il manifesto 13.10.17
Gli Usa lasciano l’Unesco: «Troppi pregiudizi anti-israeliani»
Decisione
choc dell'amministrazione Trump. Washington aveva già cancellato i suoi
contributi economici dal 2011. Sgradita la sempre migliore accoglienza
riservata dall'agenzia Onu alla Palestina
di Marina Catucci
Il
Dipartimento di Stato americano, citando come motivazione dei
“pregiudizi anti Israele”, ha dichiarato che gli Stati Uniti il 31
dicembre 2018 usciranno dall’Unesco, l’agenzia dell’ONU con sede a
Parigi che si occupa di promuovere la pace tra le nazioni attraverso la
scienza e la cultura.
Gli Usa, ha specificato la portavoce del
Dipartimento di Stato americano, Heather Nauert , diventeranno
osservatori permanenti dell’agenzia, ma senza parteciparvi, in quanto
l’Unesco “ha bisogno di essere essere riformata”.
Questa posizione
dell’amministrazione Trump segue un raffreddamento dei rapporti che
risale al 2011, quando gli Usa, a seguito del voto con cui la Palestina è
stata ammessa come stato membro, decise di non finanziare più l’Unesco,
ma a portare alla rottura odierna sono state delle decisioni del Luglio
scorso, quando l’Unesco ha negato la sovranità di Israele sulla città
di Gerusalemme vecchia e Gerusalemme est.
Durante il vertice di
Cracovia l’agenzia aveva dichiarato Israele una “potenza occupante” ed
aveva riconosciuto quale patrimonio dell’umanità il sito della tomba dei
Patriarchi a Hebron, definito tuttavia sito palestinese, decisione che
non era piaciuta per niente al premier israeliano Benjamin Netanyahu che
tuttavia, a differenza dagli Stati Uniti che lo appoggiano, è rimasto
all’interno dell’Unesco.
Stando a quanto scritto da Foreign
Policy, la motivazione principale della decisione statunitense, è la
volontà degli Usa di risparmiare, in quanto anche dopo avere abolito i
finanziamenti, avevano comunque dovuto rispondere alle richieste
dell’Unesco su i fondi dovuti, che in sei anni sono ammontati ad oltre
500 milioni di dollari.
L’Unesco ha definito questa scelta
americana “una perdita per la famiglia delle Nazioni Unite e per il
multilateralismo”, e qua c’è proprio uno dei punti chiave in quanto
questa decisione è in linea con la piega isolazionista e protezionista
dell’amministrazione Trump, che va nella direzione opposta a quella
dell’apertura e della collaborazione auspicata dall’Onu.
La
“grande America” di Trump è un concetto novecentesco che prevede una
guerra più o meno fredda con una qualche potenza esterna dipinta come
naturalmente demoniaca, e un isolamento economico senza concessioni.
Questa
visione è confermata in queste stesse ore dall’arrivo a Washington del
premier canadese Justin Trudeau, in Usa per partecipare al quarto round
di trattative sul Nafta, l’accordo nordamericano per il libero scambio,
la cui sorte è messa in dubbio da Trump; “Vediamo, è possibile che non
arriveremo a un accordo oppure sì”, ha detto Trump. Alla domanda di un
giornalista sulla possibilità di un accordo soltanto con il Canada il
presidente statunitense ha risposto di sì.
Tra le richieste
americane ci sono nuove clausole per inserire quote minime sui prodotti
di fattura statunitense e l’introduzione di un termine di chiusura entro
i prossimi 5 anni, se uno Stato non dovesse più ritenere utile restare
nell’accordo.
La riunione ha in agenda anche il tema spinoso delle
esportazioni agricole messicane verso gli Usa, oltre al probabile
braccio di ferro con il Canada. La delegazione di negoziatori Usa
cercherà l’affondo sui regolamenti del settore dei latticini canadesi,
tutelato ma mai entrato a far parte degli accordi di libero scambio.