domenica 8 ottobre 2017

Il Fatto 8.10.17
Le parole possono fermare i fanatici
Quando qualcuno urla “morte agli arabi” cosa intende? Chi deve ucciderli esattamente? Se tocca a lui, che fa, suona i campanelli del suo condominio e se chi apre è un arabo lo sgozza?
di Amos Oz

Insomma, come si cura un fanatico? Partire dall’inseguimento di un gruppo di esaltati armati sulle montagne dell’Afghanistan, nel deserto dell’Iraq o nelle città della Siria è una cosa. Combattere contro il fanatismo in sé è tutt’altra.
L’attacco alle Torri gemelle di New York, l’11 settembre 2001, così come altre decine di attentati in centri urbani e luoghi affollati in diverse parti del mondo, non è il frutto della rabbia che i poveri nutrono contro i ricchi. Questa guerra si gioca tra i fanatici, convinti che il loro fine giustifichi qualunque mezzo, e tutti gli altri, per i quali la vita è un fine, non un mezzo. È una battaglia fra chi ritiene che, a prescindere da quello che intenda per “giusto”, il giusto sia più importante della vita stessa, e gli altri, secondo i quali la vita viene prima di quasi tutti gli altri valori.
Molti dimenticano che l’islam estremista non ha affatto il monopolio del fanatismo violento. Il fanatismo è molto più antico dell’islam. Più antico del cristianesimo e dell’ebraismo. Chi tira bombe contro gli studi medici in cui si praticano aborti, chi uccide immigrati in Europa, chi assassina donne e bambini ebrei in Israele, chi brucia una casa con dentro un’intera famiglia palestinese nei Territori occupati da Israele, chi profana sinagoghe, chiese, moschee e cimiteri, tutti costoro sono diversi da al Qaeda e dall’Isis per quello che fanno e per la misura del loro operato, ma non nella natura dei loro misfatti. Oggi si parla di “crimini d’odio”, ma forse sarebbe meglio dire “crimini di fanatismo”.
Un importante scrittore israeliano, Sami Michael, raccontò un giorno di un lungo viaggio in macchina insieme a un autista. A un certo punto questi cominciò a spiegargli quanto importante, e pure urgente, fosse per noi ebrei “uccidere tutti gli arabi!”. Sami Michael ascoltò educatamente finché l’autista non ebbe finito la sua concione e, invece di scandalizzarsi, gli fece una domanda ingenua: “E chi, secondo lei, dovrebbe uccidere tutti gli arabi?”. “Noi! Gli ebrei! Bisogna farlo! O noi o loro! Non vede cosa ci fanno continuamente?” “Ma chi di preciso dovrebbe uccidere tutti gli arabi? L’esercito? La polizia? O i pompieri? O i medici in camice bianco, con delle iniezioni?”. L’autista si grattò il capo, tacque, rifletté sulla domanda e alla fine rispose: “Bisogna dividerci il compito fra noi. Ogni maschio ebreo dovrà uccidere alcuni arabi”.
Sami Michael non si arrese: “Va bene. Diciamo che lei, in quanto cittadino di Haifa, ha in carica un condominio della sua città. Passa di porta in porta, suona il campanello, domanda educatamente agli inquilini: ‘Scusi, siete per caso arabi?’. Se rispondono di sì lei 31 spara e li uccide. Finito di uccidere tutti gli arabi del condominio che le è stato assegnato, scende e se ne va a casa e allora, prima di allontanarsi, sente improvvisamente da un piano alto il pianto di un neonato. Che fa? Torna indietro? Sale su per le scale e spara al neonato? Sì o no?”. Lungo intervallo di silenzio. L’autista meditò. Alla fine rispose al suo passeggero: “Senta, signore, lei è una persona veramente crudele!”. Questa storia fa uscire allo scoperto qualcosa del guazzabuglio che si trova talora nell’animo del fanatico: un insieme di ottusità, sentimentalismo e scarsa fantasia. Grazie a quel neonato Sami Michael ha costretto il fanatico seduto al volante a mettere in funzione la propria fantasia, facendo con ciò vibrare le sue corde emotive. L’autista, che amava i bambini, è rimasto interdetto, si è offeso, si è riempito di rabbia per quel passeggero che lo ha costretto a materializzare in una terribile immagine l’astratto slogan “Morte agli arabi!”. Ed ecco che proprio nella rabbia di quell’autista è forse riposto un barlume di speranza, per quanto timida e parziale: quando il fanatico si trova nella condizione di dare concretezza allo slogan, di configurare i tratti dell’orrore e di mettersi nei panni dell’assassino di un neonato, forse a volte – solo a volte – si risveglia in lui un certo disagio. Una lieve esitazione. Compare tutt’a un tratto una crepa nell’ottusa muraglia del fanatismo.
Certo, non si tratta di una medicina miracolosa. Ciononostante, forse ogni tanto l’attivarsi dell’immaginazione, la costrizione a osservare molto più da vicino la sofferenza delle vittime, forse tutto ciò ogni tanto può fare da contraltare all’astratta crudeltà di formule quali “Morte agli arabi!” o “Morte agli ebrei!” o “Morte ai fanatici!”. Uccidere tutti gli arabi è molto più facile che uccidere un solo neonato arabo.
La storia di Sami Michael, che riuscì a mettere in imbarazzo o a confondere per un attimo l’autista che invocava l’uccisione di tutti gli arabi, dimostra che al fanatico non piace immaginare i dettagli del gesto al quale si vota con ardore. Gli piace lo slogan, il proclama, sempre che non si trovi costretto a tradurlo in urla, suppliche, gemiti di agonia, pozze di sangue, cervelli spappolati sul marciapiede. È vero che il mondo è pieno di sadici ma gran parte dei fanatici non è fanatica per sadismo, anzi, lo è per ideali astratti, desiderio di redenzione e riscatto universale in nome dei quali “ci si deve liberare dei malvagi”. Chissà se ad alcuni fanatici, nel momento in cui traducessero lo slogan “Dobbiamo annientare tutti i malvagi” in una descrizione delle sofferenze che ciò necessariamente implica – sofferenze terribili e strazianti – tremerebbe la mano… Almeno a quelli che non sono anche dei sadici patologici…
Immaginare il mondo interiore, le idee e anche le emozioni dell’altro da sé: farlo pure nel momento dello scontro. Farlo anche – anzi: soprattutto – mentre dentro di noi monta quel miscuglio febbrile di rabbia, umiliazione, obbrobrio, tracotanza e incrollabile convinzione di aver subìto un torto, di essere dalla parte del giusto. Forse anche chiederci di tanto in tanto, “E se io fossi stato lei? O lui? O loro?”, mettendosi per un attimo nei panni del prossimo e persino nella sua pelle non per attraversare il fiume o “rinascere”, ma soltanto per capire e anche sentire quel che c’è laggiù: cosa ’è oltre il fiume? Che cosa hanno in testa? Come si sentono laggiù? E che aspetto abbiamo noi, da laggiù?
Questa curiosità non ci conduce necessariamente a un relativismo etico onnicomprensivo e neanche alla negazione di sé in nome dell’affermazione dell’altro. Ci conduce, ogni tanto, a una scoperta sensazionale, la scoperta che esistono molti fiumi, che da ogni sponda di quei fiumi si vede un paesaggio diverso, affascinante e sorprendente; che sono affascinanti anche se non si attagliano a noi, sorprendenti anche se non ci conquistano. Forse la curiosità ha davvero un potenziale di apertura, di tolleranza.

