venerdì 13 ottobre 2017

il manifesto 13.10.17
No all’estradizione del prete pedofilo
Vaticano/Canada. La Santa sede non rimuove l'immunità diplomatica a monsignor Carlo Alberto Capella, funzionario della nunziatura apostolica di Washington, ricercato dalle autorità canadesi per detenzione e diffusione di materiale pedopornografico
di Luca Kocci

La “tolleranza zero” di papa Francesco contro la pedofilia del clero inciampa sull’immunità diplomatica. Non verrà estradato in Canada monsignor Carlo Alberto Capella, funzionario della nunziatura apostolica di Washington (l’ambasciata vaticana in Usa), nei confronti del quale le autorità canadesi hanno emesso un ordine di arresto per il reato – che sarebbe stato commesso in Canada – di detenzione e diffusione di materiale pedopornografico.
Il direttore della sala stampa della Santa sede, Greg Burke, puntualizza che ancora «non c’è alcuna richiesta di estradizione arrivata dal Canada». Ma l’agenzia Ansa riferisce di aver appreso «da fonti qualificate» che, quando giungerà, il Vaticano la respingerà, opponendo l’immunità diplomatica di cui gode il funzionario di Oltretevere.
Il caso è venuto alla luce questa estate. Il 21 agosto il Dipartimento di Stato Usa ha notificato alla Santa sede l’ipotesi di violazione delle norme in materia di immagini pedopornografiche da parte di mons. Capella, chiedendo contestualmente al Vaticano di rimuovere l’immunità diplomatica. Richiesta respinta dalla Santa sede, che invece ha immediatamente richiamato a Roma il proprio funzionario e affidato le indagini al promotore di giustizia del tribunale vaticano (una sorta di pm), Gian Piero Milano. Subito dopo si è mossa anche la polizia canadese.
L’inchiesta vaticana «richiede collaborazione internazionale e non è ancora terminata», precisa Burke. Se rinviato a giudizio, Capella – che ora risiede in un appartamento nel Collegio dei penitenzieri, lo stesso di mons. Wesolowski, nunzio a Santo Domingo, morto di infarto pochi giorni prima che in Vaticano cominciasse il suo processo per pedofilia – verrebbe processato dentro le mura leonine e non nello Stato in cui ha commesso il reato. E questo, in molti casi, resta il punto debole della sbandierata fermezza vaticana contro la pedofilia.

il manifesto 13.10.17
Gli Usa e Israele lasciano l’Unesco
Nazioni unite. Tillerson accusa: organizzazione anti-israeliana. Dal 2011, dopo l'entrata della Palestina, Washington non pagava la quota. L'uscita è per il 2018, gli usa restano come "osservatori". L'elezione del nuovo direttore generale, battaglia finale Qatar-Francia
di Anna Maria Merlo

PARIGI Gli Stati uniti lasciano l’Unesco. Il segretario di stato, Rex Tillerson, l’ha annunciato ieri all’organizzazione dell’Onu per l’educazione, la scienza e la cultura che ha sede a Parigi: «La decisione non è stata presa alla leggera», «riflette le preoccupazioni Usa», che accusano l’Unesco di pregiudizi «anti-israeliani».
È dal 2011, del resto, che gli Usa (e Israele) non pagano più la loro quota all’Unesco, una decisione che aveva fatto seguito all’entrata della Palestina nell’organizzazione. L’ultimo episodio contestato dagli Usa è la decisione di qualche mese fa di inserire la città palestinese di Hebron nel «patrimonio mondiale dell’umanità» perché considerata «un valore universale in pericolo»: l’ambasciatore israeliano all’Unesco aveva commentato questa scelta come «la più disonorevole” della storia dell’organizzazione (Hebron, a sud di Gerusalemme, è situata in Cisgiordania e il centro è occupato da Israele dal ’97). Ieri, Israele si è rallegrato per «l’inizio di una nuova era».
L’annuncio del ritiro degli Stati uniti, che sarà operativo dal 31 dicembre 2018 – ma Washinton vuole conservare uno statuto di «osservatore» – è arrivato a poche ore dall’elezione del nuovo direttore generale, che succederà alla bulgara Irina Bokova, che conclude due mandati alla testa dell’Unesco. Il rifiuto di versare le quote Usa del 2011 ha fatto crollare l’Unesco in una grave crisi economica ma anche politica (Washington contribuiva per un quarto del budget) e ora il 40% è coperto dalla Ue e dai suoi stati membri (la Gran Bretagna non ha ancora pagato la quota 2017, come il Giappone e il Brasile).
Irina Bokova si è detta ieri «profondamente dispiaciuta» per la decisione dell’amministrazione Trump. La direttrice generale ha ricordato che «l’universalità è essenziale alla missione dell’Unesco per costruire la pace e la sicurezza internazionali di fronte all’odio e alla violenza, per la difesa dei diritti umani e della dignità umana». Irina Bokova ha ricordato le parole del poeta e diplomatico statunitense, Archibald MacLeich, riprese nella Costituzione dell’Unesco nel ’45: «Le guerre nascono nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che devono costruirsi le difese della pace». Bokova ha anche ricordato il contributo dato dagli Usa per la Convenzione sul patrimonio mondiale del ’72.
L’Unesco è in crisi e la difficoltà dell’elezione del successore di Irina Bokova lo dimostra. I 58 paesi del consiglio esecutivo erano ieri al quarto voto: in testa ci sono il candidato del Qatar, Hamad Al-Kawari, 69 anni, e la francese Audrey Azoulay, 45 anni, che è stata ministra della Cultura con Hollande. I paesi arabi affermano che è arrivato il momento per accedere alla direzione generale, dopo che la carica dal ’45 a oggi è stata occupata da europei, americani, un asiatico e un africano.
Ma i paesi arabi non sono riusciti a mettersi d’accordo su un nome. La candidata più quotata sembrava l’egiziana Moushira Khattab, 73 anni, ex ministra di Hosni Moubarak, ma è stata distanziata ai primi turni del voto. Anche l’Iraq e il Libano presentano un candidato, mentre Audrey Azoulay puo’ far valere che suo padre era marocchino, consigliere del re Hassan II. Il Qatar ha fatto un’importante operazione di lobbying, spendendo molto denaro in inviti, viaggi pagati ecc. Contro Azoulay viene sbandierata la legge non scritta che il paese ospite della sede – la Francia – non puo’ avere il direttore generale (ma un francese è già stato alla testa dell’Unesco dal ’59 al ‘74). I 195 paesi membri confermeranno il risultato dell’elezione del nuovo direttore generale il 10 novembre prossimo.
L’Unesco ha 2mila dipendenti, la metà a Parigi, con un budget annuale intorno ai 326 milioni di euro.

Repubblica 13.10.17
Lo strappo. Fuori anche dall’Unesco l’America di Trump viaggia sempre più sola
Dopo il no agli accordi sul clima e ai trattati commerciali, gli Usa abbandonano l’agenzia culturale dell’Onu
di Federico Rampini

NEW YORK. Gli Stati Uniti lasciano l’Unesco, l’agenzia Onu che si occupa di cultura, istruzione, tutela del patrimonio dell’umanità. Come 33 anni fa ai tempi di Ronald Reagan, di nuovo una presidenza repubblicana fa il gesto clamoroso di andarsene sbattendo la porta, e tagliando i fondi all’organizzazione con sede a Parigi. Se Reagan nel 1984 accusò l’Unesco di essere antiamericana e filosovietica, Donald Trump le rimprovera di essere antisraeliana e filopalestinese. Subito dopo l’annuncio di Washington, Benjamin Netanyahu dichiara che anche Israele abbandona l’organizzazione. L’uscita degli Stati Uniti è la più pesante anche per le conseguenze economiche: sulla carta gli americani pagano un quinto di tutto il bilancio.
In realtà i loro contributi erano già stati congelati da Barack Obama, dal 2011. Stavolta infatti — a differenza di altre scelte — la drastica mossa di Trump non è una rottura completa rispetto a chi lo ha preceduto. Anche Obama fu in disaccordo con l’Unesco quando questa decise a larga maggioranza di ammettere la Palestina come uno Stato membro (avvenne sei anni fa, Usa e Israele furono tra i 14 voti contrari su 194). Obama sosteneva il principio di un futuro Stato indipendente per la Palestina, tuttavia considerava questo come uno sbocco da raggiungere attraverso negoziati di pace, e disapprovava il riconoscimento della Palestina da parte degli organismi internazionali. Trump ci aggiunge di suo una spiccata ostilità verso ogni organizzazione sovranazionale e verso i principi del multilateralismo. La sua campagna elettorale di un anno fa con lo slogan “America First” esprimeva la profonda diffidenza del popolo di destra verso ogni cessione di sovranità, l’aspirazione a tornare pienamente padroni del proprio destino, una rivalutazione del nazionalismo. Prima di uscire dall’Unesco, questo presidente ha già annunciato l’intenzione di abbandonare gli accordi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico, ha ripudiato il trattato di libero scambio con l’Asia-Pacifico (Tpp), e sta accelerando un negoziato per la modifica del mercato unico nordamericano (Nafta) che potrebbe concludersi anche con un suo smantellamento. In occasione dell’ultima assemblea generale Onu ha tagliato i contributi Usa al Palazzo di Vetro.
La direttrice generale dell’Unesco, Irina Bokova, ha colto la sostanza della nuova linea ideologica americana nel suo commento: «Questa è una perdita per il multilateralismo ». La Bokova ha anche espresso rammarico perché «in una fase in cui i conflitti lacerano le società in tutto il mondo, gli Stati Uniti abbandonano un’organizzazione che promuove l’istruzione e la cultura della pace, e protegge patrimoni culturali aggrediti». L’Unesco fu voluta dagli stessi americani, in particolare Franklin ed Eleanor Roosevelt, alla fine della seconda guerra mondiale.

il manifesto 13.10.17
Gli Usa lasciano l’Unesco: «Troppi pregiudizi anti-israeliani»
Decisione choc dell'amministrazione Trump. Washington aveva già cancellato i suoi contributi economici dal 2011. Sgradita la sempre migliore accoglienza riservata dall'agenzia Onu alla Palestina
di Marina Catucci

Il Dipartimento di Stato americano, citando come motivazione dei “pregiudizi anti Israele”, ha dichiarato che gli Stati Uniti il 31 dicembre 2018 usciranno dall’Unesco, l’agenzia dell’ONU con sede a Parigi che si occupa di promuovere la pace tra le nazioni attraverso la scienza e la cultura.
Gli Usa, ha specificato la portavoce del Dipartimento di Stato americano, Heather Nauert , diventeranno osservatori permanenti dell’agenzia, ma senza parteciparvi, in quanto l’Unesco “ha bisogno di essere essere riformata”.
Questa posizione dell’amministrazione Trump segue un raffreddamento dei rapporti che risale al 2011, quando gli Usa, a seguito del voto con cui la Palestina è stata ammessa come stato membro, decise di non finanziare più l’Unesco, ma a portare alla rottura odierna sono state delle decisioni del Luglio scorso, quando l’Unesco ha negato la sovranità di Israele sulla città di Gerusalemme vecchia e Gerusalemme est.
Durante il vertice di Cracovia l’agenzia aveva dichiarato Israele una “potenza occupante” ed aveva riconosciuto quale patrimonio dell’umanità il sito della tomba dei Patriarchi a Hebron, definito tuttavia sito palestinese, decisione che non era piaciuta per niente al premier israeliano Benjamin Netanyahu che tuttavia, a differenza dagli Stati Uniti che lo appoggiano, è rimasto all’interno dell’Unesco.
Stando a quanto scritto da Foreign Policy, la motivazione principale della decisione statunitense, è la volontà degli Usa di risparmiare, in quanto anche dopo avere abolito i finanziamenti, avevano comunque dovuto rispondere alle richieste dell’Unesco su i fondi dovuti, che in sei anni sono ammontati ad oltre 500 milioni di dollari.
L’Unesco ha definito questa scelta americana “una perdita per la famiglia delle Nazioni Unite e per il multilateralismo”, e qua c’è proprio uno dei punti chiave in quanto questa decisione è in linea con la piega isolazionista e protezionista dell’amministrazione Trump, che va nella direzione opposta a quella dell’apertura e della collaborazione auspicata dall’Onu.
La “grande America” di Trump è un concetto novecentesco che prevede una guerra più o meno fredda con una qualche potenza esterna dipinta come naturalmente demoniaca, e un isolamento economico senza concessioni.
Questa visione è confermata in queste stesse ore dall’arrivo a Washington del premier canadese Justin Trudeau, in Usa per partecipare al quarto round di trattative sul Nafta, l’accordo nordamericano per il libero scambio, la cui sorte è messa in dubbio da Trump; “Vediamo, è possibile che non arriveremo a un accordo oppure sì”, ha detto Trump. Alla domanda di un giornalista sulla possibilità di un accordo soltanto con il Canada il presidente statunitense ha risposto di sì.
Tra le richieste americane ci sono nuove clausole per inserire quote minime sui prodotti di fattura statunitense e l’introduzione di un termine di chiusura entro i prossimi 5 anni, se uno Stato non dovesse più ritenere utile restare nell’accordo.
La riunione ha in agenda anche il tema spinoso delle esportazioni agricole messicane verso gli Usa, oltre al probabile braccio di ferro con il Canada. La delegazione di negoziatori Usa cercherà l’affondo sui regolamenti del settore dei latticini canadesi, tutelato ma mai entrato a far parte degli accordi di libero scambio.

il manifesto 13.10.17
“L’Unesco è contro Israele” Gli Usa sbattono la porta
Nazioni (dis)Unite - Secondo gli Stati Uniti troppe decisioni avverse allo Stato ebraico, come per la Spianata delle Moschee di Gerusalemme
di Roberta Zunini

