giovedì 12 ottobre 2017

Il Fatto 12.10.17
Il vino amaro e la rabbia. Vi racconto mio padre”
La figlia: “Persona, non personaggio”
di Alessandro Ferrucci

Una sera di tre anni fa Claudia Endrigo dà forza a un pensiero, un sogno emarginato da troppo tempo: si mette davanti a un tavolino e butta giù una pagina scritta, qualche ricordo di suo padre Sergio; così un’immagine fissata nella mente, improvvisamente diventa prosa, non solo parole in musica. “Da lì ho ritrovato tutti gli articoli dedicati a papà, li ho letti e studiati, ho capito anche quando le frasi non erano sue, ma solo attribuite. Quindi ho contattato gli amici del tempo, compreso un compagno del liceo e tutti coloro i quali hanno lavorato con lui”. Risultato: una biografia bella, intesa, in alcune righe cruda, non sembra neanche scritta da una figlia per quanto, a volte, è distaccata nell’analisi di un artista, un uomo in grado di scrivere pagine importanti della musica autoriale italiana, ma un po’ dimenticate.
Ha tolto molti filtri, ha parlato a fondo dei momenti difficili.
Perché papà non avrebbe voluto un santino o un racconto agiografico. Lui non si nascondeva, non è mai stato un personaggio, ma ha preferito restare una persona.
Che persona era?
Di una dolcezza e una sincerità imbarazzanti, oltre a essere nevrotico con un passato complicato da digerire.
Questo passato era così presente?
Sì. E solo da pochi anni si è sdoganata l’idea di analisi e di depressione; un tempo no, non se ne parlava, sembrava una malattia della quale vergognarsi. L’ho sempre sostenuto: lui ha fatto parte di quella categoria di persone, per le quali si diventa i peggiori nemici di se stessi.
Vasco Rossi canta: “Non sono gli uomini a tradire ma i loro guai”.
Spesso è così, poi c’è chi li vuole affrontare e chi no.
Il libro è servito a sciogliere dei nodi tra voi due?
No. Lui con me era introverso e timido, ma nonostante questo ho ricevuto amore assoluto, specialmente durante la mia infanzia. A volte ha rinunciato alla carriera per la famiglia.
Quando?
Nei momenti d’oro: d’estate doveva andare in tournée, rifiutava per passare i mesi con la famiglia. Noi contavamo più del suo “io”.
L’immagine è quella di artista ombroso.
E non lo era, ma se ti attaccano un’etichetta, è complicato toglierla. Lui diceva: “Non sono come Gianni Morandi: lui ha un viso tale che sembra sorridere anche quando è serio”.
Suo padre ne soffriva?
Sempre nel suo periodo d’oro, c’era Alighiero Noschese che in prima serata su Rai1 si mascherava da mio padre e cantava: “Per fare la bara ci vuole il morto”, e circondato da ragazze a lutto. Una sera papà chiamò Bernardini (celebre organizzatore musicale) e gli disse: “O Noschese la pianta o gli spacco la faccia”.
Risultato?
Smise.
Lei racconta che Endrigo non amava esibirsi in pubblico.
Allora un parametro poteva essere Adriano Celentano, la sua forza, il perenne movimento; mentre papà sembrava ingessato: era solo la sua natura.
Da ragazza ascoltava le sue canzoni?
No, l’ho scoperto da grande. Il mio primo disco è stato Rimmel di De Gregori: da lì mi sono illuminata e ho intrapreso un percorso verso papà, fino a rispolverare pezzi che lui aveva quasi abbandonato.
Tipo?
Le parole dell’addio, all’inizio canta: “Sono false sono di Giuda, sono false come il fumo, che si perde nel vento. Sanno di vino amaro”.
Di vino si parla nel libro…
Era parte della sua fragilità: la sera stappava e iniziava, solo la sera. Quando è stata chiara la natura del bere, e dopo l’ischemia, d’accordo con il dottore, di nascosto abbiamo iniziato a dargli degli antidepressivi e ha smesso.
La prefazione è di Baglioni.
Perché più volte ha raccontato: senza artisti come Endrigo forse non avrei mai intrapreso questa professione.
Finita l’ultima pagina, cosa ha provato?
Una mancanza ancora più forte. Il libro non ha avuto un effetto catartico.
La sua canzone preferita?
L’ultima che ha scritto, quando canta: “Altre emozioni arriveranno, te lo prometto amico mio”.