Il Fatto 8.10,17
“Il carabiniere violento mi disse: siamo protetti”
Massa, la denuncia di un testimone. Il ruolo degli ufficiali e le “soffiate”
“Il carabiniere violento mi disse: siamo protetti”
di Ferruccio Sansa

“Non ho paura dei capi. Il mio superiore mi ha assicurato che posso stare tranquillo’, il carabiniere violento mi disse proprio così”. È il racconto di uno dei testimoni nell’inchiesta sulle violenze che sarebbero state commesse dai carabinieri di Aulla. Insomma, i militari della caserma della Lunigiana – accusati di aver minacciato, insultato, picchiato e sottoposto a violenze sessuali degli immigrati – ritenevano di avere le spalle coperte dai superiori. I pm Alessia Iacopini, Marco Mansi e il procuratore di Massa Aldo Giubilaro che hanno in mano l’inchiesta forse all’inizio hanno creduto che quella frase potesse essere una millanteria. Ma poi hanno cambiato idea, si sono convinti che qualcuno all’interno dell’Arma forse davvero copriva i colleghi indagati. Ecco allora lo sviluppo clamoroso dell’inchiesta che a giugno aveva portato a indagare 23 carabinieri (otto con misure cautelari): oggi gli indagati sono addirittura 37, con intere caserme, come quella di Aulla, azzerate. E altre, come quella di Pontremoli e Licciana, pesantemente toccate. A leggere le 44 pagine dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari non emerge il ritratto di qualche mela marcia, ma di un sistema che toccherebbe almeno le caserme della Val di Magra. Un impianto accusatorio che finora ha retto: uno degli 8 carabinieri sottoposti a misure cautelari ha fatto ricorso al Tribunale del Riesame che l’ha respinto ed è tuttora in carcere (si attende la Cassazione). Il Tar deve ancora pronunciarsi sulla sospensione dal servizio degli otto militari.
L’ultima novità è l’iscrizione tra gli indagati di Valerio Liberatori, tenente colonnello e comandante provinciale dei carabinieri di Massa (recentemente trasferito). Non è l’unico indagato per favoreggiamento: c’è anche il comandante della stazione di Pontremoli, Saverio Cappelluti. Scrivono i pm: “In particolare il Liberatori dava ordine al Cappelluti, o comunque assumeva insieme con quest’ultimo la decisione orale, di imporre al comandante della stazione di Aulla di predisporre servizi di pattuglia in cui ad Alessandro Fiorentino (tra i principali indagati) fosse impedito di svolgere il ruolo di capo pattuglia… così rendendo infruttuosa l’attività di intercettazione”. Ma indagato per favoreggiamento è anche Amos Benedetti, in servizio presso la stazione di Licciana Nardi, “perché aiutava Fiorentino a eludere le investigazioni, rivelandogli l’esistenza di un procedimento penale a suo carico e di intercettazioni sulle utenze a lui in uso”.
Oltre al favoreggiamento, c’è chi è accusato di rivelazione di segreto istruttorio: “Rivelava a Fiorentino l’esistenza di un procedimento a suo carico e di intercettazioni, notizie che dovevano rimanere segrete”. Un’inchiesta difficile. Con i carabinieri che hanno chiesto di indagare sui propri colleghi per poter dimostrare che l’Arma è sana. Ma qualcosa è andato storto. C’è stato anche chi ha chiesto ai superiori di essere sottratto alle indagini e dedicato ad altri compiti perché il clima era pesante. “Comunque sia l’inchiesta poggia su materiale raccolto da investigatori dell’Arma”, si fa notare in ambienti dei Carabinieri. E potrebbe essere soltanto il primo tassello: l’inchiesta sulla caserma di Aulla è conclusa, ma durante le indagini sarebbero emersi elementi che hanno dato il via a nuovi filoni. Tra l’altro si sta ancora cercando di stabilire se vi siano stati ricoveri in ospedale di persone picchiate nella caserma. Addirittura non è ancora esclusa l’ipotesi che vi sia una persona scomparsa. “Parliamo di immigrati, gente di cui a volte nessuno conosce il nome e la sorte. Persone dimenticate”, sospira uno degli investigatori. Un’ipotesi ancora senza riscontri, né indagati.
I 189 capi di imputazione riportati dai pm nell’avviso descrivono una caserma che sembra uscita da un film di Clint Eastwood. Ecco quattro militari accusati “di aver colpito ripetutamente (per un periodo di circa venti minuti) il signor K.E. con pugni, calci e scariche prodotte da due storditori elettrici (i teaser)… mentre costui era sdraiato a terra e ammanettato con le mani dietro la schiena”. Ma l’allora brigadiere della stazione di Aulla andava oltre: “Offendeva K.E. con espressioni come ‘fai schifo, marocchino bastardo’, con violenza e mediante abuso di autorità, mettendogli un dito nell’ano, e costringendolo a subire atti sessuali senza ragione alcuna se non razziale”. C’è poi chi “puntava la pistola al volto di A.R. e infilandogli la canna in bocca, proferiva le seguenti frasi ‘ti ammazzo’, ‘ti sparo’”. Un giochetto che all’immigrato costava un dente, lesioni al mento e all’arcata dentaria.
Altri episodi ricordano piuttosto film di Totò e Peppino De Filippo. Come quando alcuni appuntati in servizio ad Aulla la notte di Natale dichiarano di svolgere un servizio delicato per conto dell’Arma di Chieti. E invece sono a cena con i parenti. O quando due militari durante un controllo a un ambulante autorizzato “avendo avuto la disponibilità di un giocattolo erotico di forma fallica se ne appropriano”.
Un sistema che, secondo gli inquirenti, andava avanti da tempo. Poi gli immigrati si sono fatti coraggio e hanno cominciato a denunciare. Un avvocato che li difendeva ha presentato querela ed è stato minacciato: “Ti mandiamo a piedi”, gli avrebbe detto Alessandro Fiorentino, avvertendo che gli sarebbe stata tolta la patente. Perché i carabinieri di Aulla avevano paura dell’inchiesta giudiziaria. Non di punizioni interne, perché si sentivano le spalle coperte.