Nel Medio Oriente senza pace la notizia dell’uscita degli Stati Uniti dall’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, potrebbe sembrare irrilevante. Ma è proprio quando l’arte, l’archeologia, la cultura e le scienze tornano a essere meri strumenti di pressione geopolitica che il campanello d’allarme dovrebbe riprendere a trillare più forte. Stavolta è la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, il cuore di questa ennesima disputa tra Usa-Israele da una parte e paesi islamici dall’altra.
Gli Stati Uniti sono da un anno presieduti da Donald Trump, entrato alla Casa Bianca anche grazie ai voti a suo favore dell’Aipac, la lobby di ebrei-americani conservatori più influente al mondo. La moschea di al-Aqsa, la più importante per il culto islamico, e le altre che si stagliano sulla Spianata, sono state costruite su parte delle rovine del Monte del Tempio.
Del luogo più sacro per la religione ebraica, oggi rimane solo una piccola parte: il Kotel, noto come Muro del Pianto, a poche decine di metri dalla Spianata/Monte del Tempio. Sulla Spianata, che custodirebbe le rovine del Tempio, però non possono andarvi a pregare nè gli ebrei né i cristiani. Solo i credenti musulmani. È dal 2011, quando la Palestina divenne membro dell’ organizzazione dell’Onu, che gli Stati Uniti hanno smesso di finanziare l’Unesco, pur mantenendo un ufficio nel quartier generale di Parigi. Il ritiro Usa dall’Unesco “a causa delle relazioni con Israele” è una decisione “da apprezzare”, ha detto via Twitter, l’ex ministro degli Esteri e negoziatore capo, Tizpi Livni. “È un messaggio al mondo – ha proseguito – che c’è un prezzo alla politicizzazione, alla storia unilaterale e distorta”. Il falco Livni, da anni diventata colomba e parlamentare di spicco del principale partito di opposizione, l’ex Labur ora Alleanza Sionista, in questo caso è d’accordo con il premier e ministro degli Esteri israeliano, Benjamin Netanyahu.
Ed entrambi, anche se con sfumature verbali opposte, sono d’accordo sull’esigere che l’Autorità Nazionale Palestinese imponga il disarmo e vegli sulle azioni del movimento islamico Hamas, appena riconciliatosi con il partito Fatah – alla guida da sempre dei Territori palestinesi Occupati – in una mossa comunque storica compiuta al Cairo con gli ‘auspici’ di Al Sisi. Intanto per quanto riguarda la direzione dell’Unesco, al quarto giorno di consultazioni è stato dichiarato ufficialmente che vi è un testa a testa tra Francia e Qatar.
L’inviato di Israele, Carmel Shama-Hacohen, uscendo dall’aula per le votazioni, ha commentato: “Anche noi dovremmo lasciare. La mia personale raccomandazione al premier Benyamin Netanyahu è quella di restare incollati agli Usa e lasciare immediatamente l’Unesco”. Secondo l’ambasciatore “negli anni recenti l’Unesco si è trasformata in una bizzarra organizzazione che ha perso le sue orme professionali a favore di interessi politici di certi paesi”.
Netanyhau nella serata di ieri ha dato istruzioni di “preparare l’uscita di Israele dall’Unesco in parallelo con gli Usa”.
Gli Stati Uniti hanno confermato l’uscita dall’Organizzazione Onu citando tra i motivi la necessità di una riforma e una presunta “tendenza anti Israele” dell’agenzia.
“Questa decisione non è stata presa alla leggera e riflette le preoccupazioni degli Stati Uniti per i crescenti ritardi nei pagamenti nell’Unesco, la necessità di una riforma fondamentale nell’organizzazione e la tendenza anti Israele nell’Unesco”, ha affermato la portavoce del dipartimento di Stato americano, Heather Nauert.

il manifesto 13.10.17
Fatah-Hamas, la riconciliazione ora è realtà
Gaza. L'accordo è stato firmato ieri al Cairo. Dal primo dicembre l'Anp avrà di nuovo il controllo amministrativo e di sicurezza interna di Gaza. Abu Mazen andrà nella Striscia nelle prossime settimane. Congelato, per ora, il nodo delle armi di Hamas e del ruolo futuro del suo braccio armato.
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Dal primo dicembre il governo dell’Autorità nazionale palestinese tornerà ad avere il controllo pieno di Gaza e 3mila uomini della guardia presidenziale saranno dispiegati nelle strade della Striscia e ai valichi con l’Egitto e Israele. Sono questi alcuni dei punti principali dell’accordo, mediato dagli egiziani, firmato ieri al Cairo dal numero due di Hamas Saleh al Aruri e dal capodelegazione di Fatah Azzam al Ahmad. Accordo che ha posto fine a una ferita, rimasta aperta per oltre 10 anni, dalle conseguenze devastanti non solo sul piano politico. L’intesa è stata seguita da manifestazioni di gioia nelle strade di Gaza con migliaia di persone. La speranza della gente di Gaza è che la ritrovata unità nazionale serva a dare un nuovo impulso alla ricostruzione della Striscia, ancora a pezzi dopo l’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014, e colpita più di recente dalle misure punitive varate dal presidente dell’Anp Abu Mazen proprio per costringere gli islamisti a rinunciare al controllo di Gaza. Ieri si festeggiava anche ai vertici di Israele. Non certo per la riconciliazione Fatah-Hamas. In Israele è stata accolta come una vittoria la decisione annunciata dal Dipartimento di stato che gli Stati Uniti usciranno nel 2018 dall’Unesco per protestare contro un presunto atteggiamento filo-palestinese e anti-israeliano dell’agenzia dell’Onu. «C’è un prezzo da pagare per la discriminazione contro Israele, è una nuova era all’Onu…La decisione (statunitense) rappresenta un punto di svolta», ha commentato l’ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon. Simili le dichiarazioni fatte da altri esponenti politici israeliani, tra i quali l’ex ministra degli esteri Tzipi Livni che via twitter ha applaudito al passo fatto da Washington.
Abu Mazen, ora pronto ad annullare le sua misure punitive che hanno colpito soprattutto i civili, dovrebbe tornare a Gaza, per la prima volta in 10 anni, entro tre o quattro settimane. Almeno così dicono le indiscrezioni, manca ancora l’ufficialità. Ieri il presidente palestinese per la prima volta si è mostrato soddisfatto. Ha dato il benvenuto al «risultato raggiunto da Fatah e Hamas con la mediazione egiziana al Cairo» e ha sottolineato che «l’accordo rafforza e accelera i passi per porre fine alla divisione e ripristinare l’unità del popolo palestinese, del suo territorio e delle istituzioni palestinesi». Quindi ha esortato il governo e tutti gli apparati e le istituzioni a lavorare per attuare quanto contenuto nell’intesa e per realizzare «ciò a cui mira il popolo, ossia ritrovare l’unità». In base all’accordo il governo del premier Rami Hamdallah prenderà il controllo dei settori civili e di sicurezza interna. È prevista anche la formazione di un governo di unità nazionale – nelle prossime due settimane tutte le forze politiche, non solo Fatah e Hamas, si riuniranno per creare il nuovo esecutivo -, l’organizzazione di elezioni politiche e presidenziali, la formazione di una commissione congiunta per decidere il futuro degli impiegati assunti da Hamas negli istituzioni pubbliche (circa 45 mila persone tra civili e militari).
I leader di Hamas e Fatah hanno evitato di toccare l’argomento ma l’accordo annunciato ieri all’alba dal capo di Hamas Ismail Haniyeh e confermato da Abu Mazen è stato reso possibile solo per il congelamento del nodo più difficile da sciogliere: le armi di Hamas e il ruolo dei 25 mila combattenti del braccio militare del movimento islamista, le Brigate “Ezzedin al Qassam”. «La questione dovrebbe essere affrontata nei negoziati successivi al Cairo (il prossimo 21 novembre, ndr), in realtà resterà chiusa in un cassetto, per evitare che comprometta l’esito finale della riconciliazione» spiegava ieri al manifesto un giornalista di Gaza, S.K., ben informato sulle decisioni che sono prese ai vertici del movimento islamista. «La soluzione è stata trovata, anzi imposta, dagli egiziani – ha proseguito il giornalista palestinese – In sostanza gli uomini di Ezzedin al Qassam si renderanno invisibili per lasciare nelle strade di Gaza soltanto alle forze di sicurezza ufficiali dell’Anp. Abu Mazen alla fine ha accettato la soluzione imposta (dal Cairo) dopo aver chiesto con forza il disarmo di Hamas». Ma chi avrà autorità sull’arsenale del movimento islamico che include razzi che nel 2014 sono stati in grado di raggiungere ogni punto di Israele? «Le armi sono di Hamas e resteranno sotto il controllo di Hamas» ha concluso S.K. «i leader del movimento islamista però hanno accettato di decidere con Fatah e le altre fazioni palestinesi se e quando usare quelle armi ed impiegare la sua milizia». Una soluzione che favorisce la riconciliazione ma che rende più debole Abu Mazen agli occhi degli egiziani che inquadrano l’accordo firmato ieri in un processo più ampio che dovrà portare alla normalizzazione dei rapporti tra mondo arabo e Israele.

La Stampa 13.10.17
Studenti in 70 piazze italiane contro l’alternanza scuola - lavoro
Tra i motivi della protesta anche il diritto allo studio e la sicurezza degli edifici
qui
http://www.lastampa.it/2017/10/13/italia/cronache/studenti-in-piazze-italiane-contro-lalternanza-scuola-lavoro-EIC6X7ZogvVf9BGAYigFbP/pagina.html

Il Fatto 13.10.17
Lava, fotocopia e piega: ecco l’alternanza scuola-schiavitù
Il bilancio dopo il secondo anno - Le aziende sfruttano gli studenti: potranno poi godere degli sgravi sulle assunzioni
Lava, fotocopia e piega: ecco l’alternanza scuola-schiavitù
di Francesca Fornario

Che hai fatto oggi a scuola? “Ho servito ai tavoli e pulito i cessi”, “Ho fatto un mucchio di fotocopie”. “Sono stata quattr’ore in piedi a far niente”. Sono di questo tenore molte delle risposte fornite dagli studenti intervistati dall’Uds (l’Unione degli Studenti) per la ricerca effettuata quest’estate sull’efficacia dell’Alternanza-scuola lavoro sui diretti interessati. Storie che confermano i dati dello studio sui 15mila studenti pubblicato a maggio.
La maggior parte degli studenti – il 57 per cento – ha svolto mansioni che non avevano nulla a che fare con il proprio percorso di studi, come i ragazzi dell’artistico Calò, a Taranto, spediti alla Lega Navale e messi a scartavetrare le navi che avevano bisogno di una riverniciata. Volevi fare il pittore? Accontentato! Il 40 per cento degli studenti ha denunciato una violazione dei propri diritti. In molti casi l’alternanza si è trasformata in semplice lavoro gratuito, alla cassa di un negozio di borse, nella cucina di un fast-food: una conseguenza dell’accordo siglato tra il Ministero e aziende come McDonald’s o Eni, che hanno messo a disposizione 27mila posti per gli studenti in alternanza. “Ma io, di preciso, cos’è che devo imparare di così formativo inchiodato per 400 ore da Zara a piegare le magliette aggratis?”.
Le testimonianzedegli studenti sono sconfortanti. “Molti di loro sono stati costretti a lavorare durante le vacanze”, spiega Francesca Picci dell’Uds. E dice “lavorare”, pure se gratis, perché lavoro gratuito è stato quello dei 2700 studenti che la guardia di finanza di Bassano del Grappa ha sorpreso a cucinare e servire tramezzini nei bar, negli alberghi e nei ristoranti della zona. In quel caso – secondo l’accusa delle Fiamme Gialle – due società di intermediazione con la residenza fittizia all’estero, in Svizzera e a San Marino, hanno anche lucrato: 60 euro per ogni studente piazzato. Lavoro gratuito – al posto del lavoro retribuito e dell’istruzione gratuita prevista dalla Costituzione – è stato anche quello degli studenti dell’istituto alberghiero Gentileschi di Milano, mandati ad agosto in Sardegna a sostituire i lavoratori che erano stati licenziati nei villaggi turistici. Per le aziende la prospettiva di un doppio guadagno: forza lavoro gratuita in alternanza gentilmente offerta dalla scuola pubblica in alta stagione, per tre anni. E poi, se assumi, lauto sconto sui contributi, gentilmente offerto dal ministero del Lavoro: la legge di Stabilità del 2016 lo ha infatti previsto per le aziende che assumono uno studente che ha fatto almeno il 30 per cento delle ore di alternanza presso l’azienda. Che assumono, sì, ma con il Jobs Act: altro sconto. E quando l’agevolazione fiscale finisce, licenzi, come consente di fare entro tre anni il contratto a tutele crescenti, e sostituisci il licenziato con un altro studente in alternanza. Pratico, no?
Non è tutto: il 38 per cento degli studenti ha dovuto sostenere spese “fino a 400 euro”, dice il rapporto Uds, per recarsi presso l’azienda o l’ente dove avrebbe dovuto svolgere l’alternanza. Come è capitato ai ragazzi del liceo classico Colletta di Avellino con l’autobus per trasportare gli studenti all’Università Federico Secondo di Napoli. Al costo di 200 euro a studente.
A questi si aggiungono le decine di casi di sfruttamento già scoperti è raccontati anche da questo giornale: lo studente che a La Spezia si è spappolato un ginocchio perché gli è caduto addosso il muletto che stava guidando, gli studenti dell’alberghiero di Viterbo mandati a servire ai tavoli alla Festa del Pd, le studentesse costrette a subire le molestie del titolare del centro estetico di Monza. Costrette perché la Buona Scuola prevede che l’alternanza sia materia di colloquio all’esame orale e che il “tutor aziendale”, debba fornire “ogni elemento atto verificare e valutare le attività dello studente e l’efficacia dei processi”.
Per questo gli studenti scendono in piazza oggi in tutta Italia, mentre il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, chiede alla ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli una moratoria sull’alternanza: sono troppi i casi conclamati di abuso, fermiamoci e ragioniamo.
I governi ci hanno ragionato negli ultimi dieci anni, da quando l’alternanza scuola-lavoro è stata istituita nel 2005 dalla ministra Moratti. All’epoca era però in via sperimentale, quindi non obbligatoria, per i soli studenti degli istituti tecnici e professionali. Nel 2015 il governo Renzi, con la ministra Giannini, ci ragiona e obbliga all’alternanza tutti gli studenti delle scuole superiori. Duecento ore per i licei, 400 per gli istituti tecnici, con la “possibilità” di farla anche durante le vacanze. Virgolette d’obbligo, perché gli studenti sono sottoposti al ricatto della valutazione e accettano ogni condizione imposta. Come ha fatto lo studente di Parma mandato a lavorare in un centro sportivo da un istituto tecnico economico: si è ritrovato a trasportare ombrelloni e lettini per sei ore al giorno, sette giorni su sette, mentre i suoi coetanei erano in vacanza. O come ha fatto Tommaso, studente del liceo artistico Enzo Rossi di Roma, che la vigilia di Natale e il primo dell’anno ha svolto, come richiesto, il suo servizio di alternanza al museo di Palazzo Venezia: “Dovevo fare la guida – racconta – in teoria, ma siccome non mi hanno spiegato niente non potevo avvicinarmi ai turisti. Che facevo? Stavo lì, in piedi, fermo, che non potevo farmi vedere distratto o mettermi a leggere, altrimenti la valutazione sarebbe stata negativa”.

