Le cosiddette forze profonde che operano nella storia condizionano l’azione umana, ma in ultima analisi, la Grande Guerra, la Seconda guerra mondiale, la guerra contro l’Asse del Male non è stata scatenata da anonime forze profonde, ma da chi ha scelto e deciso di dichiarare la guerra e ha fatto sparare il primo colpo. Così è anche per le rivoluzioni.
Se è uno storico serio, farà ovviamente un uso serio della sua immaginazione, attenendosi alla realtà dei fatti accaduti per immaginare realisticamente un corso alternativo al divenire storico rispetto a “come sono veramente andate le cose”. C’è pertanto differenza nel modo di usare il “se” nella storia.
Uno storico serio non si domanderà con l’immginazione cosa sarebbe accaduto se Paolo VI avesse convertito alla bontà le Brigate rosse che assassinarono Aldo Moro. Ma potrà seriamente domandarsi che cosa sarebbe accaduto in Russia, in Europa e nel mondo, se Lenin non fosse riuscito a tornare a Pietrogrado il 3 aprile 1917 per dare inizio, con la sua rivoluzione, a un fenomeno politico planetario, alla pari del cristianesimo e dell’islamismo, animato da un proprio impulso religioso, fino a diventare l’unica universale fra le religioni politiche dell’era contemporanea.
Fu molto accidentato, per nulla predeterminato, continuamente insidiato da eventi imprevisti e imprevedibili, il cammino di Lenin per arrivare alla conquista bolscevica del potere, alla proclamazione del primo Stato comunista della storia, alla vittoria nella guerra civile, alla costruzione del primo regime a partito unico e alla successiva proliferazione di partiti comunisti in tutto il mondo, che attraverso la Terza Internazionale divennero fedeli sodali della Russia sovietica e dei suoi governanti totalitari per oltre mezzo secolo.
All’inizio del 1917, a quarantasette anni, Lenin malinconicamente pensava che non avrebbe mai visto scoppiare la rivoluzione socialista che da trent’anni considerava inevitabile. E quando arrivò alla Stazione Finlandia di Pietrogrado, la notte del 3 aprile, non aveva un piano prestabilito di azione per conquistare il potere, salvo la sua feroce determinazione a conquistarlo dopo oltre trent’anni di attesa e di preparazione alla rivoluzione. Citando Napoleone, il capo del bolscevismo era solito dire “On s’engage et puis on voit”. Fu per la sua inflessibile volontà d’insurrezione, insieme alla straordinaria abilità di Trotckij nel realizzarla, che il 25 ottobre i bolscevichi conquistarono il potere. Ma fino all’ultimo momento, il loro proposito poteva essere vanificato da un accidente, come, per esempio, l’arresto di Lenin mentre si recava in tram e a piedi al Palazzo Smolny, quartier generale per il colpo di Stato bolscevico.
La rivoluzione bolscevica e tutto il processo storico che da essa fu generato fu una continua smentita delle premesse e delle promesse teoriche di Marx e di Lenin, salvo l’annientamento sociale, e persino fisico, della classe borghese e l’abolizione del capitalismo libero.
Prima del suo ritorno in Russia, Lenin e i bolscevichi erano una sparuta minoranza nel vasto movimento del socialismo marxista europeo, orientato ovunque a seguire, nell’azione pratica, la teoria marxista della rivoluzione socialista come portato inevitabile della crisi del capitalismo nei paesi dove il capitalismo aveva già raggiunto lo stadio della sua maturità. È realistico immaginare che, senza la rivoluzione bolscevica e la nascita dell’Urss, il socialismo marxista europeo avrebbe proseguito il cammino all’interno della società e dello Stato borghese, per modificarlo, anche profondamente, senza sconvolgimenti insurrezionali. Senza nascita dell’Urss e del movimento comunista internazionale, il successo del socialismo europeo dopo la Prima guerra mondiale sarebbe stato molto simile al successo della socialdemocrazia europea dopo la Seconda guerra mondiale.
Nello stesso senso, è realistico immaginare che, senza la frantumazione della sinistra proletaria in Italia e in Germania per effetto della Terza Internazionale, il fascismo e il nazismo non avrebbero conquistato il potere, o lo avrebbero conquistato con maggiori difficoltà. Ma è altresì realistico immaginare che anche senza il bolscevismo, ci sarebbero stati probabilmente il fascismo e il nazismo perché l’impeto del loro successo non fu la paura del bolscevismo, ma la volontà di conquista del potere da parte di nazionalisti rivoluzionari nati dalla Grande Guerra, che odiavano la democrazia liberale e nutrivano ambizioni imperiali. Così come è realistico immaginare che anche senza il comunismo sovietico ci sarebbero state lotte per l’indipendenza nelle colonie contro l’imperialismo europeo.
Senza il totalitarismo generato dalla rivoluzione bolscevica, la lotta per l’eguaglianza, accompagnata dagli immani massacri che in suo nome sono stati commessi da tutti i comunismi, non sarebbe apparsa come una lotta contro la libertà.

Il Sole Domenica 1.10.17
Elzeviro
All’armi siam razzisti
Con l’accentuarsi delle diseguaglianze, gli atteggiamenti discriminatori sono meno espliciti, più diffusi e politicamente trasversali
di Guido Barbujani

