il manifesto 13.10.17
Gli Usa e Israele lasciano l’Unesco
Nazioni
unite. Tillerson accusa: organizzazione anti-israeliana. Dal 2011, dopo
l'entrata della Palestina, Washington non pagava la quota. L'uscita è
per il 2018, gli usa restano come "osservatori". L'elezione del nuovo
direttore generale, battaglia finale Qatar-Francia
di Anna Maria Merlo
PARIGI
Gli Stati uniti lasciano l’Unesco. Il segretario di stato, Rex
Tillerson, l’ha annunciato ieri all’organizzazione dell’Onu per
l’educazione, la scienza e la cultura che ha sede a Parigi: «La
decisione non è stata presa alla leggera», «riflette le preoccupazioni
Usa», che accusano l’Unesco di pregiudizi «anti-israeliani».
È dal
2011, del resto, che gli Usa (e Israele) non pagano più la loro quota
all’Unesco, una decisione che aveva fatto seguito all’entrata della
Palestina nell’organizzazione. L’ultimo episodio contestato dagli Usa è
la decisione di qualche mese fa di inserire la città palestinese di
Hebron nel «patrimonio mondiale dell’umanità» perché considerata «un
valore universale in pericolo»: l’ambasciatore israeliano all’Unesco
aveva commentato questa scelta come «la più disonorevole” della storia
dell’organizzazione (Hebron, a sud di Gerusalemme, è situata in
Cisgiordania e il centro è occupato da Israele dal ’97). Ieri, Israele
si è rallegrato per «l’inizio di una nuova era».
L’annuncio del
ritiro degli Stati uniti, che sarà operativo dal 31 dicembre 2018 – ma
Washinton vuole conservare uno statuto di «osservatore» – è arrivato a
poche ore dall’elezione del nuovo direttore generale, che succederà alla
bulgara Irina Bokova, che conclude due mandati alla testa dell’Unesco.
Il rifiuto di versare le quote Usa del 2011 ha fatto crollare l’Unesco
in una grave crisi economica ma anche politica (Washington contribuiva
per un quarto del budget) e ora il 40% è coperto dalla Ue e dai suoi
stati membri (la Gran Bretagna non ha ancora pagato la quota 2017, come
il Giappone e il Brasile).
Irina Bokova si è detta ieri
«profondamente dispiaciuta» per la decisione dell’amministrazione Trump.
La direttrice generale ha ricordato che «l’universalità è essenziale
alla missione dell’Unesco per costruire la pace e la sicurezza
internazionali di fronte all’odio e alla violenza, per la difesa dei
diritti umani e della dignità umana». Irina Bokova ha ricordato le
parole del poeta e diplomatico statunitense, Archibald MacLeich, riprese
nella Costituzione dell’Unesco nel ’45: «Le guerre nascono nella mente
degli uomini, è nella mente degli uomini che devono costruirsi le difese
della pace». Bokova ha anche ricordato il contributo dato dagli Usa per
la Convenzione sul patrimonio mondiale del ’72.
L’Unesco è in
crisi e la difficoltà dell’elezione del successore di Irina Bokova lo
dimostra. I 58 paesi del consiglio esecutivo erano ieri al quarto voto:
in testa ci sono il candidato del Qatar, Hamad Al-Kawari, 69 anni, e la
francese Audrey Azoulay, 45 anni, che è stata ministra della Cultura con
Hollande. I paesi arabi affermano che è arrivato il momento per
accedere alla direzione generale, dopo che la carica dal ’45 a oggi è
stata occupata da europei, americani, un asiatico e un africano.
Ma
i paesi arabi non sono riusciti a mettersi d’accordo su un nome. La
candidata più quotata sembrava l’egiziana Moushira Khattab, 73 anni, ex
ministra di Hosni Moubarak, ma è stata distanziata ai primi turni del
voto. Anche l’Iraq e il Libano presentano un candidato, mentre Audrey
Azoulay puo’ far valere che suo padre era marocchino, consigliere del re
Hassan II. Il Qatar ha fatto un’importante operazione di lobbying,
spendendo molto denaro in inviti, viaggi pagati ecc. Contro Azoulay
viene sbandierata la legge non scritta che il paese ospite della sede –
la Francia – non puo’ avere il direttore generale (ma un francese è già
stato alla testa dell’Unesco dal ’59 al ‘74). I 195 paesi membri
confermeranno il risultato dell’elezione del nuovo direttore generale il
10 novembre prossimo.
L’Unesco ha 2mila dipendenti, la metà a Parigi, con un budget annuale intorno ai 326 milioni di euro.