Il Fatto 13.10.17
Roberto Saviano: “La fiducia sul Rosatellum-bis è un agguato alla democrazia”
Lo scrittore presenta a Milano il suo ultimo romanzo: “Racconto i cuccioli della camorra e le ferite delle periferie”. “Cambiare sistema alla vigilia del voto è da Paese malato: chi usa parole forti fa benissimo”
di Silvia Truzzi

Il Bacio feroce ha il sapore del sangue, come quasi tutto in questa storia di cuccioli selvaggi, vittime e carnefici negli stessi corpi, divisi tra i compiti a casa, i messaggi alle fidanzatine e gli omicidi. Undici mesi dopo La paranza dei bambini, Roberto Saviano torna in libreria con il seguito del romanzo criminale ambientato a Forcella.
È la prima volta che scrive due libri a così poca distanza uno dall’altro: quella del romanzo, narrato in terza persona, è la sua dimensione di scrittore?
Ci sono arrivato. Il racconto in terza persona concede molte libertà, la principale è il tentativo di restituire al lettore l’intimità dei personaggi. Di provare a entrare non solo nelle loro teste, ma proprio nelle loro viscere.
I dialoghi sono tutti scritti in napoletano, anche se un napoletano non “canonizzato” ma imbastardito, come scrive in nota: un lavoro sulla lingua ancora più approfondito rispetto alla Paranza. Perché questa scelta?
A Napoli il napoletano non è considerato un dialetto, ma una lingua viva, parlata anche e soprattutto dai giovani. E in quanto viva, è soggetta a evoluzione. Non avrei potuto utilizzare, nei dialoghi, il napoletano del canone, ma dovevo necessariamente avvicinarlo a quello parlato. Mi sono ovviamente chiesto se non fosse il caso di rendere tutto più italiano, ma andando avanti nella scrittura mi rendevo conto di non riuscire ad abbandonare il napoletano perché è esattamente la lingua che parlano le storie che racconto. La lingua, come i luoghi, rappresenta il tentativo, che sempre faccio, di raccontare una ferita che non è solo di Napoli o del Sud, ma che lacera ogni periferia. Il napoletano potrebbe essere qualsiasi dialetto o gergo, in ogni caso, una lingua da iniziati.
Parlando del precedente romanzo ci aveva detto: “Non credo nella possibilità di una giustizia”. E poi: “Questi ragazzi non hanno avuto speranza”. Ma l’urgenza di raccontarli fa pensare che lei nutra qualche illusione. O no?
Ovvio, se non fossi un illuso non sarei uno scrittore. Così come se non nutrissi illusioni di sorta non crederei affatto nella necessità del racconto.
Perché ha deciso di presentare Bacio feroce anche insieme a ragazzini che potrebbero beneficiare dello Ius soli? Che relazione c’è tra la cittadinanza e i temi di cui parla nei suoi libri?
Una relazione strettissima. Racconto, nei miei libri, di ragazzi che passano la vita a tentare – riuscendoci! – di uscire dal diritto; in libreria con me ci saranno invece ragazzi che attraversano questo mondo con un cammino opposto. Mostro questa contraddizione: c’è chi dal diritto vuole uscire e chi nel diritto vuole entrare. Lo Stato ignora entrambi, ipotecando il futuro e il presente di tutti noi. C’è poi un passaggio nel libro che ritengo significativo: è un invito alle madri a educare i propri figli al fallimento. Educarli a essere vincenti sempre e sempre i primi significa anche educarli a eliminare gli altri sottraendo loro diritti.
Tra meno di un mese si vota in Sicilia: che pensa dei tantissimi candidati coinvolti a vario titolo in vicende giudiziarie? Impareranno mai la lezione?
Il tema degli impresentabili è il vero tema della politica italiana, un tema enorme ma, evidentemente, di alcune candidature non si riesce proprio a fare a meno; e non ci si riesce perché si valutano solo i pacchetti di voti di cui questi impresentabili sono esclusivi proprietari. Tutto il dibattito sulla credibilità della politica, di fronte a certe dinamiche, non è che vada semplicemente in secondo piano, scompare del tutto. Il risultato negli elettori, come sappiamo, è un senso di impotenza. E quindi cosa accade? Accade che in una situazione in cui “voto o non voto non cambia nulla”, allora il mio voto lo faccio fruttare… E se negli anni Ottanta si prometteva di favorire un candidato per un posto di lavoro, oggi lo si fa per 50 euro.
Della fiducia sulla legge elettorale lei ha detto: “Sembra un agguato”.
È un agguato alla democrazia. È proprio delle democrazie malate cambiare la legge elettorale a ridosso delle elezioni e ha ragione da vendere chi usa parole forti per condannare questa vergogna. Con questo modus operandi, completamente sovrapponibile a quello del centrodestra del 2005, quando introdusse il Porcellum, cade un ulteriore velo di ipocrisia sul finto riformismo del Pd a guida Renzi. Il Consiglio europeo si è pronunciato raccomandando di non cambiare la legge elettorale a ridosso delle elezioni perché creerebbe un deficit di conoscenza e quindi una oggettiva violazione dei diritti dei cittadini. Con quale autorità morale potrà mai l’Italia criticare Erdogan e Putin se poi diamo per scontato che il sistema democratico regga nonostante tutte queste violazioni?
Si è, provocatoriamente, candidato contro Luigi Di Maio alle consultazioni dei 5 Stelle: perché?
Per toglierlo dall’imbarazzo di una consultazione democratica completamente falsa e per sottolineare quello che è il male oscuro del M5S: la necessità di rappresentarsi come una forza politica che pratica la democrazia al proprio interno quando la realtà dei fatti fotografa un Movimento che ha una struttura padronale. La mancanza di trasparenza sulle dinamiche di voto interno rende del tutto risibili le teorie sulla politica dal basso.
Secondo un sondaggio realizzato per il Fatto in giugno, la sinistra unita con lei leader avrebbe avuto il 16%. Secondo un recente retroscena del Giornale, Prodi starebbe pensando a lei come guida di un nuovo Ulivo…
Un esempio di fake news. Fare politica non è il mio mestiere: finirei per essere una faccia da esibire. La politica, per come la intendo io, deve partire dalle idee, non dalle persone.

La Stampa 13.10.17
Bersani: “Che delusione Gentiloni
Ha perso tutta la sua credibilità”
“Il premier è complice o è stato obbligato da qualcuno fuori di qui”
di Francesca Schianchi

Alle sette di sera, quando stanno per iniziare le dichiarazioni di voto finali sulla legge, Pier Luigi Bersani sguscia fuori dall’Aula e imbocca un corridoio laterale. Poco prima si è alzato in piedi, ha preso la parola suscitando uno dei rarissimi momenti di silenzio nell’emiciclo: «Con il cuore in mano, dico ai deputati di questa nuova maggioranza che ci stanno portando dove forse nemmeno loro vogliono andare: se ci fermiamo non si va nel caos, ci sono soluzioni abbordabili e rispettose della Costituzione anche negli ultimi mesi». Riflettete, predica, evitate in extremis di approvare quella che definisce un «hapax legomenon», scandisce in Aula tra le espressioni interrogative dei colleghi: «E’ una parola di greco antico – spiega rispolverando gli antichi studi classici – vuole dire una parola detta una volta sola: questa legge è un marchingegno sconosciuto, una roba che in tutto il mondo non è mai esistita, questo volevo dire», sospira scendendo le scale. Ai tempi dell’Italicum, dalle parti di Renzi si diceva che quella legge l’avrebbe copiata mezza Europa: «Questa invece appena la leggono strabuzzano», scoppia in una risata amara.
«Ne abbiamo viste di tutti i colori, vediamo anche questa», e se non è la prima volta nella legislatura che si mette la fiducia sulla legge elettorale, «questa è un po’ peggio, perché siamo a fine legislatura e anche perché allora c’era l’alibi che l’Italicum era una iniziativa del governo». Stavolta, invece, il premier Paolo Gentiloni aveva promesso di limitarsi ad «accompagnare» il percorso, salvo poi occuparsene nel modo più invasivo possibile sul finale, imponendo il voto di fiducia. Deluso? «Una delle tante delusioni è certamente lui, assolutamente», ammette l’ex segretario Pd, oggi tra i leader di Mdp, il movimento appena uscito dalla maggioranza. «Purtroppo Gentiloni ci ha rimesso in credibilità, perché a questo punto i casi sono due: o si è reso complice di una forzatura di questo genere, oppure è stato indotto, sequestrato…». Da chi, Bersani, dal segretario dem Renzi? «Da qualcuno fuori di qui, e peggio mi sento a pensare una cosa del genere di un presidente del consiglio».
Anche in Aula ha parlato di credibilità: quella del Parlamento, requisito indispensabile per «ricomporre il Paese diviso» fuori dai Palazzi. «Qui è saltato tutto: la credibilità, temo, non solo del governo. Quando la gente si sentirà illustrare la legge, ci sarà una distanza tra cittadini e istituzioni bestiale», aggiunge preoccupato. Poco prima, in Aula, ha sintetizzato i «guasti» del Rosatellum, dai «vaghi apparentamenti per raccogliere voti con reti a strascico» al fatto che «stiamo dicendo a un cittadino: tu con un segno decidi tre cose e due possono non piacerti». Fermatevi, il suo appello. «Non sta perdendo credibilità solo Gentiloni: qui stiamo facendo un Parlamento di nominati, e questo non sarà accettato», ripete preoccupato. Due ore dopo, la legge approvata passa al Senato.

Il Fatto 13.10.17
“Grasso ora rifletta sulla fiducia in Senato”
“I costituzionalisti hanno sollevato dubbi seri e fondati: doveva tenerne conto pure Boldrini”
di Marco Palombi

“In questi giorni autorevoli costituzionalisti hanno sostenuto buone ragioni sulla impossibilità di mettere la fiducia sulla legge elettorale in rispetto del dettato costituzionale. È vero che esiste il precedente del 1953 e il più recente dell’Italicum nel 2015, ma credo ci siano tutti gli estremi perché la presidenza del Senato possa approfondire queste argomentazioni serie e fondate”. Il senatore di Articolo 1-Mdp Federico Fornaro, esperto di sistemi elettorali, la prossima settimana si troverà probabilmente di fronte alla stessa situazione dei suoi colleghi alla Camera: una legge elettorale approvata a suon di forzature.
Renzi ha citato De Gasperi.
Ma non ci troviamo di fronte all’ostruzionismo dell’opposizione, che fu all’origine della fiducia sulla legge truffa.
All’epoca finì in tumulti d’aula: proprio il presidente del Senato ne uscì malino…
Non si tratta di gettare la croce su Grasso e credo che pure la presidente Boldrini avrebbe avuto la possibilità di approfondire questa delicata e controversa materia .
La Costituzione è chiara: si applica “sempre” la procedura ordinaria.
La fiducia posta dal governo su una materia strettamente parlamentare è già in radice contrastante col carattere di democrazia parlamentare della nostra Repubblica. Siamo all’aperta violazione dello spirito della Carta e della libertà dei deputati, che ricordo sono di fatto “ricattabili” dal loro capo partito alla vigilia delle elezioni con la minaccia della non ricandidatura.
Anche lei usa parole forti.
Sono prove tecniche di democrazia autoritaria: un sistema in apparenza democratico, in cui però viene esercitata una dittatura della maggioranza. O meglio: dell’esecutivo sul Parlamento.
E tanti saluti all’assenza di vincolo di mandato…
L’articolo 67 è uno degli architravi della democrazia parlamentare perché tutela la libertà del singolo rappresentante del popolo. Si è prestato nella storia ad abusi e ha contribuito al trasformismo, ma resta un baluardo di libertà rispetto allo strapotere di esecutivi e capi partito, nonostante quel che dice il M5S.
È bastato un voto segreto, però, per mostrare l’insofferenza della Camera.
Il cortocircuito avviene perché il Parlamento, sotto il giogo della fiducia, viene costretto ad approvare un accordo extraparlamentare poco prima dello scioglimento delle Camere. Si crea un precedente gravissimo: le maggioranze potranno scriversi la loro legge elettorale con buona pace della Carta e del successivo intervento della Consulta.

