il manifesto 18.10.17
Dietro quei dati sugli stupri
Violenza
maschile contro le donne. Le statistiche e le rappresentazioni.
Un’emergenza agitata per alimentare l’odio e nascondere il vero problema
di Stefano Ciccone
La
violenza maschile contro le donne è al centro dell’attenzione:
spettacolarizzata, offerta allo sguardo voyeuristico sulla sofferenza
delle vittime o delle famiglie. Una rincorsa pornografica in cerca del
frammento di orrore o dell’effetto commozione.
L’emergenza
violenza è agitata per alimentare l’odio e l’intolleranza che crescono
nel paese e che il governo insegue e riproduce. Lo stupro di Rimini è
stata l’occasione per questa campagna inciampata poi sulla violenza da
parte dei due carabinieri, fino alla ragazzina cinese aggredita da un
italiano a Milano.
In questo contesto i dati del Viminale sulle
denunce per violenza sessuale, per cui il 60% delle violenze denunciate
sarebbe ad opera di italiani e il 40% ad opera di «stranieri» pur
essendo questi minoranza, sono stati impugnati, purtroppo, non solo
dalla destra.
IL FEMMINISMO E LA SINISTRA sono stati accusati di
essere troppo titubanti nel condannare la violenza degli stranieri per
un «politicamente corretto» ipocrita. L’alternativa sarebbe
un’intransigenza che sulla violenza sulle donne «non guarda in faccia
nessuno»? In realtà è perfettamente l’opposto: l’allarme sociale sulla
violenza, ridotto a emergenza di ordine pubblico, a frutto di
un’invasione di altre culture, non solo alimenta la xenofobia, ma ha il
risultato di marginalizzare e rimuovere il fenomeno. Più si rappresenta
la violenza come emergenza più la si può considerare estranea alla
nostra «normalità», come un’alluvione: il segno di una pazzia, di una
barbarie da allontanare e non un problema che riguarda la nostra
società, la nostra cultura. E così, dopo la nostra dose di orrore,
commozione o indignazione, possiamo passare ad altro tranquillizzati.
Noi uomini italiani possiamo metterci l’animo in pace: non c’è bisogno
di metterci in discussione, non c’è nulla da cambiare nelle relazioni
tra i sessi, nel nostro immaginario, nella nostra sessualità: basta
delegare alle forze dell’ordine.
Che significatività statistica
hanno i dati forniti? Lo stesso Viminale afferma che si tratta solo del
7% delle violenze avvenute: il 93% non viene denunciato. La parte
conosciuta e quella sommersa sono omogenee ed equivalenti per cui la
prima è rappresentativa della seconda? È evidentemente più facile
denunciare la violenza di un aggressore sconosciuto che non quella di un
datore di lavoro, un parente o un’autorità religiosa. Gli stessi dati
del Viminale mostrano che il numero di stranieri nel nostro paese è
aumentato ma la percentuale di stupri operati da questi è diminuito. Che
significato avrebbe questo dato? Che aumentando il numero degli
stranieri diminuisce la loro propensione alla violenza? In realtà si
tratta di numeri così parziali da avere una scarsa attendibilità e
un’oscillazione casuale non significativa.
LA CATEGORIA
«STRANIERI», poi, è stata da tutti letta come «immigrati provenienti
dall’Africa, dal sud, neri, arabi». In realtà gli stessi dati ci dicono
il contrario: la categoria comprende, come è ovvio, belgi, statunitensi,
cinesi, australiani, libici, siriani, norvegesi… e la frequenza delle
violenze è proporzionale alla numerosità delle comunità presenti. Anzi:
anche se l’emigrazione dalla Germania o dalla Siria verso l’Italia non
hanno le stesse dimensioni le violenze ad opera di tedeschi sono il
doppio di quelle commesse da siriani.