È possibile, è giusto, giudicare in blocco i comportamenti di un intero popolo? La risposta di Primo Levi, come sappiamo, era sì. Ci sono tendenze generali, a cui i singoli possono sottrarsi (e così facendo non condividerne la responsabilità) ma a cui la maggioranza obbedisce: e questa obbedienza di massa legittima un giudizio collettivo. Levi pensava alla Germania ai tempi della Shoah; nel loro Non sono razzista, ma (Feltrinelli), Luigi Manconi e Federica Resta si interrogano invece sull’Italia dei nostri giorni. La loro risposta è netta: dire che gli italiani sono razzisti è una sciocchezza, ma è vero che in Italia comportamenti apertamente razzisti sono sempre più tollerati e giustificati. Come hanno notato i linguisti (in particolare Federico Faloppa in Contro il razzismo, a cura di Marco Aime, Einaudi), la frase «non sono razzista, ma» è carica di significato. Dimostra come il razzismo non stia bene sbandierarlo, ed è già un progresso: nel 1938, su La Difesa della razza si proclamava invece che «è tempo che gli italiani si dichiarino apertamente razzisti»; però il “ma” introduce una conclusione che, c’è da scommetterci, negherà la premessa. Oggi gli atteggiamenti discriminatori, scrivono Manconi e Resta, sono appunto così: meno espliciti di un tempo e più diffusi. Si mettono le mani avanti, ma si finisce per manifestare opinioni e pregiudizi fino a pochi anni fa giudicati volgari o inaccettabili. Sembrerebbe insomma che la fenomenale capacità italica di assuefarsi a qualsiasi cosa si stia estendendo al discorso razzista, meglio se soggetto a preventivo maquillage: per esempio, in nome della tutela dei diritti degli autoctoni, o di preziose tradizioni messe a repentaglio nella società multietnica. Quanto poco fondamento abbiano queste posizioni, quanto poco corrispondano ai fatti, Manconi e Resta lo documentano fin dalle prime pagine. Non è vero né che il nostro Paese sia sottoposto a un tasso di immigrazione insopportabile, né che gli immigrati godano di privilegi rispetto agli altri cittadini, né che l’immigrazione produca costi per il bilancio dello Stato. È vero il contrario, come tutti sanno ma molti dimenticano: secondo Confindustria, nel prossimo decennio l’Italia avrà bisogno di 150mila immigrati l’anno, e qui Italia vuol dire, per esempio, il sistema pensionistico, l’Inps. E allora? È sotto gli occhi di tutti: Libertà ha stravinto, di Uguaglianza e Fraternità non si sente più parlare, o se ne parla malissimo. Con l’accentuarsi delle disuguaglianze, la fraternità – oggi la chiamiamo solidarietà – ha cambiato connotati. Era la risorsa dei più deboli, adesso i deboli la vedono come un lusso che solo i ricchi possono permettersi. E allora «se gli immigrati vi piacciono tanto, prendeteli a casa vostra», punto. Ma se si attenuano o saltano i legami di solidarietà, se non ci si sente più in qualche modo sulla stessa barca, cambiano tante cose. Pratiche di esclusione e discriminazione diventano prima concepibili, poi praticabili, infine vengono reclamate come ultima risorsa davanti a conflitti che sembrano senza uscita. Così, in uno dei passi più intensi e sorprendenti del libro, Manconi e Resta provano a interpretare le parole “non siamo razzisti, ma” in chiave diversa. Possono anche, ci dicono, essere lette come una richiesta d’aiuto: fate funzionare lo stato sociale, aiutateci a non diventare razzisti. Nell’età che qualcuno ha chiamato della post-verità, non stupisce trovare in questo libro la dimostrazione, una volta di più, che cose non vere, se ripetute a sufficienza e a voce sufficientemente alta, possono penetrare un po’ alla volta nel senso comune. Come ci siamo arrivati? Per un intero capitolo, con accuratezza da antropologi e (il che non è semplice) con grande equilibrio, Manconi e Resta si concentrano su una figura esemplare, quella di Roberto Calderoli. Un razzismo bonario, il suo, anche quando chiama orango una ministra della Repubblica, Cécile Kyenge; una «xenofobia strapaesana», fatta di dichiarazioni virulente, ma presto banalizzate e minimizzate; un sistema «di stereotipi, di pregiudizi e di cliché» di cui si coglie subito la fragilità, camuffata da buon senso. Il tutto, però, accompagnato da una strategia comunicativa elementare ma efficace, e da quella che gli autori battezzano giustamente «la tendenza a una puerile e spensierata irresponsabilità». Si lancia il sasso e si ritira la mano; si mostra in televisione una maglietta con una vignetta islamofoba, e se poi (attraverso una catena di eventi che Calderoli non poteva prevedere, ma a cui non è estraneo) si finisce con undici morti, pazienza, tanto sono morti a Bengasi.
Un solo, piccolo appunto. A questo libro, bello, intenso e (il che non è semplice) mai sopra le righe, manca secondo me un capitolo. «Doctor Ho is in the house», dicevano gli americani in Vietnam, quando avvertivano la vicinanza del nemico: abbiamo in casa il dottor Ho, i vietcong. Nel maggio di quest’anno, il presidente Pd della regione Friuli-Venezia Giulia, Debora Serracchiani, che pure ha frequentato le aule dei tribunali e ci avrà senz’altro letto che la legge è uguale per tutti, ha dichiarato che una violenza sessuale è «più inaccettabile» se perpetrata da un richiedente asilo; a luglio, Patrizia Prestipino, del Pd, ha invocato misure in difesa della razza italiana; a settembre, Alice Zanardi, sindaco Pd di Codigoro, ha pensato di tassare chi offrisse ospitalità a immigrati nel suo Comune. La scelta degli immigrati come capro espiatorio su cui far sfogare la frustrazione dei cittadini, in una ricerca degradante di consenso a buon mercato, non è più il triste monopolio della destra estrema; ormai trova spazio anche nel partito di Luigi Manconi. Abbiamo in casa il dottor Ho, senatore Manconi: facciamo qualcosa per neutralizzare, prima di tutto, il razzismo di chi ci sta vicino o finiremo per perdere, senza quasi combatterla, la battaglia di civiltà più importante dei nostri tempi.
Luigi Manconi, Federica Resta, Non sono razzista, ma , Feltrinelli, Milano, pagg. 160 , € 15

Il Sole Domenica 1.10.17
Politica
La parabola della democrazia dei partiti
di Nadia Urbinati

A giudicare dalla valanga di pubblicazioni sulla sua “crisi” la democrazia non sembra godere di buona salute, anche se non è facile misurare con oggettiva certezza il senso del suo stato di crisi, esso stesso una questione di opinione o “feeling”; e poi perché le forme di aperta critica all’establishment sono esse stesse segno di una società libera e ospitale al dissenso, e in questo solidamente democratica (in fondo, perché l’opposizione aspiri a diventare maggioranza deve sviluppare argomenti contro l’establishment). Dunque, perché “crisi”? Quando si parla di “crisi” si parla in effetti di una crisi di funzionalità della rappresentanza nella forma attuale che è partitica: questo sembra essere l’oggetto vero di insoddisfazione. Di crisi della democrazia dei partiti ha senso parlare dunque, nonostante il fatto che il nuovo secolo si sia aperto con la certezza che questa forma di governo e di pratica politica sia comunque la piú elastica ad assorbire le trasformazioni sociali e tecnologiche; e nonostante il fatto che la democrazia costituzionale abbia vinto la competizione con tutti i sistemi politici che si sono succeduti a partire dal secolo delle rivoluzioni settecentesche.