Repubblica 13.10.17
La stanca democrazia
di Michele Ainis

LE LEGGI elettorali sono come i matrimoni: per scoprire chi hai sposato, devi dormirci ogni notte sotto le stesse lenzuola. E il Rosatellum, è davvero un buon partito? O il quadripartito che l’appoggia finirà per lasciarci a mal partito? Lo sapremo presto, ce ne accorgeremo alle prossime elezioni, ammesso che questo sposalizio verrà celebrato anche in Senato, dopo il sì pronunziato a denti stretti dalla Camera. Ma il passo d’oca con cui la giovin creatura incede verso l’altare non può che promettere notti turbolente. Proteste in piazza, schiamazzi nell’aula di Montecitorio, scontri arroventati nel Paese: se ogni legge elettorale apre una nuova stagione della democrazia, stavolta è inverno, non certo primavera.
Ecco, c’è un vizio di metodo, prima ancora che di merito, in questa vicenda normativa. C’è un esercizio muscolare, c’è un sopruso degli uni verso gli altri — e siamo noi, gli altri. Perché quando viene confiscata la libertà del Parlamento ne soffre la libertà di tutti i cittadini. E perché le forzature nel metodo si riflettono sul merito, sui contenuti della nuova disciplina elettorale, impedendo di correggerne quantomeno le storture più vistose.
Il voto  disgiunto, per esempio, che il Rosatellum nega agli elettori. O le pluricandidature, che suonano come un pluringanno. Ma l’inganno è già nella parola con cui è stato sottomesso il Parlamento: fiducia. «Sta’ attento a chi darai fiducia due volte», diceva García Márquez. Il governo Gentiloni l’ha chiesta per tre volte. E allora questa parolina gentile diventa minacciosa, in un gioco di specchi deformanti in cui nulla è più come ci appare. Anzi: gli specchi sono sette, come le code del diavolo.
Primo: di regola, la questione di fiducia viene posta dall’esecutivo su un provvedimento che esso stesso reputa centrale per sviluppare le proprie linee programmatiche. Tuttavia il Rosatellum muove da un’iniziativa parlamentare, non governativa. E oltretutto l’esecutivo in carica, presentando il suo programma, aveva promesso di tenersi fuori dalla riforma elettorale.
Secondo: la fiducia è un espediente tecnico teso a superare l’ostruzionismo delle opposizioni. Qui invece a far paura erano i mal di pancia della maggioranza, non delle minoranze.
Terzo: lo schieramento che sostiene il Rosatellum può incontrare qualche problema di numeri a palazzo Madama, però a Montecitorio contava su oltre il 70% dei deputati, grazie al premio di maggioranza del Porcellum, che ha ingrassato le fila del Pd. Perciò — secondo logica — la questione di fiducia andava posta casomai al Senato, non alla Camera. Ma logica e politica non vanno d’accordo; non a caso Aristotele ne trattò in due opere distinte.
Quarto: la maggioranza che sostiene il Rosatellum è ben più larga della maggioranza governativa. Comprende infatti Lega e Forza Italia, i cui parlamentari sono dovuti uscire dall’aula, per appoggiare il governo senza votare a favore del governo. Equilibrismi che riesumano i fasti del 1976, quando il gabinetto Andreotti III si reggeva su un ampio fronte d’astensioni. Dunque la legge elettorale che dovrebbe trasportarci nel futuro ci fa rimbalzare nel passato, ai governi della “non sfiducia”.
Quinto: il voto di fiducia dovrebbe costituire un’eccezione, un’extrema ratio. Invece il governo Gentiloni ne ha già chiesti 22, con la media d’un paio al mese. E in questa legislatura siamo a quota 98, superando le 96 fiducie della legislatura scorsa. Evidentemente la fiducia dei politici è un sentimento nevrotico e insaziabile, che si nutre di se stesso. Difatti è in vista l’ultima reincarnazione: dopo la fiducia di destra (il Rosatellum), quella di sinistra (sullo Ius soli).
Sesto: ogni questione di fiducia reca un altolà: o tu (Parlamento) fai ciò che ti chiedo, oppure io (governo) mi dimetto. Ma Gentiloni si dimetterà comunque a breve, perché siamo all’ultima curva della legislatura. Più che una minaccia, si direbbe una promessa.
Settimo: il presidente del Consiglio. Era il più popolare fra i politici italiani, e anche il più stimato. Ma da quando ha messo la fiducia su questa brutta legge elettorale, si è imbruttito pure lui. Da qui l’ultima contraddizione: Gentiloni ha incassato la fiducia, ma ne ha guadagnato un moto di sfiducia. D’altronde anche noi ci sentiamo sfiduciati e un po’ depressi, senza ottimismo, senza nemmeno troppa voglia di sperimentare nell’urna la nuova legge elettorale. Giacché in primavera verremo chiamati, a nostra volta, a un voto di fiducia: sul sistema dei partiti, sulla democrazia italiana per come si va configurando. Una democrazia che s’affida alla fiducia perché non ha più uomini fidati.

Repubblica 13.10.17
Il voto spacca i deputati di Pisapia Mdp, Bersani pensa a Grasso leader
E nell’arringa l’ex segretario dem ricorre al greco: “Il Rosatellum come un hapax legomenon”
di Giovanna Casadio

ROMA. Sarà a causa dell’hapax legomenon che ha stranito l’aula della Camera, o forse del riferimento al cubo di Rubik per dire che assicurarsi una sedia in Parlamento è un rompicapo non prevedibile altro che giochetti e calcoli, ma il video del discorso di Pierluigi Bersani contro il Rosatellum nella mattinata di ieri ha avuto in poche ore venticinquemila visualizzazioni. Che sia il più popolare a sinistra lo sanno tutti e i compagni demoprogressisti più di tutti. «Figuriamoci se non riconosco la sua leadership, per me c’è addirittura un conflitto d’affetto» premette Roberto Speranza, il delfino bersaniano, consapevole che trovare un leader della sinistra è ugualmente un cubo di Rubik.
Ormai le strade con Giuliano Pisapia e il suo movimento, Campo progressista, si sono divaricate. E nell’intreccio tra posizioni sulla legge elettorale e strategie politiche, in Mdp è circolato il sospetto che alcuni demoprogressisti di tendenza-Pisapia abbiano votato in segreto sì alla nuova legge elettorale. Del resto il gruppetto di centristi di Campo progressista guidati da Bruno Tabacci (5 tra i 12 di Democrazia solidale) si sono schierati per il sì al Rosatellum. Oggi o domani Tabacci a Milano parlerà della scelta fatta con Pisapia, che al Rosatellum è nettamente contrario, benché favorisca la coalizione. «Almeno questa legge è un passo in avanti verso il centrosinistra», ritiene Tabacci.
Bersani in aula prende la parola e attacca: «Dove sono i liberali, quelli che dicono che le regole sono sostanza, questo è un marchingegno sconosciuto, un hapax legomenon...». Tradotto dal greco: una parola che ricorre una volta sola in un testo. Invita i parlamentari a riflettere e a fermarsi. Così come Speranza, a cui tocca la dichiarazione di voto finale, denuncia: «È una pagina nera e la fiducia è una violenza al Parlamento... è tornato il governo Renzi per interposta persona e il centrosinistra con questa legge si rompe definitivamente ». Avanti quindi con il progetto del quarto polo e della lista rossa con Sinistra Italiana, “Possibile” di Pippo Civati, Anna Falcone e Tomaso Montanari. Bersani ironizza a proposito della sua leadership: no - scuote la testa adesso avanti gli altri. Sa di essere «l’usato sicuro», facile bersaglio del rottamatore Renzi. Pensa piuttosto a Piero Grasso: è il nome più gettonato. Il presidente del Senato ha già mostrato «amicizia» e simpatia per la sinistra bersaniana, ricambiato con applausi alle feste di Mdp e con apprezzamenti sui social. Però da questo ad assumersi il fardello della guida di una sinistra tutta da ricostruire, ne corre. Una riunione di Campo progressista (senza Mdp) è in programma a inizio della prossima settimana. Abbracci a Montecitorio dei bersaniani a Claudio Fava, il candidato demoprogresista alle regionali siciliane (arrivato all’ultimo per il voto finale), esempio della sinistra che corre da sola.

Repubblica 13.10.17
Il Professore domani impegnato a Venezia, giallo sugli inviti. Sì di Veltroni e Gentiloni
Prodi, Parisi e gli ulivisti grandi assenti alla festa dem per i dieci anni del partito
di Goffredo De Marchis

ROMA. Non ci sarà Prodi, primo ispiratore del Pd. Mancherà Arturo Parisi, ideologo del Pd e inventore delle primarie. «Decennale di che?», risponde Giulio Santagata, sempre amico e confidente del Professore, altro membro dello stato maggiore prodiano. E’ uno strappo, non ci sono discussioni. «Non mi ha invitato nessuno, eppure io mi sento un fondatore più di quelli del comitato dei 45. Preparavo la campagna elettorale, sgobbavo», ricorda Santagata. Non si affaccerà Rosy Bindi. Alla manifestazione di domani, convocata per i 10 anni di vita del Pd, salterà all’occhio l’assenza dei dirigenti più legati a Prodi.
Se non sono partiti gli inviti vuol dire che Matteo Renzi non ha ancora ritrovato il feeling con quel mondo. Se invece qualche timido tentativo di portare Prodi a Roma domani c’è stato, è la prova che il Professore non ha affatto riavvicinato la tenda al Pd, che viaggia ancora con il bagaglio leggero (é la sua metafora per dire che non ha una casa politica) lontano da Largo del Nazareno. Lui ha un impegno a Venezia. Perciò il problema di un Prodi ancora insoddisfatto di come si cerca di ricostruire il centrosinistra c’è tutto. Peserà sulla campagna elettorale, lascerà il segno sulla coalizione intorno a Renzi. Il disgelo per ora non c’è.
Per carità, l’idea di una riforma elettorale con collegi e alleanze non dispiace al Professore. Però il pericolo di un inciucio con Berlusconi è tutt’altro che escluso. Dice Parisi a Huffington Post: «Il varo del Rosatellum ci chiama a riconoscere che l’illusione della democrazia governante è ormai alle spalle. Spero che la fiducia che lo sta portando in porto non costituisca un precedente per tentazioni di segno opposto».
A officiare la celebrazione sono stati chiamati Renzi, Paolo Gentiloni e Walter Veltroni, primo segretario del Pd eletto appunto 10 anni orsono con le primarie. Fu un giorno fausto perché si compiva il percorso avviato dal Professore: riunire i riformisti e le case che furono della Dc e del Pci sotto lo stesso tetto. Era l’Ulivo che si faceva partito unico. Fu meno propizio, con il senno di poi, perché quel Pd ebbe un rapporto tormentato da subito con il governo guidato allora proprio da Prodi. Con il risultato che dopo 5 mesi si tornò a votare.
Il giallo ruota intorno al fatto che c’è poco da festeggiare, quindi? Che Prodi non ha un buon ricordo di quell’esordio o che oggi le strade sono ancora divise? Il vicesegretario Martina ha parlato con il Professore e ha avuto come risposta che era impegnato per sabato. E’ vero che l’ex premier ha scelto per sé in questa fase il ruolo di federatore, di “Vinavil”, di “colla” come disse mesi fa. Non sposare la causa di uno o dell’altro pezzo del centrosinistra per cercare aggiustarli insieme, era il senso della metafora. Poi disse che il suo “Vinavil” non era gradito e pensava soprattutto a Renzi. Poi ha giudicato male lo strappo di Mdp con Pisapia. Con l’ex sindaco di Milano il rapporto è costante, ma i pezzi nessuno ancora sa come si rimetteranno assieme.
Del comitato dei 45, il gruppo che preparò la piattaforma del Pd, mancheranno anche altri. Non parteciperà Rutelli che con Fassino ebbe il coraggio di sciogliere la propria forza politica in un nuovo soggetto. Sarà assente Enrico Letta che non è più iscritto. Ci sarà Franceschini, ex segretario dem, ma non sul palco. Altri due segretari, Bersani e Epifani, sono approdati su lidi alternativi al Pd. La festa quindi sarà anche chiamata a colmare i buchi della breve storia di una creatura che si affaccia all’età dell’adolescenza. Notoriamente, una fase della vita complessa.

il manifesto 13.10.17
Partono i tormenti del posto in lista. Pd e azzurri già nel panico
Verso il voto. Deputati a caccia del seggio sicuro, Berlusconi orfano di Verdini cerca un sostituto
di Andrea Colombo

Ieri a Montecitorio non solo i deputati del Pd facesvano la fila dal collega Giacomo Portas, mago in carica dei flussi elettorali. Bussavano alla porta del sapiente anche forzisti e centristi. Tutti in cerca di una rassicurazione su quei seggi che la nuova legge rischia di scippargli con destrezza. Del resto non è un mistero che a suggerire la scorciatoia della fiducia non siano stati elevati ragionamenti politici. La minaccia veniva tutta da quei deputati che si sentivano più al sicuro con le preferenze che con la mannaia delle nomine decise dalle segreterie.
Stavolta, però, la partita che si giocherà con la composizione delle liste è ancora più importante del solito. Peserà quanto il voto propriamente detto, forse di più. A fare la differenza saranno infatti i collegi maggioritari: dalla definizione di quei candidati non dipenderanno solo i rapporti di forza all’interno della coalizione e il tasso di fedeltà al capo degli eletti, ma anche la possibilità di dare vita ad alleanze di governo diverse da quelle messe in campo ufficialmente.
Il punto è particolarmente determinante nel centrodestra. Quando si tratterà di salpare per approdare al Nazareno bis, re Silvio dovrà non solo disporre di un numero di parlamentari sufficiente a formare una maggioranza col Pd, ma anche contare su un esercito robusto abbastanza da non rendere la sua Fi una ruota di scorta del Pd. Missione difficile. A nord, dove la vittoria nei collegi è ben più probabile che al centro e al sud, la Lega insisterà per piazzare i suoi candidati ovunque. Quando lascerà la piazza maggioritaria agli azzurri punterà i piedi per strappare candidature orientate verso Pontida che, al momento del salto della quaglia, non seguirebbero Berlusconi.
È uno di quei giochi in cui non si può improvvisare. Bisogna disporre di plenipotenziari capaci di puntare i piedi e con un quadro d’insieme della situazione molto preciso. Il migliore in campo è ancora Denis Verdini, che però non pare disposto a occuparsi dell’incombenza in conto Silvio. L’aspetto più preoccupante per il signore di Arcore è che non dispone neppure di un sostituto capace almeno di emulare l’impareggiabile Denis. Spedire un principiante al tavolo delle liste, però, potrebbe rivelarsi disastroso quanto un crollo elettorale.
In superficie il Pd sembra non avere di questi problemi, ma è un abbaglio. Per contrastare il centrodestra e i 5S al sud, Renzi dovrà mettere in campo nella quota maggioritaria nomi capaci di tirare la volata. Per trovarli dovrà rivolgersi ai feudatari locali, i governatori. Le loro liste civiche probabilmente non passeranno la soglia di sbarramento, e sin qui poco male dal momento che i loro voti, come quelli del partito animalista nel centrodestra, non andranno sprecati: confluiranno nei forzieri della coalizione. In cambio però il Pd dovrà fare spazio ai nomi indicati dai governatori nella quota maggioritaria, e nessuno garantisce che Emiliano o Crocetta siano poi disposti a convogliare i “loro” eletti verso l’alleanza con Forza Italia. Il discorso vale a maggior ragione per eventuali alleati di sinistra come Campo progressista.
A complicare la faccenda c’è la necessità per Renzi di avere dalla sua una Fi tanto forte da garantirgli una maggioranza ma non da porre il veto sulla sua nomina a capo del governo. Con questo obiettivo in mente, l’ex premier ha giocato di sponda con la Lega, definendo una legge che va a tutto vantaggio di Salvini. Col rischio però di ritrovarsi alla fine con una stampella azzurra insufficiente per rientrare a palazzo Chigi.

