Il Fatto 8.10.17
Le parole possono fermare i fanatici
Quando
qualcuno urla “morte agli arabi” cosa intende? Chi deve ucciderli
esattamente? Se tocca a lui, che fa, suona i campanelli del suo
condominio e se chi apre è un arabo lo sgozza?
di Amos Oz
Insomma,
come si cura un fanatico? Partire dall’inseguimento di un gruppo di
esaltati armati sulle montagne dell’Afghanistan, nel deserto dell’Iraq o
nelle città della Siria è una cosa. Combattere contro il fanatismo in
sé è tutt’altra.
L’attacco alle Torri gemelle di New York, l’11
settembre 2001, così come altre decine di attentati in centri urbani e
luoghi affollati in diverse parti del mondo, non è il frutto della
rabbia che i poveri nutrono contro i ricchi. Questa guerra si gioca tra i
fanatici, convinti che il loro fine giustifichi qualunque mezzo, e
tutti gli altri, per i quali la vita è un fine, non un mezzo. È una
battaglia fra chi ritiene che, a prescindere da quello che intenda per
“giusto”, il giusto sia più importante della vita stessa, e gli altri,
secondo i quali la vita viene prima di quasi tutti gli altri valori.
Molti
dimenticano che l’islam estremista non ha affatto il monopolio del
fanatismo violento. Il fanatismo è molto più antico dell’islam. Più
antico del cristianesimo e dell’ebraismo. Chi tira bombe contro gli
studi medici in cui si praticano aborti, chi uccide immigrati in Europa,
chi assassina donne e bambini ebrei in Israele, chi brucia una casa con
dentro un’intera famiglia palestinese nei Territori occupati da
Israele, chi profana sinagoghe, chiese, moschee e cimiteri, tutti
costoro sono diversi da al Qaeda e dall’Isis per quello che fanno e per
la misura del loro operato, ma non nella natura dei loro misfatti. Oggi
si parla di “crimini d’odio”, ma forse sarebbe meglio dire “crimini di
fanatismo”.
Un importante scrittore israeliano, Sami Michael,
raccontò un giorno di un lungo viaggio in macchina insieme a un autista.
A un certo punto questi cominciò a spiegargli quanto importante, e pure
urgente, fosse per noi ebrei “uccidere tutti gli arabi!”. Sami Michael
ascoltò educatamente finché l’autista non ebbe finito la sua concione e,
invece di scandalizzarsi, gli fece una domanda ingenua: “E chi, secondo
lei, dovrebbe uccidere tutti gli arabi?”. “Noi! Gli ebrei! Bisogna
farlo! O noi o loro! Non vede cosa ci fanno continuamente?” “Ma chi di
preciso dovrebbe uccidere tutti gli arabi? L’esercito? La polizia? O i
pompieri? O i medici in camice bianco, con delle iniezioni?”. L’autista
si grattò il capo, tacque, rifletté sulla domanda e alla fine rispose:
“Bisogna dividerci il compito fra noi. Ogni maschio ebreo dovrà uccidere
alcuni arabi”.