La Stampa 8.10.17
Joschka Fischer
“Se la Spagna va a pezzi l’Europa non regge”
L’ex ministro tedesco: Merkel e Macron guideranno la Ue “La Russia è una distrazione, la vera sfida è con la Cina”

«Le cause non sono europee ma le conseguenze lo sarebbero. È decisivo, per il futuro dell’Unione, che uno dei suoi membri essenziali, la Spagna, non vada a pezzi. Va trovata una soluzione nell’ambito della Costituzione; e sono gli spagnoli a doverlo fare. La sfida è però più generale: se prevalessero tendenze secessioniste, oggi in Catalogna domani altrove, l’Europa non reggerebbe».

Joschka Fischer, storico esponente dei Verdi tedeschi, è in buona forma. Al foro Aspen di Lugano, organizzato dall’ex segretario di stato Madeleine Albright, sostiene senza esitazioni che dopo le elezioni francesi e quelle tedesche l’Europa può farcela. La Brexit non ha generato un effetto domino: «Non ho buoni presentimenti su un accordo - dice - ma l’uscita di Londra non segnerà l’inizio della disgregazione europea». La Catalogna è a un punto critico, ma la razionalità dovrebbe prevalere: un accordo rafforzato di autonomia, con i suoi aspetti fiscali, è possibile. In Germania, il vecchio sistema politico ha subito una scossa: la fine della grande coalizione segna di fatto l’inizio del dopo Merkel. Ma l’accordo con Liberali e Verdi è più che probabile; la destra nazionalista di AfD, per la prima volta al Bundestag, avrà un peso secondario.
«Sono abbastanza ottimista - afferma sorridendo Fischer - sul futuro della Germania. Il 13% ad Alternative für Deutschland è deprimente ma fisiologico, e non peserà granché. Angela Merkel, seppure alquanto indebolita, guiderà l’Europa insieme a Macron nei prossimi anni. Dovremo farlo, l’America non lo farà più al nostro posto. E vista la rapidità della storia, non abbiamo più tempo da perdere».
In una pausa del Convegno Aspen, Fischer spiega che i veri problemi, per Angela Merkel, verranno dalla Csu, il partito bavarese: «La mia previsione è che Liberali e Verdi siano pronti ad entrare al governo. Chi è difficile da gestire è la Csu, che ha preso una brutta botta elettorale. La Baviera ha una storia politica particolare, mantenere la maggioranza assoluta è per la Csu - le elezioni statali saranno nel 2018 - una questione vitale. Per il resto, la Germania sa benissimo che l’alternativa a una coalizione con Verdi e Liberali sarebbe una fase di caos e instabilità, che favorirebbe solo Alternative für Deutschland. La classe politica tedesca non vuole correre questo rischio».
Ci si può chiedere, tuttavia, se questa nuova Germania sarà più ripiegata su se stessa o giocherà la carta delle riforme europee con Macron. Le posizioni di partenza dei Liberali sembrano abbastanza rigide, in realtà: «I tedeschi - risponde scherzoso Fischer - sono comunque tedeschi, nel senso che restano testardamente ancorati alla loro cultura economica, fiscalmente conservatrice. Io non sono d’accordo, ma è la realtà. Guardando al dibattito sull’Eurozona, tuttavia, la questione decisiva non sono i soldi. La questione vera è la fiducia o meglio la sua mancanza. Solo ricostruendo un certo grado di fiducia fra Nord e Sud, le riforme saranno possibili: più flessibilità e solidarietà da parte del Nord in cambio di riforme strutturali e di rispetto delle regole da parte del Sud. Depurata dalla retorica elettorale, la visione di Christian Lindner, il leader dei Liberali, non è poi così distante da quella di Macron. Sono convinto che Germania e Francia siano pronte ad accordi pragmatici, per esempio sull’Unione bancaria. Il futuro sarà comunque basato su un’Unione a due velocità: purtroppo, potrei aggiungere. Ma è l’unico assetto possibile. E l’Italia deve farne parte. Parlando di Italia, mi preoccupa la mancanza di una politica europea in materia di immigrazione. Ho sempre difeso e continuo a difendere lo sforzo straordinario fatto dal vostro Paese. Il sistema di Dublino è ormai morto nei fatti: ne va preso atto sul piano europeo».
Ma questa Europa ancora alle prese con se stessa e con le proprie successive crisi interne, riuscirà mai a diventare un attore globale? Macron, nel suo discorso alla Sorbona, ha parlato di un’Europa «sovrana», capace di difendere i propri interessi e valori nel mondo. È una ipotesi realistica? «Trump, che lo vogliamo o no, ha aperto un nuovo capitolo della storia atlantica. È abbastanza triste - osserva Fischer - che ci sia voluto Trump per spingerci a fare quello che avremmo dovuto fare comunque. L’elettorato americano non è più disposto a sostenere i costi della difesa europea. Dobbiamo cavarcela almeno in parte da soli. In un discorso che trovo molto giusto, Macron ha definito le condizioni perché l’Europa riesca a competere nel mondo globale. Gli equilibri stanno cambiando molto rapidamente. La Russia è in realtà una specie di grande distrazione; è troppo debole, economicamente, per essere la vera sfida del futuro. La sfida del 21° secolo sarà la Cina, con la sua proiezione euro-asiatica».
Un nuovo assetto dell’Atlantico, con un’America più distaccata e un’Europa più responsabile di se stessa, anche nella difesa. E dall’altra parte l’ Eurasia, con una Cina che si proietta da Est verso l’Africa e il Mediterraneo. Nel grande gioco disegnato al Forum di Aspen, l’Unione degli Stati europei non è una scelta ma una necessità geopolitica. «Per l’Europa - conclude Fischer salutandomi - è il momento della scelta vera: la scelta di esistere. Oggi o mai più».