Il Fatto 13.10.17
Al suk della Camera la Trimurti renziana offre seggi e collegi
Terrore - Franceschini, Guerini e Rosato passano la giornata tentando di “sedurre” gli indecisi
di Wanda Marra

Sono le 21 e 15 quando il boato che si alza dai banchi del Pd saluta il sì al Rosatellum bis della Camera dei deputati. Un urlo liberatorio, dopo una giornata sfiancante, più che tesa. Nessuna protesta organizzata dall’opposizione in Aula. Luigi Di Maio e Danilo Toninelli del Movimento 5 Stelle si dirigono verso la piazza. La campagna elettorale è già iniziata.
Montecitorio si riscalda solo per le ultime dichiarazioni finali. Roberto Speranza (Articolo 1-Mdp) definendo “evaporata” la “diversità” del governo Gentiloni dichiara “evaporato” pure il vincolo di maggioranza. Renato Brunetta chiama “fallimentare” la legislatura. Nessuno applaude: troppa verità. Mentre per il Pd parla il capogruppo Ettore Rosato arrivano Luca Lotti, Maria Elena Boschi, Marianna Madia, Andrea Orlando, Angelino Alfano, Beatrice Lorenzin. Dario Franceschini era già da tempo seduto ai banchi del governo. Paolo Gentiloni, il premier, non si fa vedere.
“Dire no a questa legge significa votare per la dissoluzione del sistema”. Daniele Marantelli, deputato del Pd di minoranza, vicinissimo a Andrea Orlando, a metà pomeriggio argomenta così la motivazione per il sì al Rosatellum bis. Forse la frase più vicina al vero che si sente dire nei capannelli di Montecitorio, in una giornata in cui tutti fanno freneticamente i conti su quante possibilità hanno di essere candidati in un collegio sicuro o in un listino. La risposta che tutti cercano è se garantire il sistema voglia dire pure garantire la convenienza personale. Per alcuni le due cose vanno insieme.
Tutti hanno un gran da fare a trattare. Tra una stanza ai piani alti di Montecitorio e il Transatlantico una inedita trimurti renziana – Dario Franceschini, Lorenzo Guerini e Ettore Rosato – fornisce ai deputati smarriti la risposta: promettono collegi a rotta di collo, uno dopo l’altro. Fanno promesse che sarà praticamente impossibile mantenere tutte. Il pallottoliere è agitato: si contano per tutta la giornata almeno 80 franchi tiratori e nessuno è sicuro che, dovessero arrivare a 100, non sarebbero abbastanza per far saltare tutto.
Il ministro della Cultura è fisso alla Camera da mercoledì. Presidia il territorio. Per Forza Italia il lavoro di controllo lo fanno Brunetta e Francesco Paolo Sisto. Poi ci sono quelli che si danno un gran da fare a farsi vedere impegnati: Alessia Morani e Ernesto Carbone in primis. Due che per sopravvivere come parlamentari hanno bisogno dello sguardo benevolo di Matteo Renzi.
Il più attivo di tutti, però, è sempre Rosato, il capogruppo dem che ha avuto dal “capo” l’incarico formale di essere il frontman della legge, oltre che di garantire la tenuta del gruppo. Senza contare che è a un passo dal diventare una specie di “figlio costituente”, visto che la legge prenderà il nome da lui. Rosato è ovunque: in Aula, fuori dall’Aula, a rassicurare, blandire, minacciare, dichiarare. Verso le 20 riemerge da un angolo del Transatlantico: “Non lo distraete”, lo protegge un collega di partito. In campo, nell’ombra, a blandire e a “vendere” posti in lista nella natìa Toscana ci sono pure Luca Lotti e Francesco Bonifazi, Giglio magico in purezza.
Se ne stanno invece acquattati nella penombra i temuti “franchi tiratori”, ma i più tra gli indiziati vogliono solo credere alle promesse di rielezione e alla fine parecchi scelgono di giocarsi il terno al lotto: premono il pulsante che potrebbe portarli alla fine della carriera parlamentare, tutta nelle mani dei leader. Una sorta di cupio dissolvi o semplicemente di sfinimento: per l’intera legislatura l’unica richiesta che gli è arrivata dal partito (o da Palazzo Chigi nel caso di quelli del Pd) è stata premere pulsanti per decisioni prese altrove. Alla fine la rivolta dei peones è estesa, ma non tanto da mettere a rischio la legge elettorale che dovrà garantire la prossima Grande Coalizione.
L’Aula, intanto, va avanti dalla mattina. Passa la terza fiducia e poi pure il “salva Verdini”: i voti di Ala servono, sia alla Camera che al Senato. Gli ordini del giorno presentati sono 167. Pier Luigi Bersani prende la parola all’inizio del pomeriggio. Senza cravatta, con un volto provato che ricorda un’altra giornata a rischio, quella dei 101 che affossarono Romano Prodi e portarono lui alle dimissioni da segretario dem, cita il Vangelo secondo Giovanni: “Ti cingeranno i fianchi – nel collegio – e ti porteranno dove non vuoi andare”. Applaudono in molti, anche insospettabili, come i fittiani.
Renzi, che imponendo il voto di fiducia ha realizzato la forzatura decisiva, fa filtrare “grande soddisfazione”, ma segue il tutto da lontano: sa che con questa legge, come con il Consultellum, si arriverà alle larghe intese e che difficilmente il premier sarà lui. Eppure questa legge è l’unica che gli può consentire di scegliersi i parlamentari e di essere un’azionista di peso anche del prossimo esecutivo. Ora il Rosatellum va in Senato: in Commissione martedì, in Aula il 24. Sarà dura anche lì.

La Stampa 13.10.17
La scia di veleni che condizionerà il fine legislatura
di Marcello Sorgi

La legge elettorale approvata alla Camera - con un risultato numerico che lascia intuire un robusto soccorso del centrodestra nel voto segreto, per assicurarsi la sconfitta dei franchi tiratori - si lascia dietro una scia di veleni che peseranno sulle settimane e sui mesi rimasti di qui alla conclusione della legislatura. Basta solo riflettere sul fatto che tutti gli schieramenti - maggioranza e opposizione - escono dalla vicenda del Rosatellum spaccati e percorsi da desideri di vendette che potrebbero ripercuotersi sui prossimi, rilevanti appuntamenti, a cominciare ovviamente dalla legge di stabilità e dal secondo tempo, al Senato, della partita che s’è appena chiusa alla Camera. Nello schieramento che sosteneva il governo s’è consumata la rottura finale tra Pd e Mdp: Gentiloni non potrà contare sui voti degli scissionisti bersaniani e dalemiani per la manovra economica. Nel centrodestra - lo si è capito ascoltando il durissimo intervento in aula di Giorgia Meloni - s’è rotto il fronte sovranista, perché Salvini s’è alleato con Berlusconi a sostegno della legge, mentre FdI, che pure formalmente fa parte della coalizione, ha scelto la strada di un “no” secco, accanto al Movimento 5 stelle, allo stesso Mdp e Sinistra italiana, e a dissidenti espliciti del Pd, come ad esempio Rosi Bindi, che tuttavia ha votato la fiducia. Infine - anche se ufficialmente sia Grillo che Salvini hanno sempre negato questa eventualità - è tramontata l’ipotesi che dopo le elezioni, nel caso in cui la somma dei parlamentari eletti da Movimento 5 stelle, Lega e Fratelli d’Italia facesse maggioranza, i tre partiti avrebbero potuto far vita al tentativo di formare un loro governo, dato che i 5 Stelle hanno considerato un tradimento imperdonabile il “sì” del Carroccio alla legge, dopo tante convergenze, occasionali o meno, trovate all’opposizione dei governi Letta, Renzi e Gentiloni.
Adesso tutti gli occhi sono puntati sul Senato. Se Renzi riuscirà in un secondo blitz, portando il Rosatellum nell’aula di Palazzo Madama prima dei risultati delle regionali siciliane del 5 novembre, le possibilità di varare definitivamente la legge cresceranno. Altrimenti tutto tornerà in alto mare.

Il Fatto 13.10.17
Orfeo nicchia sul ritorno in video di Gabanelli
Rai - A fine ottobre scade l’aspettativa della giornalista, che offre un piano B. Il dg prende tempo
di Gianluca Roselli

Manca poco alla scadenza dell’aspettativa di Milena Gabanelli, ma da parte della Rai non sembra essere cambiato nulla. Il 30 ottobre termina il periodo di autosospensione (in aspettativa non retribuita) che la giornalista si è presa dopo che Viale Mazzini ha stoppato il suo progetto di un nuovo portale web di news unico per tutti i canali della tv di Stato (Rai24.it, il nome), idea per cui era stata assunta come vicedirettore dal precedente dg Antonio Campo Dall’Orto.
Sollecitato dal consigliere Carlo Freccero, ieri Mario Orfeo è tornato a parlarne durante il Cda. “Gabanelli è una risorsa fondamentale della Rai. Ma se il contratto di servizio il governo me lo presenta il 26 ottobre, come posso fare il piano di informazione prima del 30 ottobre?”, si è chiesto il dg. “Io – ha aggiunto – posso solo dare il supporto del personale e l’infrastruttura tecnologica per favorire l’avvio del portale web”. Insomma, l’ex direttore del Tg1 è disposto a fare il massimo, ma solo sui binari della proposta già respinta dalla giornalista: occuparsi di riorganizzare il sito Rainews.it con la carica di condirettore, visto che il direttore già c’è ed è Antonio Di Bella.
Una cosa ben diversa dal dirigere il sito unico dell’informazione Rai con una struttura di 88 giornalisti divisi su quattro turni e con una squadra apposita a occuparsi di data journalism. L’offerta del dg Gabanelli l’ha già rifiutata e non si capisce perché dovrebbe accettarla ora. In realtà, negli ultimi giorni l’ideatrice di Report ha messo sul tavolo di Orfeo anche un piano B: ha proposto al dg un suo ritorno in tv in una formula che le consentirebbe di utilizzare al meglio il lavoro pensato per il web. Orfeo si è preso del tempo per decidere, ma non sembra molto intenzionato ad accettare.
Sulla vecchia proposta il problema è sempre lo stesso: il dg lega la partenza del nuovo portale al piano generale dell’informazione, che però sembra sempre più lontano e difficile da realizzare, con le elezioni alle porte e un Cda in scadenza. “Che le due cose siano legate non è scritto da nessuna parte. La riforma Rai dice che bisogna colmare il gap digitale (web) e che non si possono creare nuove testate non che non si possa fare un nuovo sito”, spiega una fonte di Viale Mazzini. La sensazione, però, è che il vertice Rai stia usando la scusa del piano informazione per tenere in stand by Gabanelli quasi per costringerla ad andarsene. Nei prossimi giorni, in vista del 30 ottobre, è previsto un nuovo incontro tra la giornalista e il dg, anche per discutere del possibile piano B. “Farò di tutto per tenerla in Rai”, ha detto Orfeo. La petizione lanciata dal Fatto a sostegno dell’ideatrice di Report ha raccolto 188 mila firme.
Ieri, intanto, il Cda ha approvato le nuove nomine: Angelo Teodoli sarà il nuovo direttore di Rai 1 al posto di Andrea Fabiano, che si sposta a Rai2, mentre Roberta Enni va alla guida di Rai Gold. Sullo share, invece, Orfeo è entrato in diretta polemica con il Fatto. “A chi parla di crollo degli ascolti senza conoscere i numeri faccio i complimenti per la fantasia, non volendo pensare alla malafede”, sostiene il dg, secondo cui la Rai nel suo complesso tra settembre e ottobre è cresciuta dello 0,5% e Rai 1 ha guadagnato lo 0,7%. Il Fatto si era però limitato ai dati delle tre reti generaliste, raccontando il calo di Rai2 e Rai3 e la lieve crescita di Rai1, oltre alla difficoltà di molti programmi che perdono automaticamente il duello con i diretti concorrenti.

