Il Fatto 9.10.17
Kabul, da 16 anni il nulla con i miliardi intorno
All’Italia
(seconda solo agli Stati Uniti) la missione costa 1,3 milioni di euro
al giorno. Dal 7 ottobre 2001 pochi risultati. E i talebani controllano
metà Paese
di Enrico Piovesana
Sette miliardi e
mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno, un milione e
trecentomila euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la
cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla
campagna militare afgana, la più lunga della nostra storia, secondo il
rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio
Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa
guerra, iniziata il 7 ottobre 2001.
In realtà l’onere finanziario
complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i
suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di
armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro
continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il
ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non
da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti
e mutilati.
In sedici anni la guerra in Afghanistan è costata
complessivamente 900 miliardi di dollari: 28mila dollari per ogni
cittadino afgano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno).
In
termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53
italiani) e di 140mila afgani tra combattenti (oltre 100mila, un terzo
governativi e due terzi talebani) e civili (35mila, in aumento negli
ultimi anni, quelle registrate dall’Onu: dato molto sottostimato che non
tiene conto delle tante vittime civili non riportate). Senza
considerare i civili afgani morti a causa dell’emergenza umanitaria
provocata dal conflitto: 360mila secondo i ricercatori americani della
Brown University.
Chi sostiene la necessità di portare avanti
questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A
parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62%
di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile
(limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni
internazionali e Ong, non certo alla Nato), l’Afganistan ha ancora oggi
il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su
mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni,
terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più
poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite).
Politicamente,
il regime integralista islamico afgano (fondato sulla sharìa e guidato
da ex signori della guerra della minoranza tagica) è tra i più
inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di
diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la
norma. Per non parlare del problema del narcotraffico (si veda articolo
accanto).
La cartina al tornasole dei progressi portati dalla
presenza occidentale è il crescente numero di afgani che cerca rifugio
all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli
afgani sono i più numerosi dopo i siriani.
Anche dal punto di
vista militare i risultati sono deludenti. Dopo sedici anni di guerra, i
talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà Paese. Una
situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald
Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al
fronte, e la Nato a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla
prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di
bisogno.
Sul fronte occidentale sotto comando italiano dove, per
fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati
(un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello Usa: alpini
della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini
paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le
offensive dei soldati afgani.
Gli esperti militari dubitano del
successo di questa strategia: perché mai poche migliaia di truppe che
combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero
riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150mila soldati
occidentali armati fino ai denti? Secondo esperti e diplomatici, l’unica
via d’uscita è il dialogo con i talebani e la loro inclusione in un
governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe Usa e Nato e la
riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e
cooperazione.
È opportuno ricordare che i talebani, fortemente
sostenuti dalla maggioranza pashtun degli afgani, non rappresentano una
minaccia per l’Occidente poiché la loro agenda è la liberazione
nazionale, non la jihad internazionale: combattono i jihadisti stranieri
dell’Isis-Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai
organizzato attentati in Occidente (né hanno avuto alcun ruolo negli
attacchi dell’11 settembre, che avevano apertamente condannato).
L’alternativa
è il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha
la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di
caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per
formazioni terroristiche transnazionali come ISis-Khorasan.
Una
prospettiva pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico,
poiché uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto
permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a
scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse (Russia,
Cina, Iran, Pakistan) desiderose di estendere la loro influenza
strategica, stroncare il narcotraffico afgano che le colpisce e, non
ultimo, mettere le mani sulle ricchezze minerarie afgane (in particolare
le ‘terre rare’ indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i
mille e i tremila miliardi di dollari.