L’ormai classico, The End of History di Francis Fukuyama (1992) e il più recentemente e pessimista The Future of Freedom di Fareed Zakaria (2003) hanno addirittura tentato una filosofia della storia basata sulla preminenza della democrazia costituzionale che sembrerebbe durare fino a quando la sua relazione con il liberalismo è solida (e come se democrazia e liberalismo fossero due mondi comunque distinti, spesso in tensione, anche se capaci di cooperare). Fatto è che i governi rappresentativi liberali ottocenteschi hanno fallito miseramente chiudendosi alle prevedibili lotte per l’inclusione che il principio del suffragio implicava; essi sono stati poi sepolti dai totalitarismi dei partiti olistici che si sono fatti Stato con effetti devastanti, non solo nel Vecchio continente. Su questa stratificazione di tentativi e tragici fallimenti si è stabilizzata la forma rappresentativa della democrazia costituzionale di cui oggi sentiamo da più parti lamentare la crisi.
La versione di democrazia che ha conquistato l’Occidente ha saputo mettere insieme due forme di partecipazione che erano state fino ad allora rivali: la formazione delle agende politiche da parte dei cittadini e la selezione dei rappresentanti. Nel vecchio continente questa soluzione si è innervata su un principio di legittimazione - la sovranità popolare - che si è appoggiato su due radici: la nazione politica (giuridicamente una) e la società. Tenere insieme la generalità della norma e il pluralismo degli interessi è stato un compito difficile, e che i partiti politici hanno svolto bene. Non partiti come macchine elettorali semplicemente (come nell’età del governo rappresentativo di notabili) e non partiti olistici o totali (come nell’età delle dittature di massa), ma partiti che, mentre formavano candidature e gestivano il funzionamento delle istituzioni, avevano un rapporto diretto e forte con i cittadini, anche se non esclusivo o totalizzante; un rapporto capace di alimentare sia la divisione partigiana (intorno a principi o aspirazioni) sia la ricerca di soluzioni che obbedissero a una idea minima condivisa di bene generale. Partigiani intelligenti e civici, non partigiani dogmatici e faziosi: questa dialettica di unità e pluralismo è il lascito dei partiti del secondo Dopoguerra, non solo in Italia.
Nel nostro Paese siamo erroneamente portati a identificare la democrazia dei partiti con la Prima Repubblica. Ma questa forma di democrazia rappresentativa ha operato in tutti i Paesi, certamente quelli europei. Non in tutti essa ha avuto la stessa traiettoria, nel senso che non dovunque i partiti sono stati atterrati nei tribunali (anche se corruzione c’è stata, e c’è). Tuttavia in quasi tutti, pur con modalità diverse, la democrazia dei partiti è ora sotto fortissima pressione e per alcuni studiosi moribonda se non addirittura morta. A causa di diversi fattori concomitanti, in primis la trasformazione della sfera dell’opinione a causa del dominio dei mezzi di comunicazione di massa, che hanno contribuito ad esaltare la politica della personalizzazione (leader televisivi, spesso definiti carismatici) e a deprimere la politica dei programmi. Assegnando all’elezione una forte connotazione plebiscitaria, quella che Giovanni Sartori ha chiamato videocrazia, ha dato un enorme contributo al processo di erosione dei partiti – anche di qui è cominciata la “crisi” della democrazia rappresentativa. Il passo successivo è stato quel che alcuni studiosi hanno denotato come democrazia dei “partiti cartello” – una soluzione decisamente oligarchica che vede il personale partitico abbarbicato alle posizioni di potere dentro le istituzioni (come una casta), disposto a limare le differenze tra le loro varie appartenenze nell’intento di conquistare l’elettorato mediano, quello meno partigiano (e sempre più numeroso con la fine dei partiti ideologici di massa). La virata populista comincia qui. Essa attraversa un poco tutti i partiti, anche quelli che prosperano accusando gli altri di populismo, poiché il mainstreamism ha avuto un effetto devastante sulla democrazia dei partiti, vero baluardo contro il populismo: ha stimolato l’astensionismo elettorale e aperto alle strategie popolariste una prateria di potenziali elettori di nuovo conio (non più mediani e nemmeno ideologicamente tradizionali). Finite le divisioni partigiane su idee e programmi (certo, non sempre attraenti), le campagne plebiscitarie intorno a un leader e la polemica populista che rifugge dal dialogo deliberativo sembrano essere le componenti della lotta ideologica oggi, una lotta che rappresenta una divisione manichea tra establishment (i pochi dentro il potere) e popolo (i molti fuori dal potere).
La regressione dei vecchi e nuovi partiti dalla società verso le istituzioni – la loro cartelizzazione - non ha però soltanto accelerato la trasformazione populista dell’agone democratico. Ha anche messo in campo soluzioni o per rivitalizzare i partiti o per rivitalizzare i cittadini: da un lato, con una decisa identificazione della partecipazione con l’elettoralismo (periodiche campagne per le primarie, a volte anche per eleggere il segretario, non solo candidati alle funzioni istituzionali); dall’altro, con risposte e strategie che non sono necessariamente confinati nei partiti – per esempio l’ideazione di esperimenti partecipativi (che Internet facilita). Da alcuni Paesi è venuto il passo più audace della web-democracy in reazione alla partitocrazia: la composizione diretta alla scrittura della Costituzione (Islanda); la consultazione dei cittadini sulla riforma di alcune parti della Costituzione (Irlanda); la proposta di una nuova legge elettorale (British Columbia). La risposta alla debilitazione della democrazia dei partiti è, come si vede, aperta a trasformazioni che possono essere radicali e che, è importante osservare, avvengono (ancora) nel campo della democrazia praticata e dei partiti, lungo due direttrici che sono molto diverse tra loro: da un lato si assiste ad un’esplosione di esperimenti di deliberazione (come discussione e articolazione di proposte); dall’altro si verifica un restringimento della democrazia a pratica elettoralistica.
Si potrebbe dire che le due componenti che la democrazia dei partiti o rappresentativa teneva insieme - decisione/voto e deliberazione/ discussione - sembrano in questa fase divorziare, per cui la democrazia post-partitica cambia fisionomia stiracchiandosi verso i due poli opposti che la componevano: direttismo da un lato e delegatismo dall’altro. Scusandomi con i lettori per questi barbarismi, che però possono aiutare a descrivere e a far capire, la risposta alla democrazia dei partiti in questa fase di ricerca di soluzioni sostitutive o integrative, sembra esaltare da un lato un ricorso persistente all’elezione senza molta attenzione ai programmi e alla discussione, e dall’altro un’attenzione quasi esclusiva alla discussione via rete o in piccole assemblee senza troppa attenzione a (e in alcuni casi con diffidenza per) l’elezione. Da questa biforcazione dei due processi che la democrazia dei partiti teneva insieme si dovrà forse partire per comprendere la trasformazione in atto nelle democrazie rappresentative, evitando l’uso impreciso e generico del sostantivo “crisi” e soprattutto non correndo alla conclusione spiccia che il populismo sia la sola soluzione in atto.