Il Fatto 13.10.17
Consip, l’ex-capo difende Woodcock: “Niente abusi”
Colangelo parla al Csm in favore dei suoi pm: “Nessuna condotta scorretta”
di Antonella Mascali

“Tutti i pm coinvolti in questa vicenda (Henry John Woodcock, Celestina Carrano, Enrica Parascandolo, ndr), hanno mai violato i principi di indipendenza e imparzialità ai quali si devono attenere i magistrati?”. “No, mai”. È il botta e risposta tra un consigliere del Csm e l’ex procuratore di Napoli Giovanni Colangelo, ascoltato ieri dalla prima commissione che sta conducendo una pre-istruttoria sulle modalità di indagine di Consip e Cpl Concordia e che deve decidere se aprire una procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale o funzionale.
Se ancora c’erano dubbi dopo l’audizione del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, ieri quella decisiva di Colangelo, in pensione da febbraio scorso, ha confermato definitivamente che i pm hanno operato in accordo con il procuratore e con i loro aggiunti, Borrelli e Filippo Beatrice. Ma che questa sia una vicenda politicizzata, perché di mezzo c’è il padre di Matteo Renzi, Tiziano, lo dimostra la nota del consigliere Antonio Leone, laico di Ncd, alfaniano e renziano che vuole chiedere altre audizioni perché “restano ancora zone d’ombra”. Parole che possono essere interpretate come una grave anticipazione di giudizio dato che Leone è il vicepresidente della sezione disciplinare davanti alla quale potrebbero essere giudicati Woodcock e Carrano, indagati dalla Procura generale della Cassazione.
In realtà ieri Colangelo ha chiarito, eccome: se avessi riscontrato delle condotte irregolari, ha detto, “li avrei denunciati, come ho fatto in altri casi, né ho ricevuto segnalazioni in tal senso”. Per lui, come per l’aggiunto Borrelli, non esiste neppure un caso di fascicolo Consip tenuto a forza da Woodcock: sono fisiologiche le lamentele dell’aggiunto Alfonso D’Avino, coordinatore del dipartimento reati pubblica amministrazione, che avrebbe voluto per il suo ufficio quel filone diventato politicamente rovente per il coinvolgimento di babbo Tiziano. Come si sa, tutto nasce da un’inchiesta della Dda, di cui fa parte Woodcock, sull’imprenditore Alfredo Romeo e i presunti legami con la camorra per un appalto al Cardarelli. Colangelo, ieri, secondo quanto risulta al Fatto, conferma la riunione con gli aggiunti D’Avino e Beatrice, durante la quale fu evocato il problema della competenza, ma poi specifica un punto fondamentale: non ho preso alcuna decisione di passare quel fascicolo all’ufficio di Davino. Invece, spiega, la questione “fu risolta con l’applicazione della dottoressa Carrano alla Dda”. Cioè una pm proprio del dipartimento reati della Pa. viene applicata alla Dda a partire dal 16 ottobre dell’anno scorso e a febbraio di quest’anno passa formalmente all’antimafia.
È stato affrontato anche il tormentone politico sulla mancata iscrizione di Tiziano Renzi per traffico di influenze (sarà indagato dalla Procura di Roma) a differenza del suo amico imprenditore Carlo Russo, nonostante sia stato intercettato. Colangelo si assume la responsabilità di quelle scelte prese e dai suoi ex pm: gli elementi a carico di Russo e Renzi padre non erano uguali, le loro posizioni in quel periodo erano valutate diversamente. Woodcock e Carrano in una nota al pg Luigi Riello, ci risulta, avevano spiegato che mentre c’erano elementi ben precisi a carico di Russo, dal punto di vista dell’accusa, sulle sue manovre per favorire Romeo con i vertici Consip, per Renzi si doveva ancora chiarire il ruolo e – in astratto – Russo aveva potuto millantare di poter manovrare i fili degli appalti milionari Consip, grazie al legame con il padre del segretario del Pd. Di qui la necessità di intercettare babbo Renzi. Colangelo conferma pure che avallò la decisione di chiedere le intercettazioni, ma rilevò che il periodo fosse molto “delicato” dato che era in corso “la campagna per il referendum costituzionale”. Il suggerimento di cautela da parte del procuratore fu recepito, tanto che Woodcock e Carrano ottengono l’autorizzazione del gip Mario Morra il 20 novembre scorso ma fanno partire le registrazioni dopo il voto, il 5 dicembre.
Dunque, al netto delle accuse disciplinari (una asserita intervista di Woodcock e un interrogatorio dei due pm come testimone e non come indagato del manager Filippo Vannoni) per le quali non si sa ancora se ci sarà un processo, le audizioni dei “capi” dei pm hanno escluso condotte scorrette che potrebbero far aprire un procedimento di trasferimento per atti “incolpevoli”. Se non ci fosse stato di mezzo Tiziano Renzi questa pratica non sarebbe stata neppure aperta.

Il Fatto 13.10.17
Fiore e la marcetta su Roma Minniti: “Non si può fare”
Forza Nuova insiste per la “rievocazione” del 28 ottobre 1922. Rissa tra Pd e 5 stelle, poi Raggi: “Noi con l’Anpi per la democrazia”. Domani corteo anti-migranti di Alemanno
di Giampiero Calapà

Il 29 ottobre non partirà da Milano nessun direttissimo delle 20.30 per Roma, qualunque cosa accada un Benito Mussolini, o chi per lui a rappresentare il terrore fascista, non sarà chiamato dal capo dello Stato a formare un nuovo governo. Resta, 95 anni dopo la marcetta delle camicie nere del 28 ottobre 1922 che portò al potere il Partito nazionale fascista, la provocazione nostalgica del partitino Forza nuova: “Ritengo che ciò che è stato proibito – scrive il “camerata” Roberto Fiore su Facebook – per le generazioni passate e per la mia non lo possa essere più per la generazione dei miei figli, che con Forza nuova o senza Forza nuova vogliono manifestare un qualsiasi 28 ottobre dell’anno: confermiamo la decisione del nostro movimento di manifestare e di portare a Roma il 28 ottobre la protesta civile e pacifica di tutti i patrioti che non intendono sottostare ad un sistema corrotto e servo delle lobby anti-nazionali”. E, sempre su Facebook, è già indicato anche il luogo del “concentramento”: “Sarà il Palalottomatica, piazzale Pier Luigi Nervi, presso la fermata metro B Eur Palasport”.
Eppure il ministro dell’Interno Marco Minniti ha già sbarrato la strada della capitale alla folkloristica rievocazione, alla Camera il 20 settembre: “Richiama in modo palese l’atto di nascita del regime fascista e la Marcia su Roma. È evidente che una manifestazione così si porrebbe in chiaro contrasto con l’ordinamento giuridico, con la legge Scelba e quella Mancino”. Insomma, questa volta non si passa, concetto ribadito dal capo del Viminale anche ieri: “Con le motivazioni da me già espresse in Parlamento, ho già dato indicazioni al questore di Roma di non concedere l’autorizzazione per la manifestazione promossa da Forza nuova a Roma il prossimo 28 ottobre”.
Ma Fiore non ci sta: “Le dichiarazioni di Minniti dimostrano una volontà anti-storica e anti-italiana tipica di un governo sulla via del tramonto”. Contro nostalgia e revisionismo si mobilita anche l’Anpi: “Per il 28 ottobre abbiamo organizzato un’iniziativa in Campidoglio per ricordare la marcia su Roma.
È questa la nostra risposta alla provocazione fascista della marcia su Roma – spiega il presidente dell’Associazione dei partigiani Carlo Smuraglia – Spero che alla fine prevalga un po’ di buon senso. Hanno lanciato una provocazione, una specie di sfida, ma ora non si può andare oltre. Anche loro devono restare all’interno del sistema democratico, così come facciamo noi. Il 28 ottobre non si può fare alcuna manifestazione, qualunque sia il tema”. Al fianco dell’Anpi si schierano subito Sinistra italiana, Campo progressista e la Fiom.
Alle 18.12 su Twitter Lorenza Bonaccorsi, presidente del Pd Lazio, va all’attacco della sindaca di Roma: “Inquietante silenzio di Virginia Raggi su vergogna marcia di Forza Nuova. Roma medaglia d’oro Resistenza, ma sindaca arriva sempre ultima su questi temi”. Alle 18.56, sullo stesso social network, arriva la replica da Palazzo Senatorio: “Il 28 ottobre – scrive Raggi – saremo con l’Anpi in Campidoglio per dire Sì alla Democrazia e un No alla Marcia su Roma”. Intanto, nella gara a chi è più a destra, domani a Roma andrà in scena un’altra marcetta, il corteo “contro l’invasione degli immigrati” organizzato dall’ex sindaco Gianni Alemanno insieme all’ex ministro Francesco Storace.

Repubblica 13.10.17
Rimpatri triplicati e motovedette italiane davanti alla Tunisia
L’obiettivo è “prosciugare” la nuova rotta nordafricana
di Fabio Tonacci

ROMA. Motovedette della Guardia di Finanza nelle acque davanti alla Tunisia, rimpatri settimanali triplicati e collaborazione ancor più stretta tra i due Paesi. Così il Viminale punta a “prosciugare” la rotta tunisina, che sta preoccupando i nostri apparati di intelligence e che negli ultimi mesi è tornata ad essere assai trafficata. Solcata, nella maggior parte dei casi, da imbarcazioni “fantasma”: piccoli scafi con motori potenti che scaricano migranti sulle spiagge della Sicilia, tra Mazara del Vallo e Agrigento, prima di tornare indietro a tutta velocità.
Al ministero dell’Interno si è tenuto ieri pomeriggio un tavolo tecnico tra una delegazione tunisina e le forze italiane di polizia, durante il quale sono state discusse alcune misure per bloccare il flusso. La prima, e più sostanziosa, riguarda il pattugliamento delle acque internazionali davanti a Sfax e Monastir, dove incrociano più di frequente i motoscafi dei trafficanti. L’Italia intende spostare in quel quadrante del Mediterraneo centrale alcune motovedette della Finanza, ed è stato chiesto ai partner tunisini di rafforzare contemporaneamente il dispositivo della loro guardia costiera. Nel caso in cui i finanzieri intercettassero in acque internazionali un’imbarcazione coi migranti avranno due opzioni: segnalarla ai guardiacoste tunisini, oppure scortarla fino a un porto italiano per l’identificazione dei passeggeri. «Non si tratta di respingimenti — spiegano dal Viminale — ma di pattugliamenti a tutela dei confini ».
La seconda proposta, che pare abbia avuto l’approvazione di tutti, prevede l’aumento del numero dei rimpatri settimanali. Adesso, in base agli accordi in vigore tra i due Stati, sono ammessi al massimo 30 rimpatri alla settimana dall’Italia: la quota dovrebbe salire ad 80, da effettuare quaranta alla volta con due voli charter. Si sta discutendo di un terzo charter, ma su questo non ci sono conferme ufficiali della disponibilità del governo di Tunisi. Quel che pare assodato, però, è la consapevolezza della pericolosità di tale rotta, per le sue due caratteristiche che ne fanno potenzialmente una via privilegiata per i terroristi: la durata breve (per un viaggio possono bastare 5-6 ore) e la solidità delle barche utilizzate dagli scafisti. La tratta, dunque, è ragionevolmente sicura, soprattutto se confrontata alla rotta libica.
La svolta è arrivata dopo una telefonata nei giorni scorsi tra il ministro Marco Minniti e il suo omologo tunisino. I numeri di questa rotta mediterranea, una direttrice “storica” usata per anni dai contrabbandieri di sigarette e dai latitanti, sono ancora relativamente bassi, si parla di circa 2.500 arrivi nel 2017, ma a preoccupare è stata l’improvvisa escalation durante l’estate, coincisa forse non a caso con l’uscita dalle carceri tunisine di 1.600 pregiudicati grazie a due indulti concessi dal loro governo. I tunisini sbarcati — 1.400 solo nel mese di settembre — non hanno diritto all’asilo politico né alla protezione internazionale perché non stanno fuggendo da una guerra e infatti nessuno di loro fa richiesta per rimanere in Italia. Arrivano, scappano a piedi verso la più vicina stazione ferroviaria e cercano di raggiungere il Nord Europa.
Quello che ne fa però una questione di sicurezza nazionale è l’oggettivo problema che ha la Tunisia con il radicalismo islamico: è il Paese che ha esportato il maggior numero di foreign fighter in Siria e in Iraq, e nelle statistiche delle espulsioni del Viminale per sospetto jihadismo i tunisini sono, insieme ai marocchini, i più presenti.

il manifesto 13.10.17
Il molestatore seriale e il coraggio delle prede
di Bia Sarasini

Era un luogo comune, il divano del produttore, il sottofondo di tante storie di cinema, il non detto di tanti scandali. A Hollywwod Baylonia, il titolo ormai proverbiale dei due volumi di Kenneth Anger dedicati all’epoca d’oro delle Major, come nel resto del mondo, Cinecittà compresa.
Ora le denunce di attrici famose, come Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie e Ashley Judd, contro Harvey Weinstein, potentissimo produttore Miramax, che ha ripreso lo stile della Hollywood vecchia maniera, irrompono nella cronaca. E dicono che è vero, che le storie raccontano sempre la verità. Il re è nudo. Del resto così Weinstein si proponeva, in accappatoio, o vestaglia, alle sue prede. Uso consapevolmente questa parola, preda, perché questo è il punto di vista di un molestatore seriale.
Di un uomo che neanche prova la strada del corteggiamento, ma usa direttamente il potere. E la uso, questa parola, perché così ci si sente, se hai circa vent’anni, hai un progetto, un sogno e ti trovi ad affrontare un uomo potente. Che può essere la tua risorsa o il muro contro cui sbattere. Perché parliamo del mondo del cinema, ma dovremmo dire luoghi di lavoro. Di qualunque genere. Del resto a quanto si legge non rivolgeva le sue attenzioni solo contro le “sue” attrici”, ma anche a chi lavorava negli uffici.
Vorrei essere chiara: parlare di “prede” non ha nulla a che fare con il vittimismo. Piuttosto è la descrizione di rapporti di forza. Le denunce, in aumento giorno per giorno, mostrano chiaramente cosa succede. Comportamenti diversi – chi ha subito, chi è riuscita a sottrarsi – in comune l’umiliazione, il silenzio, un ricordo che non sparisce mai. E vengo al punto più spinoso. Quello che suscita più polemica.
Perché non hanno denunciato prima? Perché ci sono voluti vent’anni? Bisognerebbe ricordarsi che è la stessa accusa che è stata rivolta alle vittime di abusi pedofili. Che insomma le vittime vengono sempre incolpate delle violenze che subiscono.
Perché ci vuole forza. Non solo quella individuale, che permette di opporsi al predatore, ci vuole anche quella simbolica, collettiva, che permetta di non sentirsi una paria, una che dice cose a cui nessuno crede. Una che non si sente sporcata da questo. Insomma, il tempo è cambiato. Ora si può denunciare, per fortuna. E se lo fa chi ha più anni, libera le più giovani, le più esposte.
Del resto si scopre che già negli anni scorsi erano state proposte inchieste contro Weinstein e i giornali, come per esempio il New York Times, avevano insabbiato.
C’è un penoso risvolto italiano. Anche Asia Argento è tra chi denuncia. Lo fa con la temerarietà che è le è propria. Descrive vividamente l’aggressione e la sua successiva subalternità al molestatore, indotta dalla vergogna e dalla sua debolezza, come lei stessa dice. Prima di riuscire a liberarsene. E questo le vale ogni sorta di accusa infamante. Eppure ci dice con chiarezza che la violenza, effetto del dominio maschile, ha molteplici aspetti. Non è solo sul corpo, ma anche sui sentimenti, il senso di sé, la dignità. L’abuso di potere non è solo il ricatto e il ceffone. Realtà difficile da comprendere, e che appunto avviluppa le donne. Umilia, ferisce. Poi certo, ce la si può cavare, perfino ribaltare il tavolo. A volte.
Il ricatto sessuale è una realtà a cui la maggior parte delle donne giovani, in qualunque contesto, è stata ed è tuttora sottoposta. Si può accettarlo, usarlo, da parte delle donne, ma di questo si tratta: dell’esercizio di un potere.
Le ragazze accusano le femministe della mia generazione: ci avete imbrogliato, ero convinta che nei luoghi di lavoro non fosse più richiesto di essere disponibili, per fare carriera. Per questo Gwyneth e le altre vanno ringraziate. Aprono una strada.
Sarebbe divertente, se ciascuna si decidesse a elencare il catalogo delle molestie subite. Altro che la lista di Don Giovanni. Che tra l’altro non sarebbe mai andato in una clinica a farsi curare dalla dipendenza dal sesso. Segno di tempi che cambiano?