Sami Michael non si arrese: “Va bene. Diciamo che
lei, in quanto cittadino di Haifa, ha in carica un condominio della sua
città. Passa di porta in porta, suona il campanello, domanda
educatamente agli inquilini: ‘Scusi, siete per caso arabi?’. Se
rispondono di sì lei 31 spara e li uccide. Finito di uccidere tutti gli
arabi del condominio che le è stato assegnato, scende e se ne va a casa e
allora, prima di allontanarsi, sente improvvisamente da un piano alto
il pianto di un neonato. Che fa? Torna indietro? Sale su per le scale e
spara al neonato? Sì o no?”. Lungo intervallo di silenzio. L’autista
meditò. Alla fine rispose al suo passeggero: “Senta, signore, lei è una
persona veramente crudele!”. Questa storia fa uscire allo scoperto
qualcosa del guazzabuglio che si trova talora nell’animo del fanatico:
un insieme di ottusità, sentimentalismo e scarsa fantasia. Grazie a quel
neonato Sami Michael ha costretto il fanatico seduto al volante a
mettere in funzione la propria fantasia, facendo con ciò vibrare le sue
corde emotive. L’autista, che amava i bambini, è rimasto interdetto, si è
offeso, si è riempito di rabbia per quel passeggero che lo ha costretto
a materializzare in una terribile immagine l’astratto slogan “Morte
agli arabi!”. Ed ecco che proprio nella rabbia di quell’autista è forse
riposto un barlume di speranza, per quanto timida e parziale: quando il
fanatico si trova nella condizione di dare concretezza allo slogan, di
configurare i tratti dell’orrore e di mettersi nei panni dell’assassino
di un neonato, forse a volte – solo a volte – si risveglia in lui un
certo disagio. Una lieve esitazione. Compare tutt’a un tratto una crepa
nell’ottusa muraglia del fanatismo.
Certo, non si tratta di una
medicina miracolosa. Ciononostante, forse ogni tanto l’attivarsi
dell’immaginazione, la costrizione a osservare molto più da vicino la
sofferenza delle vittime, forse tutto ciò ogni tanto può fare da
contraltare all’astratta crudeltà di formule quali “Morte agli arabi!” o
“Morte agli ebrei!” o “Morte ai fanatici!”. Uccidere tutti gli arabi è
molto più facile che uccidere un solo neonato arabo.
La storia di
Sami Michael, che riuscì a mettere in imbarazzo o a confondere per un
attimo l’autista che invocava l’uccisione di tutti gli arabi, dimostra
che al fanatico non piace immaginare i dettagli del gesto al quale si
vota con ardore. Gli piace lo slogan, il proclama, sempre che non si
trovi costretto a tradurlo in urla, suppliche, gemiti di agonia, pozze
di sangue, cervelli spappolati sul marciapiede. È vero che il mondo è
pieno di sadici ma gran parte dei fanatici non è fanatica per sadismo,
anzi, lo è per ideali astratti, desiderio di redenzione e riscatto
universale in nome dei quali “ci si deve liberare dei malvagi”. Chissà
se ad alcuni fanatici, nel momento in cui traducessero lo slogan
“Dobbiamo annientare tutti i malvagi” in una descrizione delle
sofferenze che ciò necessariamente implica – sofferenze terribili e
strazianti – tremerebbe la mano… Almeno a quelli che non sono anche dei
sadici patologici…
Immaginare il mondo interiore, le idee e anche
le emozioni dell’altro da sé: farlo pure nel momento dello scontro.
Farlo anche – anzi: soprattutto – mentre dentro di noi monta quel
miscuglio febbrile di rabbia, umiliazione, obbrobrio, tracotanza e
incrollabile convinzione di aver subìto un torto, di essere dalla parte
del giusto. Forse anche chiederci di tanto in tanto, “E se io fossi
stato lei? O lui? O loro?”, mettendosi per un attimo nei panni del
prossimo e persino nella sua pelle non per attraversare il fiume o
“rinascere”, ma soltanto per capire e anche sentire quel che c’è laggiù:
cosa ’è oltre il fiume? Che cosa hanno in testa? Come si sentono
laggiù? E che aspetto abbiamo noi, da laggiù?
Questa curiosità non
ci conduce necessariamente a un relativismo etico onnicomprensivo e
neanche alla negazione di sé in nome dell’affermazione dell’altro. Ci
conduce, ogni tanto, a una scoperta sensazionale, la scoperta che
esistono molti fiumi, che da ogni sponda di quei fiumi si vede un
paesaggio diverso, affascinante e sorprendente; che sono affascinanti
anche se non si attagliano a noi, sorprendenti anche se non ci
conquistano. Forse la curiosità ha davvero un potenziale di apertura, di
tolleranza.