Il Sole Domenica 1.10.17
Pensare in greco senza saperlo
di Armando Massarenti

Mega biblion, mega k akon («un libro troppo lungo è un grande male», ma volendo essere più icastici e, è il caso di dirlo, cacofonici, potremmo anche tradurre «grande libro, grande schifezza», o alla Fantozzi «una c... pazzesca»; insomma, vedete voi). Così in ogni caso scriveva il poeta ellenistico Callimaco. Anche se, naturalmente, esistono “grandi libri” benché ponderosi. Tra questi, i Dizionari, e su tutti forse il Rocci di Greco-Italiano, che chi (come chi scrive) non ha avuto la fortuna di fare il liceo classico ma una sorella che lo ha fatto, lo ha potuto almeno ammirare per casa in quanto autentico e affascinante gioiello tipogafico. Ingombrante, però; e ovviamente più da consultare che da “leggere”, anche per chi non disdegna affatto di leggere i dizionari e le enciclopedie, magari in ordine alfabetico come l’analfabeta/autodidatta di Sartre. Bene, con il Dizionarietto di greco. Le parole dei nostri pensieri (in uscita per l’Editrice La Scuola), può farlo senza tema di annoiarsi. In 250 paginette, questo piccolo grande libro invoglia alla lettura chiunque abbia la curiosità di scoprire o ripercorrere la storia della cultura occidentale, risalendo alle radici semantiche greche da cui praticamente tutto - ogni parola, ogni concetto, ogni ambito del sapere - è iniziato, almeno per noi. Gli autori Paolo Cesaretti e Edi Minguzzi ci tengono a precisarlo: il greco è trattato qui come una lingua viva e vegeta, capace di produrre significati sempre nuovi, una vera e propria “macchina per pensare”, che non solo è responsabile dell’intera storia della cultura passata, ma continua imperterrita a generare cultura nella società attuale, come è evidente dalla nutrita quantità di neologismi d’ambito scientifico, e non solo, che popolano il nostro vocabolario. Una selezione di lemmi-chiave ci accompagna in un percorso affascinante, dove siamo agevolati da traduzioni, etimologie, box di approfondimento e numerose citazioni dai testi classici, che troviamo riportate sia in greco sia in una versione translitterata nell’alfabeto latino per una lettura più chiara e senza errori. Inutile dire che la filosofia antica la fa da padrona: sono onnipresenti Platone, Aristotele, Democrito; basti pensare a lemmi quali Idea, Dialogo, Analisi, Categoria, Atomo. Ma è molto presente anche la tradizione cristiana, che ha mutuato il suo intero dizionario dalla cultura e dalla lingua greca. Per non parlare delle numerose parole che, ispirate a radici semantiche antiche, sono state composte solo in età moderna da studiosi che evidentemente credevano molto nel valore delle loro radici. Si pensi alla Nostalgia, il dolore causato dal desiderio di tornare in patria (nòstos ritorno - àlgos dolore), che ha reso così affascinante la figura di Odisseo, ma il cui termine specifico è stato inventato solo nel 1688 dallo studente di medicina Johannes Hofer. O ancora si pensi alla Gnoseologia (ghnosis conosco - lògos discorso), il discorso sulla conoscenza, modernamente “teoria della conoscenza”, il cui lemma fu introdotto nel XVIII secolo dal filosofo tedesco Baumgarten. In questo dizionarietto, e non è una cosa da sottovalutare, accanto al significato antico del termine, ricollocato nei contesti culturali dei vari secoli, si trova anche il significato attuale della parola. Alcuni esempi possono rendere giustizia a questo lavoro davvero encomiabile. La parola Crisi, che oggi ha un valore soprattutto negativo, proviene dal verbo krino, ”discernere”: la crisi dunque, a dar retta all’etimologia, va intesa non come un ostacolo, bensì come un momento di difficoltà che richiede una riflessione da investire in un’azione di miglioramento. O, ancora, il suffisso -logia, presente in innumerevoli parole della nostra lingua moderna - analogia, antologia, apologia, archeologia - deriva dal termine Lògos - assai significativo soprattutto nella tradizione cristiana evangelica di Giovanni - che significa al contempo parola, ovvero linguaggio, e pensiero in senso lato, ovvero ciò che il linguaggio esprime: una profondità semantica straordinaria in un solo termine, che sembra riflettere, a posteriori, l’odierno dibattito sulle origini del linguaggio. «Conosci te stesso» sentenziava l’oracolo di Delfi: ebbene, in una società che si chiede ancora se sia opportuno continuare a studiare il greco, come negare che la conoscenza di questa lingua sia utile per conoscere noi stessi, le nostre origini, per sapere chi siamo e soprattutto dove stiamo andando? Dobbiamo coltivare la memoria, memoria del passato ma soprattutto del futuro. E come non sentire una profonda nostalgia per il liceo classico, anche se non lo si è fatto?