il manifesto 13.10.17
Austria, si profila un’alleanza tra popolari ed estrema destra
Elezioni austriache. Domenica le elezioni. I sondaggi premiano il partito xenofobo di Strache ed Hofer
di Angela Mayr

VIENNA Circolano già liste di nomi di futuri ministri della Fpoe, l’estrema destra xenofoba guidata da Hans Christian Strache. E rispunta un nome, Norbert Hofer, ben conosciuto come candidato alle tormentate presidenziali austriache. Ora si propone come futuro ministro degli esteri. Queste le ultime notizie della radio austriaca pubblica Orf. Meno di un anno fa Hofer era stato sconfitto dal candidato verde Alexander van der Bellen diventato presidente della repubblica. Un epoca fa. A pochi giorni dalle elezioni politiche anticipate di domenica gli ultimi sondaggi confermano l’enfant prodige Sebastian Kurz, ministro degli esteri del partito popolare (Oevp) stabilmente in testa da mesi, al 33%. E registrano un dato nuovo, un balzo in avanti di Strache, al secondo posto, dato da molti sondaggi tra il 25-27%. Nel corso della lunga campagna elettorale era rimasto più marginale, mai sopra il 20%, messo in ombra dall’astro luminoso Kurz, che non è un Macron ma piuttosto uno Strache light. A ragione il leader della Fpoe accusa Kurz di aver copiato il suo programma. Per capirne la vicinanza bastava guardare il duello televisivo tra i due, la gara su chi fosse più anti-migranti: «Ho criticato Merkel per l’apertura dei confini fin dall’inizio» si è vantato Kurz che ha stretti legami con la Csu bavarese. «Ma non ha potuto impedire l’invasione di migranti in Austria, era al governo quindi è complice» ha rilanciato Strache. Kurz, ho chiuso la rotta balcanica, no la replica di Strache, è stato merito di Orban. E giù tra i due la gara su chi è più vicino al premier ungherese.
Non era questa la linea del partito popolare di Reinhold Mitterlehner vicecancelliere alleato di governo del cancelliere Christian Kern, socialdemocratico (Spoe). Perciò Kurz ha lavorato per un anno dietro le quinte con un piano generale dettagliato raccontato dal settimanale viennese Falter come un vero golpe per bloccare ogni lavoro di Mitterlehner. Esausto, a maggio il vicecancelliere ha gettato la spugna dimettendosi dall’incarico e aprendo la strada alle elezioni anticipate di domenica. Ogni partito corre per sé, sistema proporzionale puro, nessuna opzione di coalizione trova un consenso sopra il 20%. Pare che nessuna possibilità di governo possa avere la maggioranza senza la Fpoe, se si eccettua la grande coalizione tra socialdemocratici e popolari, quella che è caduta in maggio, fortemente improbabile. Un possibile scenario, spaventoso, è quindi quello di un governo Kurz e Strache, già sperimentato in Austria tra il 2000 e 2006, un’alleanza nero-azzurra sostenuta da Joerg Haider, allora oggetto di sanzioni europee.
Domenica andrà finire così? Alcuni sondaggi danno i socialdemocratici surclassati al terzo posto intorno al 23%. Così in basso perché negli ultimi mesi si è visto l’affaire Silberstein di dirty campaigning occupare le prime pagine e la rete. Silberstein è un consulente politico israeliano noto per la sua spregiudicatezza, chiamato dalla Spoe come consulente e finito col gestire la campagna elettorale. Tanti gli incidenti e gli scivoloni fino all’arresto, ad agosto, di Silberstein in Israele per truffa e corruzione. Da allora ogni giorni sono uscite nuove notizie sul sua eredità in casa Spoe. La più clamorosa: le pagine fake su facebook per danneggiare Kurz: una chiamata «Noi per Sebastian Kurz», un’altra scambiabile per una pagina Fpoe. Nel suo gruppo composto prevalentemente da persone esterne al partito c’ era di tutto. Anche chi lavorava per la Oevp di Kurz. Entrambi i partiti si sono denunciati alla magistratura. I documenti interni della Spoe sono diventati di dominio pubblico, pagine contro il capolista Kern. A tutto questo bisogna aggiungere lo scontro in atto a destra intorno al ministro della difesa Hans Peter Doskozil, quello dei panzer al Brennero fermato più volte da Kern. E’ notizia di ieri l’inasprimento dei controlli anti-migranti al Brennero con check point austriaci che controlleranno da oggi i treni.
Gli ultimi giorni di campagna elettorale sono frenetici, con addetti stampa che arrivano a picchiarsi tra loro, collaboratori scelti che si dimettono o vengono mandati via. «Alla fine Kern è rimasto solo e può solo guadagnarci», commenta il settimanale Falter. Oratore eloquente, colto e preparato, stile ironico, nessuno capisce perché si sia circondato di collaboratori così controproducenti.

La Stampa 13.10.17
Austria, nell’ex fortino rosso che ora caccia gli immigrati
Dopo 70 anni Wels è in mano all’ultradestra. Il sindaco: qui si parla tedesco e si mangia maiale
di Letizia Tortello

Il motto della città è un comandamento per i nuovi arrivati: «Senza tedesco, niente casa». Il decalogo che il sindaco Andreas Rabl ha messo in piedi per svuotare il suo Comune dai migranti ruota tutto attorno a quel catalogo che i genitori dei bimbi dell’asilo ricevono a inizio anno: «Qui si rispettano i valori europei e austriaci. Si festeggiano Natale e Pasqua a scuola, si mangia carne di maiale, anche se non è obbligatorio, si parla tedesco». Siamo a Wels, tra le colline gentili dell’Alta Austria. Questo Comune di 58 mila abitanti per 70 anni è stato un fortino «rosso», governato dai socialdemocratici dell’Spö, ma nel 2015 la musica è cambiata. Ha vinto la destra nazionalista dell’Fpö. Che a Wels ha il volto gaio e pulito di un avvocato 45enne.
«Mi sono appellato al tribunale regionale e poi alla Corte federale e ho vinto. A Wels non sono riusciti a costruire un centro di accoglienza, così i migranti sono andati a Vienna o a Linz». L’Oberösterreich è il terzo Land austriaco ad aver ricevuto più richieste di asilo nel 2015, lo hanno preceduto solo la capitale e la Bassa Austria. Un quarto dei residenti è straniero, «la metà è musulmano – spiega Rabl –, per lo più turco o bosniaco, e poi ci sono anche 600 tra siriani e afghani, ma per fortuna abbiamo fermato l’invasione. La sicurezza è il nostro principale problema».
E dire che in questa cittadina dagli edifici liberty e dal centro storico colorato e pieno di gerani, tutto sembra scorrere quieto come il fiume Traun che la lambisce. Ma questa non è la percezione degli abitanti, che da quando c’è Rabl si sentono più tutelati. «Io sono fiero di essere nazionalista – racconta Horst Pichler, pensionato a passeggio per la Stadtplatz con la compagna -. Naturalmente ci sono due tipi di migranti, quelli che hanno bisogno di protezione e quelli economici. Non ce l’ho con i primi, hanno ragione a fuggire, ma l’Austria ne ha già troppi. I secondi, invece, non li vogliamo. Ci sono tanti disoccupati austriaci, non possiamo pagare per gli stranieri». E infatti l’Alta Austria, governata da una coalizione di popolari (Övp) è Fpö, è l’unica regione che ha abbassato la «Mindestsicherung», l’aiuto economico per chi ha ottenuto l’asilo politico, che era lo stesso dato a chi ha perso il lavoro. «Non è giusto che persone che non hanno mai pagato le tasse qui prendano gli stessi soldi di chi le paga», commenta Rabl e sorride. Magdalena Danner, membro dell’associazione Migrare che aiuta gli stranieri a cercare lavoro, la vede al contrario: «Le lungaggini burocratiche per ricevere l’asilo sono un grosso ostacolo - dice - e regole come queste rendono molto difficile l’integrazione, perché portano solo paura e razzismo».
È la destra populista che avanza e oggi è seconda ai sondaggi. Domenica alle elezioni corre con il candidato Heinz-Christian Strache per un posto di peso nel governo. Per il sindaco di Wels, il favorito alla cancelleria Sebastian Kurz, dei popolari, «ha rubato i programmi dell’Fpö. O ci dà ministeri importanti, come quello dell’Interno, degli Esteri e del Welfare, o è anche meglio stare all’opposizione». Fuori dal suo ufficio, in una calda giornata d’autunno, passano donne col velo che spingono passeggini e altre eleganti alla guida di suv. I loro figli sono tenuti a imparare il tedesco fin dai tre anni; gli allievi stranieri all’asilo sono divisi in gruppi di tre per apprendere meglio la lingua, perché altrimenti erano un «grosso problema per l’educazione degli altri». I loro mariti o loro stesse, per continuare a ricevere l’assegno, devono dimostrare tutti i mesi che stanno cercando lavoro, che frequentano corsi di lingua e che condividono i valori austriaci. Nel quartiere immigrato della città, Noitzmühle, ci sono guardie comunali che mantengono l’ordine, il sindaco non ha avuto il permesso di installare le telecamere per questioni di privacy. A chi gli chiede se un’integrazione di questo tipo non significhi una chiusura totale nei confronti di chi ha valori e culture diverse, lui risponde: «Ci sono immigrati che mi vanno bene, tipo mia moglie che è russa, avvocata, parla tedesco. La legge è la cosa più importante, se metti dio davanti alla legge qui non trovi posto».

Reubblica 13.10.17
Anti-migranti
L’Austria attiva checkpoint sulla ferrovia del Brennero

BOLZANO. Alla vigilia delle elezioni di domenica, Vienna rafforza la sorveglianza anti-migranti sui treni. È in funzione da oggi un posto di controllo lungo la ferrovia del Brennero, presentato nel corso di un sopralluogo del ministro degli Interni Wolfgang Sobotka, con il governatore tirolese Guenther Platter e il capo della polizia tirolese Helmut Tomac. Per evitare rallentamenti del traffico internazionale, nella stazione ferroviaria di Seehof è stato realizzato un binario dedicato ai controlli. Il numero di migranti intercettati lungo la linea del Brennero è in realtà bassissimo. Da tempo le autorità austriache verificano la presenza di migranti sui convogli diretti a nord, con la collaborazione delle autorità italiane. Anche alla luce degli ultimi incidenti. Lo scorso novembre un giovane eritreo è morto a Bolzano mentre tentava di salire su un treno merci diretto in Austria e pochi giorni dopo, in Tirolo, due profughi sono stati schiacciati e uccisi da un tir in fase di scarico.

Corriere 13.10.17
«Non fateci pressioni sui migranti Soros? Non rispetta le nostre regole»
Ungheria, parla il ministro degli Esteri Péter Szijjártó: «In Europa domina l'ipocrisia»
di Maria Serena Natale

«Immigrazione? Nessuno può sottrarci il diritto di decidere chi ammettere sul nostro territorio nazionale. Se per Paesi come l’Italia è prioritario gestire i flussi, lo facciano. Per quanto ci riguarda, lasciateci fuori dai giochi». Péter Szijjártó è un pilastro del partito di governo ungherese Fidesz, ex portavoce del premier nazionalista Viktor Orbán, oggi ministro degli Esteri e del Commercio. A Milano per il primo «Business Forum Italia-Ungheria», dove ha esposto le crescenti opportunità d’investimento nel Paese centro-orientale, Szijjártó risponde a un ristretto pool di giornalisti su tensioni interne ed Europa.
Con il blocco di Visegrád, l’Ungheria si oppone allo schema Ue di ripartizione dei richiedenti asilo. È immaginabile una futura apertura al compromesso?
«La nostra posizione è chiara: respingiamo le quote obbligatorie. Se da un lato è sbagliato equiparare migranti e terroristi, dall’altro registriamo che dal 2015 in Europa si è verificata una serie di attentati senza precedenti legati all’ondata migratoria e all'impossibilità di controlli capillari. Quell’anno sul suolo ungherese sono passate 400 mila persone. Quante ne restano? Zero. No all’immigrazione illegale. E non accettiamo pressioni».
Le quote rientrano proprio nel tentativo di legalizzare e regolamentare i flussi.
«Ma sono anche un incentivo a partire per popolazioni male informate. Noi non intendiamo “regolamentare” i flussi, vogliamo fermarli. Non crediamo che l’immigrazione abbia un impatto positivo, almeno sul nostro tessuto sociale già alle prese con la disoccupazione della comunità rom».
Condividere gli impegni però è una dinamica fondamentale in un sistema politico-economico integrato come l’Unione Europea.
«Infatti non ci opponiamo alla cooperazione. L’apertura dei mercati è un'opportunità per tutti. Oggi gli investitori stranieri sono i principali attori nell'economia ungherese. A un approccio federalista ne preferiamo però uno sovranista, che preservi il nostro effettivo controllo sulle politiche sociali, familiari, demografiche... Non accetteremo politiche fiscali comuni. Né proveremo mai vergogna per le nostre radici cristiane. Mi è capitato di evocare a Bruxelles i cristiani perseguitati in Medio Oriente, mi è stato suggerito di parlare più correttamente di "minoranze". Siamo stigmatizzati ogni volta che esprimiamo posizioni poco in sintonia con il pensiero unico europeo. Ci chiamano "agenti russi"».
Sulla Russia, cosa proponete all'Europa?
«Più pragmatismo. Sappiamo dalla Storia che, quando si affrontato Est e Ovest, perde chi sta al Centro. Negli ultimi tre anni, a causa delle sanzioni abbiamo perso 7 miliardi di dollari in potenziali investimenti. Ma domina l’ipocrisia: grandi Paesi mantengono i rapporti con Mosca senza clamore. Al Forum economico di San Pietroburgo la lingua più parlata era il tedesco».
Considerate interferenze le critiche Ue a misure come la campagna governativa contro l’Università dell’Europa centro-orientale (Ceu) fondata da George Soros.
«È la Ceu a non rispettare l’obbligo legale di avere una sede nel Paese di registrazione (gli Usa). Su 21 istituti stranieri, solo loro hanno problemi».
La norma pare studiata apposta per colpirli.
«Non era il nostro intento».
Come spiega la campagna personale contro Soros?
«Su Europa e immigrazione, George Soros promuove idee in totale contrasto con la linea del governo ungherese».
In democrazia si può dissentire, ma questo non giustifica i cartelloni con il viso di Soros che ricordano le persecuzioni dei momenti più bui della nostra storia.
«Se scegli di essere così attivo nella vita pubblica, devi accettare che il tuo nome finisca nel dibattito politico».
Anche in Ungheria l’ultradestra è in crescita. Come arginarla in vista del voto 2018?
«C'è solo una strada: rafforzare il centro-destra».