Già Saporiti, sul Sole24ore
del 17 settembre, mostra, confrontando la numerosità dei residenti
italiani e dei residenti stranieri con la numerosità dei detenuti per
reati sessuali, come i dati siano travisati. Studi come quelli di Elisa
Giomi dell’Università di Roma 3, mostrano che la realtà è esattamente
l’opposto: i casi di violenza ad opera di stranieri vengono riportati
dai media 7 volte di più di quelli ad opera di italiani.
Tornando
al Viminale, e dunque non ai detenuti ma alle denunce, il risultato non
cambia. 25 sono gli autori di stupro dell’Europa dell’ovest, 5 del nord
America, 110 del sud e centro America, 173 dall’Asia. La nazionalità
cinese, in genere in ombra, mostra 17 autori, il doppio della repubblica
serba e più di cinque volte dei libici. Gli autori di stupro
provenienti dai circa 50 stati dell’Africa sub sahariana sono 203, il
12,7 %, quelli provenienti dal Maghreb 330, poco meno del 21%.
Ma,
soprattutto, le vittime, che nella percezione della notizia sarebbero
tutte italiane, corrispondono di nuovo a tutte le comunità. L’immagine
di immigrati sbarcati sulle nostre coste che violentano le donne
italiane non ha dunque corrispondenza statistica. Come diciamo da venti
anni la violenza non può essere attribuita a una nazionalità, a una
cultura o a un livello sociale: è opera di parenti, amici e colleghi.
Le
1.539 denunce per stupro sono, inoltre, solo una piccola parte dei
reati che riguardano la violenza maschile (lo stalking, le percosse, le
uccisioni…). Sulle uccisioni i dati ci dicono che gli italiani sono la
stragrande maggioranza.
I NUMERI, dunque non giustificano la
strumentalizzazione xenofoba della violenza. Ma la cultura securitaria e
razzista che militarizza le nostre città non è solo contro gli
immigrati, è contro le donne. La riproposizione di una società chiusa,
anche se usa il rispetto delle donne come valore contro altre culture è
nemica della libertà femminile. Lo stesso vale per la lettura dei
diritti delle persone omosessuali in funzione islamofoba. La
rappresentazione di una contesa tra uomini con le donne poste sotto
tutela e protezione maschile è linearmente connessa con un ruolo di
potere. Le donne e i minori posti sotto quella l’autorità paterna che,
fino al 1975, esercitava l’uso dei mezzi di correzione anche sulla
moglie.
Ma possiamo negare le differenze tra culture? Certamente
no. Eppure i media, come abbiamo visto, mescolano paesi africani
islamici, cristiani e animisti.
Se la violenza è trasversale, la
condizione di segregazione coatta, di isolamento ed esclusione
contribuisce a produrre comportamenti violenti. Le politiche di
inclusione, di ricongiungimento familiare, di recupero di condizioni di
vita e relazionali umane contrastano la violenza più di politiche che
accrescono la marginalità.
Sarebbe poi opportuno cogliere, con le
differenze esistenti, gli elementi che attraversano culture
rappresentate come incompatibili: la rimozione sociale del desiderio
femminile, la tendenza a normare i corpi femminili, la rappresentazione
di uno sguardo e un desiderio maschili che «consumano», violano e
degradano e che porta o a coprire i corpi femminili o a esporli come
merce.
E sarebbe opportuno riconoscere le differenti «culture» non
come entità omogene e costanti nel tempo: l’irrigidimento integralista
nelle diverse comunità islamiche non come residuo del passato ma moderna
risposta politico identitaria, i conflitti agiti dalle donne nelle
società non occidentali, la distinzione tra tradizioni culturali e
dettami religiosi.
Ma l’obiezione ricorrente è: «va bene ci sarà
anche la violenza degli italiani, ma intanto cominciamo col non far
entrare altri stupratori…». In questo avverbio: «intanto», si nasconde
l’ipocrisia della retorica xenofoba: rimandiamo la violenza contro le
donne al momento remoto in cui avremo chiuso le frontiere e espulso
l’ultimo «straniero», nel frattempo parliamo d’altro.