Il Sole Domenica 1.10.17
L’islam e noi
In teoria ma non in pratica
L’incontro tra le civiltà è più facile solo sul piano dottrinale, come dimostra il passo del Corano sulle donne incline alla parità di genere
di Maria Bettetini

Spesso si dà la colpa al tempo: tra sei secoli anche l’Islam sarà «moderno», deve fare il suo cammino, così come è stato per la civiltà «occidentale». Che ragli di gatto, direbbe un mio professore del liceo. Questa idea delle tappe necessarie di un percorso, del ripetersi dell’uguale se pur in differenti situazioni, sappiamo da dove viene e ha fatto il suo tempo. Colui che a Hegel sembrò lo Spirito del mondo a cavallo, Napoleone Bonaparte, a noi risulta essere un geniale megalomane militare, morto triste solo e sconfitto. Quindi non chiediamo a una civiltà di ripetere il percorso di un’altra.
E non parliamo di «due» civiltà, tante volte si è già detto dell’impossibilità di separare chirurgicamente un «noi» da un «loro», in qualunque gruppo ci si voglia riconoscere. Il nucleo del problema è un altro, in vista di una migliore comprensione, reciproca, e accettazione, reciproca, dell’Islam: nulla cambierà, non fra sei e non fra seicento secoli, se la lettura del Corano rimarrà letterale e basata sulle prime spiegazioni (non interpretazioni) pratiche, avvenute nei primi secoli dall’ègira.
Se le vite del Profeta e dei califfi «ben guidati», i primi quattro, sono intese come esemplari in senso stretto e se in generale il riferimento è sempre a un passato non interpretabile e non rivedibile, tutti i tentativi di moderazione, import-export della democrazia, apertura, dialogo sono destinati a scontrarsi con i muri della tradizione o altro, come la quasi divinità dell’imam (per non far torto a Sunniti né a Sciiti).
Questa e altre interessanti idee si leggono in un manuale abbastanza unico, una storia del pensiero politico islamico da Muhammad a oggi, curata da Massimo Campanini, con contributi di studiosi italiani e stranieri. Uno strumento scolastico (universitario) ma anche una piacevole lettura, scritta con chiarezza e che per la prima volta segue la teoria politica dell’Islam in senso sia cronologico che teoretico, senza esclusione di ambiti o periodi.
L’idea di cui sopra è in uno degli ultimi capitoli, quello dedicato al tema della donna (di Margherita Picchi), dove appare evidente che non può avere forza una teorica uguaglianza di genere, che pure si legge nel Corano, se poi sono di opposto avviso le pratiche indicate nello stesso libro e proposte dagli esempi dei primi musulmani, nonché codificate dai primi studiosi di diritto.
Ma prima della tematica femminile, il manuale parte dall’inizio e spiega senza fretta cose che si potrebbero ritenere scontate, e non lo sono: la scissione tra Sciiti e Sunniti, perché i primi sono e rimarranno una minoranza, la nascita dei califfati, i sensi del termine jihad, ossia sforzo interiore, ma anche guerra di difesa e per estensione guerra di conquista, di sottomissione del mondo alla vera religione. Si suggerisce che quest’ultima accezione, tristemente nota, prenda piede come deterrente ai conflitti interni una volta che siano sicuri i confini dello stato islamico. Forse (non so se tutti gli autori concorderebbero).
Chiaramente le teorie di al-Farabi, tra nono e decimo secolo della nostra era, chiudono ogni discussione: il governo deve essere dell’imam, che è profondo metafisico e teologo (come i re-filosofi di Platone), che è quasi divino, scelto da Dio, infallibile, profeta (tutte caratteristiche non dei re-filosofi). Inoltre la virtù deve essere esportata con le armi e la forza. Non solo per difesa (questa sarebbe la «guerra giusta» di Sant’Agostino), ma per portare un bene maggiore a chi non lo possiede o non lo vuole, senza però scomodare la jihad: al-Farabi infatti non accenna all’esportazione dell’Islam e parla di guerra come harb.
Ma prima di al-Farabi, prima che la sua Baghdad diventasse centro di potere e sapere musulmano, i due secoli immediatamente successivi alla morte del Profeta (632) hanno visto la velocissima espansione dell’Islam sulle coste del Mediterraneo, favorita dalla stanchezza dei Bizantini e dei regni romano-barbarici, dall’oppressione delle tasse, dalla povertà, dalla poca organizzazione degli assaliti, che in diverse occasioni hanno ufficiosamente aiutato gli assalitori.
Che si porti la religione, oltre che il normale saccheggio e nuove forme di governo, è scontato. Non perché lo stato islamico sia teocratico (il clero in sé non esiste, esistono studiosi con ranghi diversi a seconda dell’appartenenza). Piuttosto perché la religione, in particolare i sacri testi, hanno la soluzione a tutti i problemi, di ordine privato e pubblico, familiare e politico. Perché, dunque, cercare altrove? O permettere a chi sbaglia di continuare a sbagliare?
Dicono che sia stato questo il motivo per cui ciò che restava della Biblioteca di Alessandria, già devastata ai tempi di Giulio Cesare, sia stato definitivamente bruciato per scaldare i soldati, quei papiri non avrebbero contenuto nulla di buono che non fosse già nel Corano. Ma queste sono probabilmente leggende, ce ne sono tante sulla Biblioteca. Piuttosto, si consideri come queste truppe di beduini, abili cavallerizzi, si impossessano del Vicino Oriente fino a Costantinopoli, dell’Africa del Nord e dell’Europa del Sud fino alla Provenza e alla Sicilia.
Un altro libro recente, Il mare dei califfi, consente un altro tipo di viaggio nella storia, domandandosi se è vero che nel Mediterraneo i musulmani navigavano solo come pirati. Anche, risponde lo storico Christophe Picard: dal tredicesimo secolo erano praticamente solo pirati (i Saraceni!), ma nei secoli precedenti avevano imparato a navigare per combattere e per commerciare, oltre che per rapire e rapinare.
Già a trent’anni dalla morte del Profeta l’esercito aveva una sua prima base navale, poi a poco a poco, anche in questo caso favoriti dalla decadenza della marina che fu dei romani, la conquista di porti come Alessandria e poi Tunisi, diede la possibilità di assoldare costruttori di navi e marinai. La presa dell’Italia del Sud e della Spagna non sarebbe stata possibile senza la flotta, con equipaggi che a partire dal decimo secolo comprendevano anche gli schiavi arruolati. Ma la conquista islamica era instabile, perché veniva contesa tra i diversi piccoli califfati, le battaglie navali diventano sempre più spesso di islamici contro islamici.
Di nuovo i latini, fin da prima del Mille, hanno la possibilità di guadagnare il mare dei R?m, «dei Romani», nascono le Repubbliche marinare che sono sempre più forti e ricche. Ibn-Battuta, viaggiatore e scrittore spesso paragonato a Marco Polo, pur essendo nato in Marocco nel 1304, per i suoi viaggi al mare dei Romani preferì «il mare degli Arabi», l’Oceano Indiano, dove non occorreva essere pirati per navigare da musulmani.
Massimo Campanini (a cura di), Storia del pensiero politico islamico.
Dal profeta Muhammad ad oggi , Le Monnier Università – Mondadori Education, Firenze, pagg. 264, € 21
Cristophe Picard, Il mare dei califfi. Storia del Mediterraneo musulmano (secoli VII-XII) , Carocci , Roma, pagg. 386, € 36

Il Sole Domenica 1.10.17
Neuroscienze
Sognare non è da incoscienti
di Arnaldo Benini