La Stampa 13.10.17
“Contro populismi e insicurezza serve un diritto d’asilo europeo”
Poettering: sottovalutato il ruolo di Italia e Grecia
di Francesca Sforza

Un diritto d’asilo europeo e la possibilità di aderire all’Ue attraverso un sistema flessibile di partecipazione allo «spazio di stabilità comunitario»: sono solo alcune delle proposte che Hans-Gert Poettering, già presidente del Parlamento europeo e oggi alla guida della Fondazione Konrad Adenauer (Cdu), ha presentato ieri a Berlino in un documento intitolato «Impulso per un’Ue forte e che guarda al futuro».
Herr Poettering, prima Brexit, poi il voto in Germania, la situazione in Spagna, fra poco le elezioni in Austria. Quanto profonda è la crisi dell’Europa?
«L’Unione Europea è senza dubbio di fronte a sfide complesse, ma non parlerei di crisi. Come europei che si trovano nell’Ue - che però non è l’intera Europa - dobbiamo fare in modo che i principi su cui l’Europa si regge, il diritto alla pace e alla libertà, siano difesi e portati avanti. E questo lo devono fare tutti».
Come frenare le paure? Come mai Stati prosperi come la Germania sono dominati dall’insicurezza?
«Dagli italiani dovremmo imparare una maggiore serenità nell’approccio. I tedeschi hanno la tendenza, in presenza di ricchezza, a sviluppare immediatamente la paura di perderla. Analogamente, di fronte alla globalizzazione non pensiamo come prima cosa alle opportunità di sviluppo, ma al timore che possa intaccare ciò che già possediamo. Dovremmo smettere di essere così pessimisti».
Qual è il futuro delle politiche migratorie: più apertura e investimenti sull’integrazione o più espulsioni, tetti e permessi d’asilo difficili da ottenere?
«Molti tedeschi sono in linea teorica aperti a un principio di solidarietà, il problema è che la Germania si è trovata ad affrontare una massiccia presenza di migranti in un periodo molto breve. Adesso il compito è mettere a punto un diritto di asilo per i rifugiati che sia condiviso a livello europeo, in modo da ripartire le responsabilità. E qui devo fare autocritica: abbiamo troppo a lungo sottovalutato il peso che Italia e Grecia stavano sostenendo. È il momento di agire insieme, tenendo presente che non possiamo, come Europa, farci carico di tutti i migranti economici».
Durante la crisi spagnola molti si sono chiesti: dov’è l’Europa?
«L’Ue viene spesso criticata: se interviene con la Commissione, con il Consiglio o con il Parlamento, le viene fatto osservare che non deve entrare nei fatti dei singoli Stati, se invece si astiene viene criticata perché avrebbe dovuto fare qualcosa. Nel caso catalano bisogna attenersi al diritto della Spagna, e la soluzione deve essere trovata all’interno delle istituzioni spagnole. L’Ue può offrire una mediazione, ma solo se condivisa da Madrid e Barcellona».
L’ondata di populismo e nazionalismo crescente potrà portare verso un’Europa a più velocità?
«Il trattato di Lisbona rende possibile andare avanti nell’integrazione a quegli Stati che lo vogliono. Ma il principio che bisogna tenere fermo è che non si vada avanti in un modo che precluda poi agli altri di tornare al passo. Se qualcuno vuole procedere, ad esempio, a un’armonizzazione del sistema fiscale, può farlo, in modo tale però che anche gli altri possano, in un secondo tempo, essere coinvolti».

Repubblica 13.10.17
“Gesù Cristo era asiatico e con il sorriso tornerà in Cina”
Intervista all’arcivescovo Tagle, ponte tra Roma e l’Oriente. Per molti è destinato a diventare Papa
di Dario Olivero

ROMA La risata più fragorosa delle tante che Monsignor Tagle è solito concedersi da bravo orientale arriva per una battuta quasi involontaria: «Eminenza, ma allora lei non è solo un cardinale, è anche un prete». Una risata che risuona nella piccola stanza del Pontificio Istituto Filippino, un casermone sull’Aurelia che fa parte delle numerose e pressoché sconosciute proprietà della Chiesa che si estendono in questo quadrante romano fino a San Pietro. Dentro, filippini appunto, e questo cardinale, Luis Antonio Gokim Tagle, detto Chito (da Luisito), arcivescovo di Manila, una delle più grandi diocesi del pianeta, che non si distingue per abbigliamento e per modi dagli altri ospiti dell’istituto. Eppure quest’uomo di sessant’anni, portati con l’immunità all’età di cui godono gli orientali, è
un teologo raffinatissimo, il presidente della Caritas Internationalis e il ponte più solido tra la Chiesa di Roma e l’Asia, che vuol dire soprattutto Cina. È un uomo che guarda l’Occidente da Oriente e quando gli si fa notare che i soliti bene informati sulle ispirazioni dello Spirito Santo lo danno come futuro Papa, fa la cosa che gli viene più naturale: ride di nuovo. Ma è, di nuovo, una risata orientale, un codice di dialogo, che va oltre le convenzioni e affonda le radici nella teologia. Gesù Cristo, sottolinea Tagle, è asiatico.
Prego?
«La prima volta che l’ho realizzato pienamente è stato durante il sinodo straordinario del 1998. Giovanni Paolo II ha detto ai vescovi dell’Asia: ricordate che Gesù Cristo è nato in Asia e dall’Asia la sua luce si è estesa a tutto il mondo. Ci fu un grande silenzio, quasi incredulo. Avevamo dimenticato che anche il Medio Oriente è Oriente. Gesù aveva una cultura, un modo di vivere e di parlare orientale: la narrazione invece delle astrazioni, il rapporto umano durante il cibo, le parole semplici per dire cose profonde».
L’insegnamento evangelico contiene tratti greci ma anche echi che vengono da molto più lontano. Quanto lontano?
«Quasi tutte le religioni mondiali sono nate in Oriente. In quest’area del mondo c’è una atmosfera che spinge a cercare il senso della vita. Un’esperienza semplice e profonda che poi si struttura in una filosofia. Il Buddha, gli Ebrei, i profeti, Maometto, Gesù sono tutti sapienti itineranti che cercano con il corpo e con l’anima. E in questo percorso attirano e mescolano pensieri e culture altrui. Oggi la storia si ripete anche nella spiritualità: la riscoperta dell’induismo per esempio o del buddismo, la meditazione».
Dossetti ha sostenuto che i poli con cui si sarebbe in futuro confrontato il cristianesimo sarebbero stati, non l’islam, ma l’induismo dal punto di vista politico e il buddismo da quello teologico.
«È una profezia che oggi si può verificare sul campo. C’è una tendenza a focalizzarsi sull’islam, perché molti lo collegano direttamente al terrorismo. Ma India, Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka (cioè la metà dell’Asia), sono influenzati dall’induismo. Sperimentiamo un tipo di induismo politicizzato. Esteriormente l’induismo è molto aperto: basta entrare in uno dei loro templi per vedere immagini di santi cristiani, di Buddha e altri: i simboli parlano di apertura. Ma quando una religione è politicizzata, l’apertura diventa superiorità».
E il buddismo? Negli ultimi anni si è diffuso in Occidente e ha dato risposte che il cristianesimo forse non sa più dare.
«Fra le religioni forse il buddismo è percepita come la più aperta. E questa apertura si esplica nella sua flessibilità che è la sua forza. Ma anche la sua debolezza. Perché la capacità di adeguarsi viene utilizzata in politica. Per esempio in Birmania».
Anche il cristianesimo ha preso le armi e si è politicizzato.
«Grazie al Vaticano II c’è un incoraggiamento ad avere un rapporto aperto con le altre fedi e a sanare le ferite causate dalla chiesa nel passato».
Dopo la Guerra Fredda e ciò che è stato definito “la fine della storia” non ha l’impressione che invece la storia non solo sia ripartita ma lo faccia attraverso fenomeni molto antichi e che forse in Occidente facciamo fatica a intercettare?
«Ho l’impressione che alcuni commenti e alcune risposte dei politici, specialmente del nord dell’Atlantico, ai fenomeni migratori siano troppo semplici. In Oriente vediamo che il fenomeno contemporaneo è semplicemente una continuazione di una storia che si ripete. La storia dell’umanità, specialmente dalla parte dell’Asia, è una storia scritta dal movimento delle genti che portano idee, culture e politiche. Una storia non lineare perché quando c’è movimento c’è anche reazione. E il movimento diventa una lotta».
La chiesa filippina è la più grande risorsa del Vaticano per parlare con la Cina. È così?
«Ci sono vari livelli di rapporto con la Cina. Oltre a quello ufficiale ci sono quelli che nel mondo asiatico sono più efficaci. L’arcidiocesi di Manila ha un corso di formazione continuo per preti e suore che arrivano dalla Cina. Con questa gente nascono rapporti personali. Nella tradizione cinese c’è anche una diplomazia del sorriso, del cibo, dell’ospitalità. Io stesso ho ricevuto tanti inviti in Cina, mio nonno era cinese».
Le sembrano tempi di dialogo questi?
«È un mondo ansiogeno, pieno di dipendenze di ogni tipo, non solo la droga o l’alcol. Secondo la mia esperienza questa irrequietezza è fomentata dall’ansia di promuovere il bene individuale, il “mio” bene. I muri che proteggono “me stesso”, ”il mio” Paese sono la nostra tomba».
Siamo tutti morti? Ma lei crede nella resurrezione.
«Anche nel mondo d’oggi per promuovere la resurrezione dell’essere umano dobbiamo imparare la narrazione, raccontare le storie di esseri umani concreti. O hai essere concreti che soffrono davanti a te oppure devi avere le loro storie. Per aprire i cuori a quelli che hanno già scelto di morire perché hanno costruito le loro tombe, per svegliarli».
Lei è cresciuto e vive accanto ai poveri. Non pensa che il liberismo abbia trasformato la povertà in una colpa?
«Sicuramente. Non si riesce a vedere che la povertà non ha una sola causa, come la pigrizia: esiste un’ingiustizia legittimata che impedisce la crescita di alcuni. Nelle Filippine la povertà ha indotto alcuni genitori a mettere online le foto dei figli. I clienti sono fuori dal Paese. Cosicché a loro non sembra un abuso reale: i clienti non toccano fisicamente i figli. Perché, mi chiedo, per i poveri internet è solo deumanizzazione? C’è una struttura della povertà, c’è un sistema che sancisce la povertà».
Nei suoi libri non è mai citata la parola democrazia. Perché?
«La democrazia in Asia è una eredità postcoloniale. Siamo consapevoli che è una benedizione per l’umanità, ma l’elemento culturale manca. Una democrazia imposta crea una specie di schizofrenia: quando la legge mi appoggia la seguo, quando la legge non scritta mi appoggia seguo quella. Occorre iniziare un processo perché ogni cultura scopra la propria versione della democrazia. Senza questo rimane solo un contratto, scritto nei documenti e nelle carte».
“Ogni cultura deve scoprire da sola la sua versione della democrazia”
IL LIBRO E L’EVENTO Il rischio della speranza di LuisAntonio Gokim Tagle (Emi, pagg. 160, euro15) sarà in libreria il 19 ottobre Tagle sarà ospite al Festival della Missione, a Brescia da oggi al 15 ottobre

il manifesto 13.10.17
Editoria italiana in crescita, ma timidamente
Dati Aie 2017. Presentati alla Buchmesse i dati Nielsen per l'Associazione Italiana Editori. La crescita è live ema c'è. Eppure i lettori continuano a calare
redazione cultura

I dati Nielsen per l’Aie, appena presentati e discussi nell’ambito della Buchmesse di Francoforte, segnalano un mercato editoriale italiano in crescita, seppure assai lenta: 1% in più (mentre il dato a copie registra il -1,3%, corrispondente a 740 mila copie di libri venduti in meno).
Calano in maniera piuttosto consistente i lettori, -3,1% nel 2016. Se confrontata con altre editorie, il nostro paese registra, in senso assoluto, la più bassa percentuale dei lettori; per la precisione una media del 40,5% nel 2016, contro il 90% della Norvegia ma anche il 62,2% della Spagna, il 68,7% della Germania, il 73% degli Stati Uniti e l’84% della Francia. In calo, seppur lieve, anche i lettori di ebook.
Il presidente AIE, Ricardo Franco Levi, è deciso a perseguire un progetto di lungo periodo, rintracciando ciò che chiama «la grande scommessa», ovvero «lavorare tutti insieme per far crescere nuovi lettori. A partire dalla scuola». Se nel 2016 le case editrici italiane hanno venduto all’estero 6.565 diritti di edizione al mercato straniero, acquistandone per 9.552 titoli, si assiste – rispetto al 2015 – a una crescita promettente e sempre più solida che si attesta su una crescita dell’11% nelle vendite all’estero (con una media annua del +17,6%).
La libreria rimane luogo di elezione per la vendita di libri, seppure larghe fette siano state intercettate ed erose dal commercio online (le librerie online crescono dal 3,5% nel 2008 all’attuale 17%). Non regge invece la grande distribuzione, «canale malato» (come si legge nella sintesi dell’AIE) dell’editoria italiana.