Il Fatto 8.10.17
L’ex rettore dei Legionari con l’amante e due figli
di Fabrizia Caputo

È padre dei due figli avuti con la sua compagna. Niente di strano, se non fosse che si tratta di “padre” Oscar Turrion, l’ex Rettore di un seminario Pontificio del Collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae dei Legionari di Cristo, a Roma. Come riportato dall’Aci Press, l’Agenzia di Informazione Cattolica, venerdì, con una nota, l’ufficio di Comunicazione Internazionale dei Legionari di Cristo ha riferito che il 27 marzo il sacerdote “ha informato i superiori di avere avuto una figlia”. Per questo Oscar Turrion era stato sostituito ad agosto da un nuovo Rettore, proprio a causa della sua situazione personale.
Dai Legionari di Cristo specificano però che solo a distanza di sette mesi, padre Turrion “ha riconosciuto di avere un altro figlio con la stessa donna, qualche anno fa. Inoltre – prosegue la nota – egli ha espresso la sua intenzione di lasciare il ministero sacerdotale e di chiedere la dispensa degli obblighi contratti con la sua ordinazione”. Due figli, sempre dalla stessa compagna. Dai Legionari spiegano che Turrion è stato il formatore del Pontificio Accademia Internazionale Maria Mater Ecclesiae dal 2007, e venne nominato Rettore del Collegio per un triennio a partire dal 2014.
Adesso un altro scandalo per la Chiesa.
“Come responsabili di istituzioni dedicate alla formazione dei candidati al sacerdozio, siamo consapevoli – sottolineano i Legionari – dell’impatto che l’esempio negativo di un formatore e di un Rettore ha su di loro e sui fedeli cristiani. Siamo profondamente rattristati che la recente storia della nostra Congregazione ha causato il calo del fervore di alcuni dei nostri membri. Siamo fermamente impegnati ad accompagnare i nostri fratelli in momenti di difficoltà.
Allo stesso modo, ripetiamo il nostro impegno verso la via del rinnovamento”.

Repubblica 8.10.17
Rettore di seminario confessa “Lascio la tonaca, ho due figli”
Sostituito ad agosto, i Legionari di Cristo ora rivelano il vero motivo
di Paolo Rodari

CITTÀ DEL VATICANO.
Nel giorno in cui Papa Francesco ricorda ai rettori dei seminari, ai direttori spirituali e ai vescovi incontrati in un’udienza concessa alla Congregazione del Clero che «serve meno ambizione», un nuovo scandalo colpisce la Chiesa e un seminario di diritto pontificio, quel Collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae che fa parte dei Legionari di Cristo, e cioè il movimento ecclesiale fondato dal sacerdote Marcial Maciel Degollado già autore di abusi e violenze su minori.
Questa volta i fatti sono stati resi noti dalla stessa Congregazione religiosa: l’ex rettore del Mater Eccelesiae, padre Oscar Turrion, infatti, ha ammesso di avere una relazione con una donna e due figli. Turrion era già stato sostituito ad agosto scorso nel suo incarico, ma soltanto in queste ore i suoi confratelli hanno voluto comunicarne pubblicamente i motivi.
Dopo la morte di Degollado, che era riuscito fino al giorno della sua morte a guadagnare la piena fiducia di Giovanni Paolo II e dei suoi più stretti collaboratori, la Congregazione ha iniziato un percorso di pulizia e trasparenza interno voluto fortemente da Papa Benedetto XVI. Fu Joseph Ratzinger, infatti, a commissariare i Legionari inviando un suo uomo di fiducia, l’esperto canonista Velasio De Paolis, porporato curiale recentemente scomparso a causa di una grave malattia. Ed è propria la strada della trasparenza ad aver spinto la Congregazione a rendere pubblica la vicenda di Turrion, come avvenne nel 2012 per un altro personaggio di spicco del movimento. Allora fu padre Thomas Williams, decano della facoltà di teologia del pontificio ateneo Regina apostolorum, popolare scrittore e soprattutto volto noto della tv americana come commentatore di notizie vaticane per la Cbs news, a scuotere i Legionari e la Chiesa tutta ammettendo di aver avuto una relazione sessuale con una donna che lo ha anche reso padre.
Padre Turrion aveva informato a marzo i suoi superiori della relazione con una donna e di essere già padre di una figlia. Tramite il Vaticano, la Congregazione aveva in tempi brevi trovato un nuovo rettore, ma soltanto nelle scorse settimane il sacerdote ha rivelato di aver avuto un secondo figlio dalla stessa relazione spiegando come per lo stesso motivo egli sia intenzionato a lasciare il sacerdozio. Turrion, spagnolo, non ancora cinquantenne e appassionato di calcio, scendeva sempre in campo con i suoi seminaristi nelle partite delle Clericus Cup, il torneo fra seminari romani che si svolge ogni anno vicino a San Pietro. «Come responsabili di istituzioni dedicate alla formazione dei candidati al sacerdozio — hanno detto i Legionari — siamo consapevoli dell’impatto che l’esempio negativo di un formatore e di un rettore ha su di loro e sui fedeli cristiani. Siamo profondamente rattristati per il fatto che la recente storia della nostra Congregazione ha causato il calo del fervore di alcuni dei nostri membri. Siamo fermamente impegnati ad accompagnare i nostri fratelli in momenti di difficoltà. Allo stesso modo, ripetiamo il nostro impegno verso la via del rinnovamento».
La scorsa primavera la Congregazione aveva semplicemente concesso a Turrion un periodo di «riflessione» con l’impegno da parte del sacerdote di non esercitare in pubblico il proprio ministero. Ora però, da parte del sacerdote, è arrivata la richiesta di riduzione allo stato laicale per iniziare una nuova vita insieme alla sua donna. Turrion era stato scelto come rettore soltanto tre anni fa, nel 2014. Allora dichiarò di «apprezzare la fiducia» che i Legionari stavano riponendo in lui per svolgere il delicato compito di formare i nuovi sacerdoti.