Il sonno è un evento biologico dramatic, dicono gli anglofoni: ogni giorno passiamo dallo stato di veglia, in cui si ha coscienza del mondo e dell’interiorità, all’incoscienza del sonno, simile al coma. Durante il sonno la coscienza può emergere come sogno, a volte assurdo, a volte razionale e congruente con l’esperienza. Una persona cara scomparsa, ad esempio, torna spesso nei sogni di familiari ed amici. Il sogno, anche se carico di affettività, non sempre lascia tracce nella memoria. Quando ci si sveglia, spesso spontaneamente, si è immediatamente autocoscienti.
Il sonno è un’oscillazione della coscienza, già di per sé misteriosa, e per questo è particolarmente arduo da studiare. Il neurofisiologo torinese Piergiorgio Strata riassume, con rigore scientifico e talento divulgativo, che cosa la scienza può dire su sonno e sogni, dopo che su questi eventi biologici si sono sbizzarrite menti fantasiose. Trascorriamo circa un quarto della vita dormendo. Non è tempo sprecato, perché senza sonno la vita, per l’uomo e per gli animali, è impossibile.
Una delle torture più orribili è l’insonnia forzata: dopo un certo tempo, il torturato ammette qualsiasi cosa pur di poter dormire. I colpi di sonno, dovuti a insonnia pregressa, sono spesso cause di incidenti. Strata riferisce che nella battaglia di Stalingrado molti soldati tedeschi non dormivano a sufficienza perché combattevano giorno e notte: molti di loro morirono improvvisamente, senza ferite e malattie. Ci sono animali, come i delfini, mammiferi che stanno a galla per respirare, e uccelli migratori che volano ininterrottamente per giorni. L’evoluzione ha selezionato un meccanismo prodigioso per consentir loro di vivere: con le elettroencefalografie si vede che dorme una metà del loro cervello alla volta.
Che cos’è il sonno? Perché è indispensabile? La sua fenomenologia è relativamente facile da descrivere, con le molte differenze individuali. La ricerca coinvolge neuroscienziati, neurologi che curano i disturbi, spesso penosissimi, del sonno e pneumologi, per gli influssi sulla respirazione che nel sonno, in certe condizioni, può diventare insufficiente. La sua natura, e la sua funzione specifica per mantenere la vita, sono parecchio oscure. 16 miliardi di neuroni del cervello comunicano fra loro con una rete di fibre lunga circa 180mila km. Essi producono potenziali elettrici che viaggiano lungo gli assoni verso altri neuroni. Ognuno di loro è in contatto attraverso le sinapsi, che sono articolazioni fisico-chimiche, con circa 5.000 neuroni. Solo il 30% degli stimoli attiva le sinapsi, che in questo modo, secondo un criterio sconosciuto o forse inesistente, nel senso della casualità, fungono da eccitatrici o inibitrici dell’attività cerebrale. «Nella nostra corteccia [cerebrale] - dice Strata - abbiamo un’enorme e intricata ferrovia, regolata da un milione di miliardi di semafori alcuni rossi e altri verdi, le sinapsi appunto, lungo la quale segnali elettrici corrono continuamente come treni durante la veglia e il sonno».
L’elettroencefalografia e altre forme della visualizzazione cerebrale (in particolare la risonanza magnetica funzionale) mostrano come l’attività cerebrale sia diversa nel sonno e nella veglia. Il cervello, anche nel sonno, è perennemente attivo. Il sonno non è il suo riposo. Durante il giorno si accumulano nel cervello proteine prodotte in eccesso o di scarto. Esse sono eliminate durante la veglia, ma soprattutto durante il sonno. Non sembra comunque probabile che il sonno sia dovuto solo all’accumulo di scorie.
Strata sottolinea l’apporto del neurofisiologo pisano Giuseppe Moruzzi alla grande scoperta, con l’americano Horace Magoun alla fine degli anni ’40, della formazione reticolare, organo di neuroni che dal tronco encefalico manda assoni verso il midollo spinale e verso il talamo. Il suo ruolo nella regolazione dello stato di coscienza è provato. Il sonno potrebbe essere non un esaurimento, ma un evento attivo della coscienza regolato dalla sostanza reticolare.
Il sogno è un evento cosciente che si svolge nell’incoscienza del sonno. Da qui la difficoltà (impossibilità?) di studiarlo empiricamente. Scartata la teoria freudiana del sogno espressione della palude di repressioni dell’inconscio, (le neuroscienze hanno dell’inconscio tutt’altra concezione, empiricamente corroborata), si suppone che l’attività cerebrale durante il sonno possa stimolare, con la casualità degli eventi della coscienza e senza finalità, varie aree cerebrali, soprattutto della memoria e dell’affettività. Si cerca, con sedativi, di prevenire sogni con le caratteristiche dell’incubo, non infrequenti nelle persone anziane, che interrompono e poi impediscono il sonno per l’agitazione che lasciano. Il lavoro di Strata è molto informativo sui dati empirici attuali. C’è ancora molto da capire circa sonno e sogno.
Piergiorgio Strata, Dormire, forse sognare. Sonno e sogno nelle neuroscienze , Carocci, Roma, pagg. 206, € 15

Il Sole Domenica 1.10.17
Luca Ricolfi
Dove nasce il divorzio tra sinistra e popolo
di Raffaele Liucci

Oggi i «ceti medi riflessivi» guardano agli immigrati come a una risorsa ideologica, lontana dai conflitti reali
«Non conosco un libro destinato a farci tanto male quanto questo. Come negare tuttavia un suo contenuto di verità?». Dinnanzi al recente volume del sociologo torinese Luca Ricolfi, un lettore di sinistra potrebbe riesumare le parole di Pietro Nenni dedicate nel ’48 all’ultima fatica del suo conterraneo Leo Longanesi. Come mai le pagine di Ricolfi, lucide, urticanti, provocatorie, non passano inosservate? Perché costringono a contemplare un problema rimosso, ossia il divorzio fra sinistra e ceti popolari. Non si tratta di un evento contingente, in Italia addebitabile soltanto a Renzi, come sostengono i suoi detrattori, bensì di un processo storico che risale almeno agli anni Ottanta. Ricolfi ne ricostruisce la genesi, in connessione con le prime insorgenze populiste (ricordate, da noi, la Liga Veneta?), in grado di attrarre voti considerati patrimonio esclusivo delle forze progressiste.
Secondo Ricolfi, il populismo del 2000 non è soltanto una visione del mondo (il popolo incontaminato vs le élite corrotte). È anche una drammatica «domanda di protezione che sale dai ceti più svantaggiati». Un tempo era la sinistra a tutelarli, mentre ora la base sociale di quest’ultima è costituita soprattutto dai «ceti medi riflessivi» (Paul Ginsborg), attratti dai valori post-materialistici. Costoro, in genere, non vivono nei quartieri più degradati, impoveriti dalla disoccupazione e minacciati dall’immigrazione incontrollata (in Europa il tasso medio di criminalità degli stranieri è maggiore di quattro volte rispetto a quello dei nativi). Per questo l’attuale sinistra riformista e globalista «non vede letteralmente il problema» (la «mucca nel corridoio», per dirla alla Bersani), salvo poi trasecolare quando le crescenti diseguaglianze figlie della globalizzazione, l’insicurezza economica, la paura dello straniero (troppo spesso assimilata al razzismo) e l’insofferenza per gli eccessi del politicamente corretto gonfiano le vele dei Grillo e dei Trump.
Conscio di quanto le soluzioni offerte dal populismo siano comunque inadeguate, Ricolfi ci invita a un esercizio inusuale, ossia a indossare i panni altrui. Per esempio, immedesimandoci in chi abbia perso il lavoro perché l’azienda di cui era dipendente ha delocalizzato o viva in un condominio di periferia dove il racket degli alloggi è gestito da una banda di immigrati. Potrà mai, costui, dare il voto a esponenti politici che parlano ogni giorno della globalizzazione in termini di «straordinaria opportunità» e dell’immigrazione come di un «arricchimento culturale»? È vero: la società planetaria è irreversibile (le origini della globalizzazione contemporanea risalgono al 1870-1914) e senza la «libertà di emigrare» non ci saremmo mai evoluti e saremmo rimasti tutti in Africa, dove nacque l’homo sapiens, circa 100 mila anni fa. Ma snobbare i costi umani di questi fenomeni epocali è quantomeno miope.
Giungiamo al punto forse più scabroso della lettura di Ricolfi, e cioè al ruolo dell’immigrazione nell’immaginario simbolico dell’odierna sinistra, rimasta senza popolo: «La sinistra ha bisogno, un assoluto bisogno degli immigrati e delle politiche di accoglienza perché i migranti, in quanto deboli o ultimi per definizione, sono l’unico segno rimasto della sua vocazione a occuparsi di chi sta in basso». Senza di loro, la sinistra si troverebbe nuda, incapace di presentarsi ancora come tale.
L’eterodosso Ricolfi (una sorta di liberista no-global e anti-Maastricht) è tanto impietoso verso l’odierna sinistra quanto per nulla nostalgico di quella antica, entrambe prive di cultura empirica, nonché sempre riluttanti a sintonizzarsi con il proprio tempo. In fondo, questo libro rappresenta per Ricolfi anche un’implicita resa dei conti con il suo passato sinistrorso. Cominciò ad allontanarsene forse già nel 2005, allorché pubblicò un caustico pamphlet sulla presunta superiorità morale del ceto progressista. Oggi Ricolfi deplora il «pensiero fin troppo ascoltato di Norberto Bobbio» e incensa quello «troppo presto rimosso» dell’economista anti-keynesiano Friedrich von Hayek.
A volte, trascinato dall’abbrivio, l’autore vuole épater le bourgeois. Ad esempio, quando attribuisce al «fortunato libriccino» di Bobbio intitolato Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica (uscito nel 1994, qualche mese prima della vittoria berlusconiana), le radici del disprezzo coltivato dalla sinistra italiana verso la controparte politica: come se un solo volumetto potesse modellare la forma mentis di milioni di persone. Oppure, quando denuncia la «natura giacobina e decisamente antidemocratica» del Manifesto di Ventotene (1941), quasi un preludio dell’Europa tecnocratica di Maastricht. Ma così facendo decontestualizza un documento che, con tutti i suoi limiti, ebbe il merito di riflettere compiutamente sui danni del nazionalismo e sulla necessità di porvi rimedio promuovendo una federazione europea .
Luca Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi , Longanesi, Milano, pagg. 282, € 16,90

