Il Fatto 9.10.17
Un protettorato fondato su tonnellate di oppio
di E.Pio.
L’eroina
è tornata a uccidere nelle nostre città: 266 morti per overdose l’anno
scorso, soprattutto tra i giovanissimi. L’allarme è rimbalzato su tv e
giornali, che hanno parlato di droga spacciata dai nigeriani. Non un
cenno all’origine di questa nuova epidemia: l’Afganistan sotto
occupazione occidentale, fonte dell’80% dell’eroina globale, che
raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma
soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale.
La
produzione afgana di oppio, iniziata negli Anni 80 nelle zona
controllate dai mujaheddin sostenuti dalla Cia e cresciuta negli Anni 90
durante la guerra civile, era stata bandita dai talebani nel 2000.
Sotto l’occupazione alleata, con il ritorno al potere dei mujaheddin, la
produzione è ripartita e nel giro di pochi anni ha superato ogni record
storico: oggi in Afghanistan ci sono 200 mila ettari di piantagioni di
papavero contro le 80-90 mila di epoca talebana, con una produzione
annua di 5-6 mila tonnellate contro le 3 mila di fine Anni 90. Un boom
produttivo che, dice l’Onu, riguarda le regioni settentrionali del Paese
(+324% nel 2016) controllate dal governo, mentre nel sud sotto
controllo talebano la produzione è stabile.
A gestire il business
afgano della droga non sono i guerriglieri islamici bensì i signori
della droga legati al governo sostenuto dall’Occidente. “Gli insorti
afgani intascano mediamente non più del 2,5%-5% del valore di
esportazione dell’eroina afgana”, spiegavano nel 2006 Onu e Banca
Mondiale e poi di nuovo l’Onu nel 2009, sottolineando che “i 25-30 più
grossi narcotrafficanti afgani controllano le principali transazioni e
spedizioni lavorando a stretto contatto con complici che ricoprono alte
cariche governative”. A volte sono essi stessi parte del governo, come
nel caso del defunto Ahmend Wali Karzai, boss di Kandahar e fratello
dell’allora presidente, o di Sher Mohammed Akhundzada, ex governatore
della provincia di Helmand, o di Mohammed Fahim, vicepresidente della
Repubblica e ministro della Difesa, o del generale Abdul Rashid Dostum,
vicepresidente e capo di stato maggiore delle forze armate, o di
Mohammed Daud Daud, viceministro dell’Interno con delega all’antidroga.
Boss del narcotraffico ma intoccabili per il loro ruolo
politico-militare o perché informatori della Cia o alleati della Nato.
Afghanistan,
Stati Uniti e Nato hanno deciso di sacrificare la lotta alla droga in
nome di quella al terrorismo. La stessa scelta fatta in Europa, Asia e
America Latina in nome della lotta al comunismo.
Per mantenere il
controllo, gli americani si sono alleati con potenti criminali e signori
della guerra locali, chiudendo un occhio su tutta l’industria della
droga afgana risorta dopo il 2001. Una strategia che ha garantito non
solo la tenuta del protettorato Usa/Nato in Afghanistan, ma anche quella
delle grandi banche di Wall Street dopo la crisi del 2008 grazie
all’enorme massa di narcodollari riciclati e immessi nel circuito
finanziario: unica quanto vitale liquidità disponibile all’epoca, come
denunciato dall’ex direttore generale del dipartimento antidroga e
anticrimine dell’Onu, Antonio Maria Costa.