La Stampa 8.10.17
Bidelli e segretari
Due milioni di domande per un lavoro a scuola
La previsione record per le prossime assunzioni Saranno disponibili circa ventimila posti in tre anni
di Flavia Amabile

Due milioni. Le domande per un posto da supplente precario come bidello, segretario o assistente di laboratorio nelle scuole dovrebbero raggiungere questa cifra record. Sono le stime circolate agli inizi di settembre in un incontro tra sindacati e il gabinetto del ministero. Si dovevano mettere a punto i dettagli della macchina amministrativa per le assunzioni e fare in modo che il sistema non si trovasse impreparato alla procedura di aggiornamento delle graduatorie di istituto a cui le scuole fanno riferimento per coprire i posti di lavoro rimasti vacanti.

Si è quindi convenuto che sarebbero stati intorno ai due milioni gli aspiranti al posto di supplenti del personale Ata, un lavoro con assunzione a tempo determinato. Le graduatorie vengono rinnovate ogni tre anni, bisogna tornare indietro al 2014 quindi per capire la portata di questo aumento: tre anni fa le domande erano state un milione. Stavolta dovrebbero essere il doppio.
Quante saranno effettivamente lo si saprà soltanto a fine ottobre quando scadrà il termine per la presentazione delle domande e, in via ufficiale, agli inizi di dicembre quando ci sarà un nuovo incontro al Miur tra sindacati e dirigenti del ministero per fare il punto sulla questione.
Nel frattempo quest’esercito di due milioni circa di aspiranti stanno mettendosi in fila in tutta l’Italia (o lo faranno nei prossimi giorni) per afferrare al volo l’opportunità unica di un settore che offre circa 20mila posti in tre anni. Se li contenderanno un esercito di persone pari quasi a sette disoccupati italiani su 10.
A compilare il modulo per l’assunzione sarà anche chi ha una laurea in tasca anche se in palio c’è un posto che, nella maggior parte dei casi, richiede soltanto un diploma di terza media, come è il caso dei collaboratori scolastici o di un diploma per i segretari o «una preparazione adeguata al settore» per gli assistenti di laboratorio.
Basterebbe aver studiato molto meno, insomma, per sperare di essere assunti; ma a fare la domanda può essere chiunque, anche chi non ha mai lavorato nel settore, quindi ci prova chiunque. Pure i laureati.
«Alla fine le domande saranno più del doppio e in tanti sono i laureati, soprattutto al Sud», denuncia Anna Fedeli, segretaria nazionale della Flc-Cgil. È la conferma peggiore dell’analisi diffusa dall’Ocse giovedì scorso, sugli italiani «bistrattati» che nell’11,7% dei casi ha competenze in eccesso e nel 18% sono sovra-qualificati
È la corsa al ribasso di questa Italia ancora incapace di offrire un futuro. Sono stati circa 200mila i professionisti che nelle scorse settimane hanno presentato domanda per ottenere un posto come supplente nelle scuole: avvocati, ingegneri, commercialisti disposti a lavorare come sostituti dei professori pur di assicurarsi un guadagno abbastanza sicuro. Sembrava già una pessima fotografia della crisi italiana. Ora si scopre che non era l’immagine peggiore.
« La muta eloquenza dei numeri dice tutto delle reali condizioni di un paese dove la crisi è tutt’altro che finita - afferma Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc-Cgil - Il tasso di disoccupazione è altissimo, in particolare tra i giovani. C’è bisogno di lavoro. Ecco la ragione dell’estrema proliferazione di domande di supplenza per la Terza fascia del personale tecnico e amministrativo. Senza dimenticare che la mole gigantesca di domande intasa ulteriormente le segreterie degli istituti scolastici, e pesa grandemente sul personale, già estremamente oberato da graduatorie dei docenti, amministrazione quotidiana, gestione abituale. Due condizioni di difficoltà si uniscono, e non certo per colpa di chi lavora e di chi il lavoro lo cerca. Resta grave l’indifferenza nei confronti delle segreterie scolastiche alle quali si scarica tutto ciò che sarebbe di competenza di centri ministeriali».
Pino Turi, segretario della Uil Scuola prova a dare anche un’interpretazione positiva a quello che sta accadendo: «Non so se le domande saranno effettivamente due milioni, so però che saranno molte di più rispetto a tre anni fa. È il segno di un’Italia che riesce ad offrire un lavoro soltanto nella scuola ma è anche qualcosa di positivo perché ci sono ancora tante persone che hanno fiducia nello Stato. Quando la gente smette di cercare è rassegnata, vuol dire che ha perso le speranze e questo non possiamo permettercelo».

La Stampa 8.10.17
I bersaniani e l’incubo del “voto utile” pro Pd
“Così si lacera la sinistra”