Il Sole Domenica 1.10.17
Nel nome dei fratelli Rosselli
La mostra a Milano
di R.Liu.

«Carissimo, come sempre succede è agli amici intimi che si risponde per ultimi in queste occasioni. Sono passato da una vita contemplativa a una vita talmente febbrile che non so proprio dove riparare.Avrei bisogno di un supplemento giornaliero di ore dal padre eterno», scriveva il 31 agosto 1929 Carlo Rosselli a Giuseppe Saragat da Parigi. Era approdato nella capitale francese all’inizio del mese, fuggito clamorosamente dal confino di Lipari insieme a Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti. In quello stesso anno, invece, il fratello Nello sarà condannato all’ozio forzato di Ponza (nella foto a destra), l’isolotto dal quale Carlo Pisacane era partito nel 1857 per la sfortunata spedizione antiborbonica di Sapri. Nel 1932 i due fratelli si ritroveranno temporaneamente in Francia, insieme alla madre Amelia (nella foto a sinistra). Oggi ricordata come la genitrice dei Rosselli, in verità la veneziana Amelia – nonna dell’omonima poetessa – fu una personalità di spicco nella cultura italiana del primo Novecento: apprezzata scrittrice di teatro e per l’infanzia, nonché attiva nell’associazionismo femminile. Non è un caso che le sue memorie postume, edite nel 2001 dal Mulino, siano tra i libri esposti nella Mostra documentaria intitolata L’Italia dei Rosselli, in occasione dell’80° anniversario dell’uccisione di Carlo e Nello, avvenuta a Bagnoles-de-l’Orne nel giugno 1937 per mano di fascisti francesi. Ospitata dall’Archivio di Stato di Milano e curata dalla Fondazione Circolo Fratelli Rosselli di Firenze, questa rassegna riporta alla luce i numerosi cimeli rosselliani custoditi dalla Fondazione Anna Kuliscioff di Milano, presieduta da Walter Galbusera: lettere olografe di Carlo; originali di fotografie e giornali d’epoca sul processo Bassanesi (Lugano 1930), la guerra di Spagna, Giustizia e Libertà; libri e periodici di Carlo e Nello. L’ultimo pannello espone le immagini dei loro funerali, con la folla, le bare e Aldo Garosci, in testa al corteo funebre, che regge tra le mani il cappello di Carlo Rosselli.
Archivio di Stato di Milano, via Senato 10, dall’11 al 31 ottobre

Il Sole Domenica 1.10.17
L’Italia che sedusse Pablo
Le Scuderie del Quirinale e Palazzo Barberini celebrano i cento anni del soggiorno di Picasso nel Bel Paese
di Ada Masoero

Il viaggio in Italia del 1917 fu, per Picasso, una vera epifania. Ancor prima di partire l’artista era ben consapevole che l’avventura rivoltosa del cubismo, che aveva fatto di lui una star internazionale, si andava esaurendo. Era perciò in cerca di nuova linfa. Non solo: acuto (e spregiudicato) com’era, Picasso non poteva non aver avvertito l’ostilità che ormai serpeggiava nei confronti delle battaglie avanguardiste. Ora che la guerra metteva il mondo di fronte a tante atrocità, quelle loro battaglie formali apparivano futili, sorpassate, e l’arte cercava rassicurazioni nel ritorno al reale.
L’Italia fu generosa con lui. Arrivato a Roma, con un Jean Cocteau smanioso di fama, che lo presentò come un trofeo al celebre impresario dei Ballets Russes Sergej Djagilev, perché con lui mettesse a punto il progetto per le scenografie, i costumi e il sipario del balletto Parade (ideato dallo stesso Cocteau, con musiche di Erik Satie); alloggiato in quell’angolo di paradiso che era - ed è - l’Hotel de Russie, Picasso si abbandonò alle dolcezze della vita romana, e mentre visitava i musei e i tesori della città, s’innamorava di Olga Khokhlova, la danzatrice dei Ballets Russes che l’anno successivo sarebbe diventata sua moglie. Di lì, con Cocteau e con il coreografo Léonide Massine, si sarebbe spinto a Napoli e Pompei, dove avrebbe trovato nuove e non meno potenti fonti d’ispirazione.
La mostra rigorosa e bellissima – curata da Olivier Berggruen e Anunciata von Liechtenstein per il progetto “Picasso-Méditerranée” del Musée Picasso di Parigi, e prodotta da Ales e MondoMostre Skira con le Gallerie Nazionali di Arte Antica - che a cent’anni da allora celebra a Roma quel viaggio-rivelazione, fra il centinaio di capolavori che espone, esibisce prove inconfutabili, se mai ce ne fosse ancora bisogno, di ciò che Picasso attinse qui e a Napoli: il piccolo e luminoso Deux femmes courant sur la plage (Due donne che corrono sulla spiaggia), 1922, immagine-guida della rassegna, evoca e rielabora infatti, seppure declinandola in una chiave panica e gioiosa, una drammatica figura della Stanza di Eliodoro di Raffaello in Vaticano, e la grandiosa sanguigna su tela Trois femmes à la fontaine (Tre donne alla fontana), 1921, cita visibilmente nella composizione l’affresco ercolanense Colloquio di donne, visto nel Museo Archeologico di Napoli. Si potrebbe continuare con l’affresco pompeiano di Teseo e il Minotauro (anch’esso a Napoli, di cui Picasso acquistò una riproduzione fotografica), che nella recente esposizione del Museo di Capodimonte su Parade è stato accostato a un suo dipinto del 1906, ma che è fonte evidente del giovane stante del superbo La flûte de Pan (Il flauto di Pan), 1923, mentre la figura seduta evoca nella postura delle gambe il marmo della Niobide morente, visto da Picasso a Roma.
La mostra non si sofferma però sui “prestiti” puntuali, ma pone piuttosto l’accento sull’approccio sperimentale di Picasso, che seppe intessere spunti tratti dall’arte “alta” come dalla Commedia dell’Arte o dalla vita animata delle strade popolari di Roma e Napoli: tutti stimoli che in due soli mesi lo liberarono dalle secche della crisi dell'ultimo cubismo.
E sono proprio alcune opere del tardo cubismo, tra 1914 e 1916 (con una “coda” nel 1918: Picasso amava depistare, intrecciando i suoi percorsi) ad aprire la mostra, che subito entra nel vivo dell’influenza della Commedia dell’Arte con i suoi Arlecchini dalle tante facce, anche stilistiche: uno, Arlequin et femme au collier (Arlecchino e donna con la collana), ancora cubista, vide la luce proprio a Roma nel 1917, come pure L’Italienne (in realtà una fioraia ciociara, tratta dalle cartoline che circolavano allora a Roma; ma attenzione: l’opera arriverà solo fra qualche tempo), mentre già l’anno successivo Picasso ritrarrà Olga in un celebre dipinto, come avrebbe potuto fare Ingres.
In una mostra di soli capolavori sono però le ultime due sale del primo piano gli scrigni più preziosi, quelli in cui la classicità prende il sopravvento e ci consegna un mondo “antico” sì, ma radicalmente reinventato da questo padre della modernità.
Il piano superiore riserva altri sortilegi: intorno alle bacheche con i documenti originali del viaggio in Italia, molti dei quali inediti, ritrovati proprio in occasione di questa mostra, scorrono i lavori su carta, non meno preziosi, da gustare in un percorso che richiede tempo e attenzione, sapendo che se ne sarà ripagati con abbondanza. Insieme, è esposto l’unico costume originale giunto sino a noi del balletto Parade: l’occasione del viaggio in Italia. Non poteva perciò mancare il sipario di Parade che, troppo grande per gli spazi delle Scuderie, ha trovato ospitalità nelle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo Barberini, nel Salone di Parata affrescato da Pietro da Cortona. E qui il gigantesco “telero”, con la sua neo-figurazione di tono favolistico (costumi e fondali del balletto, invece, erano ancora cubisti) può essere finalmente visto con agio: persino il salone da ballo della Reggia di Capodimonte era, infatti, insufficiente per gustarlo appieno. In esso Picasso mette in scena un omaggio appassionato a un’Italia colorata, nobile e popolare al tempo stesso -così come allora era vissuta dagli stranieri- in cui convivono le rovine classiche e la Commedia dell’Arte, la convivialità da osteria e il circo, sullo sfondo, iconico e imprescindibile, del Vesuvio.
Picasso. Tra Cubismo e Neoclassicismo 1915-1925 , Roma, Scuderie del Quirinale e Palazzo Barberini, fino al 21 gennaio 2018. Catalogo Skira

Repubblica Robinson 1.10.17
Piero Boitani
“Da quando ho iniziato a scrivere di Ulisse è come se un demone si fosse impossessato di me
Ho sentito una vibrazione emotiva fortissima”
colloquio di Antonio Gnoli,

La stessa brezza che un tempo gonfiò le vele di Ulisse ora gonfia il cuore di Piero Boitani. Un cuore messo alla prova da un recente infarto. Ora, dopo alcuni mesi, avrebbe nuovamente voglia di salpare. Ma è lì seduto comodamente in una poltrona, mentre lo guardo come si guarda un viaggiatore impigrito. La mente si muove rapida e descrive volute impossibili, perché essa è più agile e astuta di quanto non lo sia il corpo: «Compirò a novembre settant’anni», è lapidario quest’uomo che ha visto tutti gli occhi della letteratura ed è rimasto ipnotizzato solo da quelli di Ulisse. Settant’anni, una giovinezza trascorsa nella dotta ricerca e ancora il desiderio di rimettersi in cammino: «Non sono mai stato a Itaca, buffo no?». Ho visitato tutto, i ghiacci dell’Antartide, il freddo dell’Alaska, la tristezza della Patagonia ( chissà perché poi ci ostiniamo a definirla triste?), la civiltà inglese e quella argentina, un po’ più selvaggia; ho guardato sovente il cielo, forse per ritrovare l’orientamento nelle mie peregrinazioni, ho amato le stelle come ho amato mia moglie. Sì la mia esistenza è stata un insieme straordinario di esperienze. Anche nei momenti meno felici, anche nelle malattie e nei colpi insidiosi che non ti aspetti, c’è sempre stata attenzione alla vita. L’infarto è stato qualcosa che non mi aspettavo, giunto all’improvviso ».
Cosa ha provato in quel preciso momento?
« Non me ne sono del tutto reso conto, i sintomi erano diversi dai soliti. Avvertivo una difficoltà all’esofago e non riuscivo a deglutire. Al pronto soccorso il cardiologo ha pronunciato la parola “ infarto”. Sono stato trattenuto in terapia intensiva e dopo qualche giorno rispedito a casa. Le prescrizioni, le medicine, i consigli. La gente che ti è vicina e ti guarda come se improvvisamente fossi un’altra persona e in un certo senso lo sei. Lo diventi».
Cosa cambia?
«È come dopo il passaggio di una nave. Resta il solco dell’onda, il sommovimento, l’agitazione del mare e sei lì che magari attendi il ritorno della calma o il passaggio del prossimo cargo».
Come chiamerebbe tutto questo?
«Una forma di riconoscimento. Di rivelazione. Ciò che i greci intendevano con la parola agnizione. Ma un’agnizione rivolta verso sé stessi più che verso gli altri».
Proprio sul riconoscimento ricordo un suo libro prodigioso di qualche anno fa.
«Impiegai trent’anni a scriverlo».
Perché così tanto tempo?
« Ci sono libri che sospendono la vita di uno studioso. Come entrare in un mondo parallelo. La mia ambizione era fare per il tema del riconoscimento ciò che Erich Auerbach aveva realizzato con Mimesis. Ero a Cambridge allora, nel 1983. Fu tra le pagine della Poetica di Aristotele che scoprii l’idea del riconoscimento nel passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, non come esercizio astratto ma come esperienza vissuta con speciale empatia. La letteratura è piena di luoghi e situazioni in cui il riconoscimento ha una funzione vitale».
Che ricordo ha di Cambridge?
« Era un luogo dove potevi incrociarti con le intelligenze più sorprendenti. Tra gli altri c’era Terence Cave, che poi avrebbe a lungo insegnato a Oxford. Scoprii che stava lavorando al mio stesso argomento. Succede che due studiosi indipendentemente l’udi no dall’altro si trovino ad affrontare il medesimo tema».
Come reagì?
« All’inizio con una comprensibile punta di fastidio. Poi mi lasciai assorbire dalle mie ricerche. Cave completò il lavoro prima di me. Come ho detto ho impiegato trent’anni a portare a termine questo libro che intitolai Riconoscere è un dio ( Einaudi). A Cambridge mi capitava di incontrare George Steiner, il quale è stato spesso un punto di riferimento per le intuizioni geniali che hanno contraddistinto il suo lavoro. Gli sono grato, anche se a volte si lasciava prendere la mano».
In che senso?
«Come se il gioco della scrittura e del pensiero anticipassero e travolgessero la conoscenza effettiva. Ricordo che una volta a proposito di Antigone — un libro davvero bellissimo — gli dissi che aveva inventato di sana pianta un episodio che non c’era. E lui che è anche spiritoso rispose che a volte invenzione e creazione sono il passaporto per l’eternità».
Forse pensava a Omero.
«Chissà, resta un uomo geniale e generoso. Recensì molto favorevolmente sul Times Literary Supplement il mio libro di qualche anno fa Il grande racconto delle stelle ».
Anche in quel libro traspariva il tema del riconoscimento: il modo in cui gli uomini si sono di volta in volta riconosciuti con il cielo.
« Un riconoscimento che produceva meraviglia. Intrapresi quella fatica chiedendomi che cosa univa gli scienziati ai poeti e ai filosofi. E la parola che li teneva assieme era appunto lo stupore. Lo stupore di cui parlano (o vivono) Odisseo e Leopardi. Keplero e Kant, Dante e Einstein, Galileo e Benjamin. Quest’ultimo visitava spesso il planetario di Berlino e di Parigi e colse, in tutta la sua drammaticità, la frattura tra gli antichi e i moderni nel loro rapporto con il cosmo. In altre parole il cielo non aveva più nessun rapporto con le forze vitali del cosmo».
Con quali conseguenze?
«Nella sua visione apocalittica, Benjamin ammonì l’aberrazione di noi moderni per aver ridotto il nostro manto luminoso alla mera contemplazione di una bella notte stellata. Cioè a una pura emozione soggettiva. Ignorando le conseguenze distruttive che i sofisticati materiali tecnici (dal telescopio ai voli) avrebbero prodotto nella progressiva conquista del cielo».
In fondo la conquista dello spazio ha inizio proprio con Ulisse che usa il cielo per orientarsi sul mare.
«Lo sguardo che Ulisse rivolge al cielo non è contemplativo, non avrà nulla di ciò che spingerà Leopardi a parlare di “ vaghe stelle dell’Orsa”. Egli ha una visione strumentale. Del resto, è Calipso a suggerirgli che deve seguire la rotta tenendo costantemente a sinistra il Grande Carro. Però lo sguardo di Ulisse è ancora rivolto al cosmo arcaico. È ancora troppo presto per parlare di visione astronomica del cielo».
A proposito del cielo è giusto dire che la sua unica stella fissa sia ancora oggi Odisseo? Cosa è stato un’ossessione, un bisogno intellettuale, una folgorazione o cosa?
«Forse tutte questi motivi che lei ha elencato. Avevo otto anni quando uno zio mi regalò Il romanzo di Ulisse, un libro ricco di illustrazioni nel quale si raccontava la storia dell’Odissea. Mi catturò quel personaggio che condensava in sé intelligenza e astuzia e che, finita la guerra, volle tornare a casa, patendo, rischiando e amando. La sera, in casa della nonna, sognavo le sue gesta guerresche. Mi immedesimavo in quell’uomo astuto che aveva la meglio sui “ bestioni”. E nei sogni mi vedevo come lui: un abile combattente e un perfetto giramondo».
Non ha dunque mai abbandonato questa identificazione?
«Crescendo ho compreso altre cose dell’eroe dalle mille sfaccettature ».
Non c’è qualcosa di eccessivamente costrittivo in questo legame?
«Forse, ma lo stimolo intellettuale che ne ho ricavato è stato enorme. Vede, c’è una tensione inspiegabile: ma quando ho cominciato a scrivere su Ulisse ho sentito una vibrazione emotiva fortissima. Come se un demone si fosse impossessato di me».
Si può chiamare il fascino dell’eroe?
«Eroi ne troviamo nell’Iliade, ma il piacere che ci trasmettono è più che altro epidermico. Anche Achille è un eroe. Ma la sua forza, il suo furore guerriero sono una cosa ben diversa. Ulisse è il primo uomo moderno dell’antichità. Questo gli ha dato una forma speciale di immortalità: la forza o forse il dono di attraversare e imporsi tra le culture più diverse. Quando terminai l’università, verso la metà degli anni Sessanta, decisi di intraprendere una serie di viaggi. Trascorsi un periodo in America e in seguito approdai in Inghilterra dove preparai il mio dottorato».
Su quale argomento?
« Su Chaucer e Boccaccio. Ero ancora a Cambridge quando, nell’autunno del 1971, venne il più grande studioso di Joyce, Richard Ellmann per una conferenza sull’Ulisse. Fu in quegli anni che cominciai a raccogliere le mie conoscenze attorno a Odisseo, a percepire i mille intrecci che si era creati nel corso della storia culturale: da Dante a Eliot».
Lei con chi ha studiato?
«Mi sono laureato a Roma con Agostino Lombardo. L’anglistica godeva allora di un prestigio assoluto, grazie anche al ruolo che vi aveva giocato un personaggio straordinario come Mario Praz».
Lo ha conosciuto?
«Piuttosto bene. Era un uomo apparentemente bizzarro ma in realtà avvolto da una singolare malinconia. Non priva di punte di vanità. Che del resto si giustificavano vista la statura del personaggio. Ricordo che dall’Inghilterra gli telefonai annunciandogli che stavo lavorando su Chaucer e gli italiani. Mi lasciò parlare, poi con una punta di ironia disse: ma lei Boitani crede che ci sia ancora qualcosa da aggiungere dopo il mio saggio? Lo aveva pubblicato nel 1936!».
L’ironia era in lui una forma di difesa, anche dalle tante illazioni che circolavano sulla sua fama sinistra.
«Non so cosa dire, il tutto sapeva molto di leggenda. Però l’ultima volta che lo vidi accadde un episodio piuttosto buffo».
Ce lo racconti.
«Eravamo nella sede del British Council dove si presentava un libro importante. Era presente tutto lo stato maggiore dell’anglistica. Si mormorava che sarebbe venuto anche Praz. Per cui nessuno aveva il coraggio di iniziare. Fece la sua apparizione e si andò a sedere su una poltroncina esterna. Io restai in piedi accanto a lui. Finalmente cominciammo. Parlò l’ambasciatore, il direttore del British e venne il turno del presentatore, che fece un apprezzamento sul bel colore della copertina verde smeraldo. Praz, in modo che tutti lo sentissero, lo corresse ad alta voce: non smeraldo, verde pisello! In quel preciso istante il cameriere franò con tutto il vassoio e i relativi bicchieri. Coincidenze?».
Lei che pensa?
« Non ho mai capito quanto una fama del genere lo facesse soffrire o quanto si divertisse. Per me resta una delle massime espressioni della cultura europea. Credo di aver studiato in un periodo in cui abbondavano i maestri veri. Oltre a Praz ricordo le presenze straordinarie di Santo Mazzarino, Giovanni Macchia, Angelo Maria Ripellino. Fu un concentrato di intelligenze e di erudizione mai banale».
Tra un po’ le toccherà lasciare l’università. Con che spirito andrà via?
«L’università è ormai ridotta malissimo. Me ne vado senza rimpianti. Continuerò probabilmente a insegnare a Lugano».
Che cosa ha la civiltà inglese che noi non abbiamo?
«Ha le forme, che non sono irrilevanti nei legami sociali. Prima della Brexit ho amato quasi tutto di quel mondo, perfino la pioggia e la banalità di certe convenzioni. Per quattro anni ho insegnato a Cambridge e credo di aver abbastanza capito le solide strutture di quella civiltà».
C’è un personaggio con cui ha particolarmente legato?
«Sono tanti, ma quello con cui profonda è stata la stima e l’amicizia è Frank Kermode, scrisse un magnifico libro: Il senso della fine ».
Un sentimento che ormai ci avvinghia tutti. Lei come lo percepisce?
«Provo a non pensarci, ma resta l’inquietudine. Per tutta la vita ho sentito questo stato di elettrizzante precarietà».
Elettrizzante?
« Da tantissimi anni soffro di una sindrome abbastanza rara, e ha un titolo buffo: “ la gamba senza riposo”. Per cui in certi momenti avverto l’impulso a muoverle entrambe. È la ragione per cui non sempre posso decidere di andare al cinema o a teatro oppure se devo assistere a una conferenza siedo indietro sulla fila esterna».
E quando dorme?
«Dormo poco. Ho preso l’abitudine di andare a letto molto tardi ».
Come ha reagito a questa sindrome?
« Curandola e vedendola come una sorta di singolare metafora ».
Allude all’irrequietezza di Ulisse?
«Diciamo che un buon critico deve essere irrequieto, impuro, cioè fare tante cose, insolito ossia percorrere strade non tracciate da altri».
Non c’è un limite dettato dall’età?
«Certo è difficile essere Ulisse da vecchi. E non possiamo a un certo punto della nostra vita non contemplare la nostra esigua mortalità. Sarà uno shock? Non lo so. Fu proprio Eliot a dire che invecchiando non dovremmo cessare mai di esplorare il mondo che ci è appartenuto. Potremo considerare concluso quel percorso solo scoprendo ciò che non avevamo visto quando partimmo più giovani».