È soprattutto a sinistra lo scontro sulla legge elettorale, proprio tra Pd e Mdp, nonostante le parole distensive pronunciate da Matteo Renzi in direzione venerdì scorso. Non è certo un caso che, oltre a M5s, siano proprio i parlamentari vicini a Bersani e D’Alema ad attaccare con maggior forza il “Rosatellum”, nonostante ieri sia stata approvata una norma che aiuterà Mdp a presentare le liste. Il fatto è che la questione è tutta politica, il punto che porta in rotta di collisione Pd e Mdp è il mix di collegi uninominali e coalizioni, con un voto unico da assegnare: un sistema che innesca di fatto la spinta al “voto utile” di cui già nel 2008 fece le spese la Sinistra arcobaleno, che restò fuori dal Parlamento mentre il Pd di Walter Veltroni arrivò al 34%.
Un meccanismo che mette Mdp di fronte a un bivio: andare solo con Sinistra italiana e Pippo Civati, sapendo di non poter eleggere nemmeno un candidato nei collegi uninominali, o allearsi con il Pd. Qualcosa di inaccettabile per chi non vuole legarsi di nuovo a Renzi, dopo aver lasciato il Pd lo scorso febbraio.
Alfredo D’Attorre, bersaniano della commissione affari costituzionali, spiega: «Questa legge lacera definitivamente il centrosinistra, si rivelerà un danno per il Pd perché ci obbligherà a presentare candidati in tutti i collegi uninominali». Federico Fornaro, poi, aggiunge l’accusa di “inciucio”: «Peggio del Porcellum, finte coalizioni pronte a essere “spacchettate” all’indomani del voto per realizzare il vero obiettivo: un governo sull’asse Renzi-Berlusconi».
Ma che nella prossima legislatura siano molto probabili nuove forme di larghe intese lo ha ammesso anche Massimo D’Alema, quando ha ipotizzato un «governo del presidente», ovvero una specie di nuovo governo Monti, che appunto era sostenuto da Pd e Fi. Il problema è proprio Renzi, con cui Mdp non vuole più avere a che fare.
In casa Pd, a microfoni spenti, uno dei dirigenti più vicini a Renzi lo ammetteva, qualche giorno fa: «Con il “Rosatellum” dovranno scegliere con chi stare, voglio vederlo Pisapia che va con Sinistra italiana e rinuncia a un’alleanza con noi...». L’obiettivo, insomma, è anche dividere il fronte anti-renziano, facilitare quella rottura tra Pisapia e l’ala più dura di Mdp per costruire una coalizione con una lista centrista magari guidata da Calenda e una lista “civica” più di sinistra, per esempio con il sindaco di Cagliari Zedda e, magari, lo stesso Pisapia. In Mdp non ci credono, «più probabile che Giuliano torni a fare l’avvocato». Il leader di Campo progressista, parlando a Roma a un’iniziativa ambientalista, con una battuta ha intanto preso di nuovo le distanze dai suoi compagni di strada: «Bisogna essere discontinui con il passato ma senza vendere sogni». [A. D. M.]

Corriere 8 .10.17
«Avanti anche senza Pisapia»
«Pisapia? L’attesa è una soap opera No a Renzi, con lui alleanze farlocche»
Speranza annuncia lo strappo: basta aspettare, Mdp non si allea con Renzi
di Monica Guerzoni

Niente coalizione allargata a sinistra. Mdp dice no all’apertura di Renzi. «Siamo alternativi all’ex premier. E andiamo avanti da soli anche senza Pisapia» chiarisce Roberto Speranza. Ma dal Pd continuano i segnali di pace. I vertici dem sono convinti che il niet di Mdp sia legato «più a rancori personali che alla politica». Intanto sulla legge elettorale regge il patto a quattro Pd-Ap-Lega-Forza Italia. Il Rosatellum 2.0 passa l’esame della commissione Affari costituzionali e ora dovrà affrontare l’aula di Montecitorio. I Cinque Stelle accusano: «È un inciucio».

ROMA «Il tempo è finito».
Roberto Speranza, vi siete stancati di aspettare Godot?
«Abbiamo parlato troppo di noi, ora basta. Bisogna correre. Dobbiamo offrire all’Italia un’alternativa che riparta dal lavoro e dalla lotta alle diseguaglianze».
Convocherete quella assemblea costituente per la quale Pisapia non si sente ancora pronto?
«Per me il 19 novembre è la data giusta per una grande assemblea democratica, in cui finalmente un popolo possa trovare una casa».
Le primarie della sinistra?
«Faremo votare la gente in tutta Italia, chiameremo migliaia di persone a eleggere i propri rappresentanti nell’assemblea e a condividere un progetto in cui tutte le forze abbiano pari dignità».
Il leader di Campo progressista non è convinto. Non si fida del tutto di lei, Bersani, D’Alema, Errani?
«Pisapia è naturalmente protagonista di questa storia, ma non si può più perdere un solo minuto e neanche stare lì a parlare tutti i giorni di nomi dei big, invece che di proposte. È diventata una soap opera insopportabile».
Una «soap» i litigi tra Campo progressista e Mdp?
«Noi siamo quelli del lavoro, della progressività fiscale, della sanità pubblica. Dico con forza basta a una discussione autoreferenziale che la gente non capisce, ora si va avanti. Il mio è un appello a tutti, ognuno prenderà le sue decisioni».
Pensa che Pisapia si alleerà con Renzi?
«No, da lui ho sentito parole chiare di alternativa alle politiche del renzismo. Però ora basta aspettare, bisogna correre. Serve una grande forza popolare, inclusiva, con ambizioni di governo e radicale nel messaggio di cambiamento. Aperta al civismo, all’ambientalismo e al cattolicesimo democratico. Vogliamo prendere un voto più degli altri, altro che ridotta».
Insomma, avanti anche senza Pisapia?
«Mi sembra di essere stato chiarissimo. Noi andiamo avanti e l’auspicio è che lui ci sia. Ognuno valuti tranquillamente, ma questa è una operazione più grande, non si ferma davanti a una singola personalità. In gioco c’è il futuro del Paese e della sinistra italiana. Il tempo è ora, non possiamo andare oltre novembre».
Avanti a sinistra, con Fratoianni e Civati? Il 1° luglio vi eravate impegnati a costruire un nuovo centrosinistra.
«La nostra proposta è e resta larga, aperta, plurale e alternativa alle politiche di Renzi. Non basta un cartello elettorale, si parte da una lista per costruire una nuova soggettività. La mia cultura politica è di centrosinistra, non mi interessa una stretta identitaria».
Renzi ha aperto alla coalizione, perché non andate a vedere le sue carte? Volete regalare il Paese alle destre?
«Apertura mi sembra una parola generosa. Il Pd non sarà mai il nostro nemico. Ma le alleanze si fanno sulla linea politica e le fratture sono state troppe. Il Jobs act ha aumentato la precarietà, la Buona scuola ci ha messo contro insegnanti e studenti, al posto degli investimenti si sono scelte le regalie fiscali e invece della rivoluzione ecologica sono spuntate le trivelle. Se si mette al centro una radicale discontinuità sono pronto a confrontarmi con tutti».
Boccerete il Rosatellum?
«Sì, è sbagliato perché disegna alleanze farlocche. Siamo di fronte all’ennesimo accordo Renzi-Berlusconi, oggi sulla legge elettorale e domani sul governo. Avremo il record mondiale di nominati e questo è indegno. Il nostro emendamento che chiedeva un solo programma per la coalizione è stato bocciato, che apertura è quella di Renzi? Noi presenteremo un candidato in ogni collegio all’uninominale».
Se Pisapia non raccoglie il vostro appello chi sarà il leader? D’Alema, Bersani, Errani, o lei?
«La sinistra rinasce se parte dalla vita degli italiani e non dai nomi dei leader. Prima il progetto, poi le personalità. Mi piace molto la nuova generazione in campo, che ha idee chiare su cosa serve al Paese».
Senza Pisapia riuscirete a superare la soglia del 3%?
«Non sono uscito dal Pd per fare un partitino, ma per costruire una grande forza popolare a due cifre. Ci sono milioni di persone che non sono di destra, non vogliono votare per Grillo, ma non si fidano più del Pd di Renzi. Lavorerò incessantemente per offrire agli italiani una nuova proposta progressista vincente».

Corriere 8.10.17
Legge elettorale, scontro a sinistra
di Giuseppe Alberto Falci

Roma La prima prova è stata superata. Il Rosatellum 2.0 passa l’esame della commissione Affari costituzionali e dovrà affrontare il ring dell’aula di Montecitorio. Il patto a quattro Pd-Ap-Lega-FI regge senza fibrillazioni, nonostante in questi giorni le opposizioni abbiano gridato all’inciucio definendo il testo «un imbrogliellum». Adesso la partita si sposta nell’emiciclo della Camera, dove la grande incognita saranno le oltre 90 votazioni a scrutinio segreto. Un rischio che secondo alcune indiscrezioni filtrate in questi giorni avrebbe fatto mettere sul tavolo della maggioranza l’ipotesi del voto di fiducia.
Il motivo sarebbe strettamente connesso alla tenuta dei gruppi parlamentari. E anche se dal Nazareno Ettore Rosato, capogruppo del Pd a Montecitorio, esclude questo scenario, i bersaniani minacciano già di scendere in tutte le piazze d’Italia. «Se davvero qualcuno pensa che si possa mettere la fiducia sulla legge elettorale, per la seconda volta nella stessa legislatura, sappia che non resteremo a protestare nel Palazzo ma porteremo nelle piazze l’Italia democratica», fa sapere il presidente dei deputati di Mdp Francesco Laforgia.
Di certo, dopo la direzione di due giorni fa il gruppo Pd risulta essere compatto. Tutte le anime, incluse quella che riporta al Guardasigilli Andrea Orlando, si esprimono a favore dell’approvazione del Rosatellum bis. Lo stato di salute dei democratici e il via libera di ieri in commissione inducono il relatore Emanuele Fiano ad esultare: «Possiamo restituire ai cittadini il potere di scelta e uno stretto rapporto con gli eletti attraverso i collegi uninominali e le liste molto piccole di quelli plurinominali». Non a caso anche Rosato, che monitora il pallottoliere di Montecitorio, mostra ottimismo: «Credo che ci siano le condizioni perché il testo passi anche al Senato. C’è la compattezza di tutti i gruppi che lo sostengono. Poi è chiaro che esiste il rischio dei franchi tiratori, ed è un rischio impossibile da calcolare».
Anche all’interno di Forza Italia il clima si è rasserenato. Le tensioni dei giorni precedenti, sollevate dai parlamentari azzurri del Sud preoccupati di perdere parecchi collegi, sarebbero rientrate. Renato Brunetta mostra «grande soddisfazione» per il risultato fin qui raggiunto, mentre Francesco Paolo Sisto tiene a sottolineare il «grande senso di responsabilità» dimostrato dalle truppe di Silvio Berlusconi in commissione. Ma resta un’altra incognita sul tavolo: il rapporto fra Pd e Mdp. Le aperture di Matteo Renzi nel corso della direzione — «il Rosatellum chiama alla creazione della coalizione ampia» — non rintuzzano le proteste dei bersaniani. Alfredo D’Attore avverte gli ex compagni: «I democratici aprono un’autostrada alla destra e sono destinati a perdere molti collegi. Mi auguro che a partire da martedì molti deputati se ne rendano conto». Mentre il grillino Danilo Toninelli urla all’«inciucio» fra Renzi e Berlusconi: «Una legge senza preferenze, con le ammucchiate, le liste finte. Ci batteremo in Aula per difendere gli italiani da questa porcheria».

Repubblica 8.10.17
Da soli non si vince, finalmente Renzi lo ha capito
di Eugenio Scalfari

COME sta la società, come stanno gli individui che ne fanno parte, come sta il popolo cosiddetto sovrano e insomma come sta il mondo e l’Italia che politicamente ci interessa?
Ezio Mauro giovedì scorso si è posto analoghe domande chiedendosi soprattutto come sta la sinistra italiana: aveva immaginato una sorta di Spirito Santo laico che cercasse di tutelarla e incoraggiarla a dare il meglio di sé. Ma alla fine dell’analisi politica aveva concluso che quello Spirito Santo era disperato perché la sua tutela non era servita a niente e Lui alzava le mani piangendo.
Domenica scorsa anch’io avevo affrontato analoghi temi e avevo concluso l’articolo citando la celebre canzone del jazz americano intitolata Stormy Weather: “Il tempo è brutto e piove di continuo”. Così purtroppo stanno le cose e non sono migliorate in questi pochi giorni. Basta questo per ciò che riguarda l’Italia. Nel frattempo è accaduto di peggio in Sicilia dove si voterà per la Regione tra pochi giorni e dove un numero notevole di candidati aderenti al Pd e al partito di Alfano sono passati con Berlusconi. Altro che Stormy Weather: se la Sicilia politica fosse lo specchio dell’intera Italia bisognerebbe far suonare il Requiem di Mozart che musicalmente fa pensare più all’Inferno che al Paradiso.
Qualche segnale positivo è tuttavia arrivato alcuni giorni fa.
RENZI ha aperto non uno spiraglio ma una porta e non solo a Pisapia, come del resto aveva fatto un mese fa, ma all’intera dissidenza di sinistra da Bersani a D’Alema, a Vendola, a Civati, insomma a tutti quelli che se ne sono andati o non erano mai entrati. Non è stato solo a prendere queste decisioni ma ha avuto suggerimenti di persone autorevoli che recentemente si sono avvicinate o riavvicinate a lui: Orlando, ministro della Giustizia ma in competizione con Renzi alle primarie, Romano Prodi, Walter Veltroni, i ministri Franceschini e Minniti.
L’apertura ai dissidenti sarebbe facilitata dal disegno di legge elettorale che prevede due terzi eletti con la proporzionale e un terzo votato in collegi che consentono una coalizione. Gli oppositori di questa legge che sarà presto presentata in Parlamento la considerano incostituzionale, ma non se ne comprende la motivazione. Non esiste alcuna norma costituzionale che vieti alleanze elettorali, mentre è altamente positiva l’abolizione delle preferenze che di solito aiutano il nascere di clientele, spesso di tipo mafioso.
Comunque l’apertura di Renzi è una novità ed è ancor più interessante il nascere di una élite politica che lo consiglia. Personalmente avevo auspicato che “il Re fosse assistito da una Corte di dignitari”; questa Corte si va finalmente formando e spero influisca utilmente sul segretario del partito. Avevamo dedicato a questa tesi la rievocazione del Partito comunista ai tempi di Togliatti e del gruppo che insieme a lui e con diverse intonazioni aveva governato il partito: Longo, Berlinguer, Amendola, Ingrao, Scoccimarro, Reichlin, Napolitano, Natta, Pajetta e molti altri. Spesso le loro idee differivano dalle altre e spesso anche da quelle di Togliatti, il quale, dopo ampie discussioni, prendeva lui la decisione come gli spettava, ma tenendo conto dei pareri diversi e talvolta addirittura divergenti dai suoi.
L’ideale è che questo avvenga anche con Renzi e il rientro dei dissidenti potrebbe arricchire il partito da questo punto di vista, come la presenza attiva di Cuperlo dimostra. Forse la pioggia di Stormy Weather cesserebbe di infradiciarci e il bel tempo della democrazia tornerebbe.
Ma la democrazia che cos’è? Ecco un tema che non interessa soltanto l’Italia ma l’Europa e tutto il mondo occidentale. Cerchiamo di rispondere a questa domanda.
***
Democrazia è parola di origine greca, demos significa popolo. Disegna dunque un sistema politico in cui tutto il popolo partecipa al governo, naturalmente se ha voglia di partecipare.
La forma di questa partecipazione è varia. Può essere diretta (in forma referendaria) o indiretta e cioè con l’elezione da parte del popolo sovrano di un’assemblea deliberante. Naturalmente oltre all’elezione da parte del popolo sovrano esiste anche un potere con la sola competenza di controllare che la politica non invada campi diversi da quelli che gli sono stati riservati dalla Costituzione e dal principio di libertà che la stessa parola
demos implicitamente contiene. Una democrazia illiberale tradisce il valore stesso del popolo sovrano e quindi non può e non deve essere accettata. Questo controllo da parte del potere giudiziario-costituzionale si estende anche alla democrazia diretta referendaria. Se la risposta del popolo deve essere data con un sì o con un no al quesito posto dai presentatori del referendum, occorre che la domanda non sia improponibile, come per esempio sarebbe quella che limitasse la libertà politica degli elettori.
Sembra dunque che la democrazia dia al popolo tutta la sovranità che gli compete. Ma le cose non stanno effettivamente così. Su questo punto ci fu un anno fa un dibattito tra Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale e giurista di grande vaglia, e me proprio sul tema della democrazia parlamentare. Lui sosteneva che il Parlamento e il referendum siano la vera e autentica forma del potere del popolo sovrano; io al contrario sostenevo che una democrazia elitaria, garantita dalla legge, avrebbe dovuto designare gli organi dirigenti del partito i quali a loro volta avrebbero compilato le liste dei candidati parlamentari. La mia tesi era molto semplice: gli elettori di solito non conoscevano i candidati designati dal partito, ma votavano il partito e cioè i suoi candidati. In sostanza il vero sovrano è la classe dirigente del partito che dà vita in questo modo a un sistema che io non chiamo democrazia ma più correttamente oligarchia.
E il popolo sovrano chi lo rappresenta? Direttamente non è il Parlamento a rappresentarlo mentre attraverso lo strumento referendario esso si rappresenta direttamente. Ma in una società sempre più complessa, con problemi economici, sociali, politici, internazionali, sempre più complessi, con l’aggiunta dell’immigrazione e del terrorismo mondialmente diffuso, il referendum non può essere la forma predominante delle decisioni politiche per la loro complessità e urgenza.
Non resta dunque che l’oligarchia la quale si traveste da diretta rappresentanza del popolo sovrano, ma non lo è.
Aggiungo a queste considerazioni la costante diminuzione dell’affluenza al voto dei cittadini elettori. Questa diminuzione dei votanti si realizza anche in forme assolutamente nuove. I grillini ne sono un esempio eloquente: aderiscono a un movimento che non ha alcun programma politico, non ha identità, non ha valori ma proclama un obiettivo: di spodestare i partiti esistenti siano piccoli o siano grandi, non importa, via tutti.
I grillini non hanno obiettivi politicamente concreti; fanno alcune proposte che piacciono a una moltitudine non politicizzata e contraria alla partitocrazia. Proposte che soddisfano alcuni bisogni popolari senza peraltro rimuoverne le cause che li producono. Non hanno una politica europea, oscillano sull’importanza della moneta comune. Sono privi di ideologie.
In realtà sono l’altra forma degli astenuti che ormai oscillano tra il 35 e il 40 per cento dei cittadini con diritto al voto. In più bisogna considerare le posizioni dei grillini e dei populisti di Lega e Fratelli d’Italia. Sapete la novità? A questo punto gli immigrati diventano una necessità se diventeranno cittadini elettori. Ma ci vorrà un bel po’ di tempo. Idem per lo Ius soli, che se approvato attualmente riguarda i neonati.
Perciò continua il diluvio e siamo fradici dalla testa ai piedi.

Repubblica 8.10.17
Da Walter Rossi alla strage di Primavalle famiglie divise sulla strada del perdono
di Concetto Vecchio

IL CASO / PADRI E FIGLI CONTRO. PERCHÉ SEMBRA NON FINIRE MAI LA STAGIONE DEL TERRORISMO

ROMA. «Mia madre è morta senza che ci parlassimo più». Quasi dieci anni fa Giampaolo Mattei, che perse due fratelli nel rogo di Primavalle a Roma nel’73 – uno dei delitti più atroci della violenza politica in Italia – abbracciò su un palco all’Eur Carla Verbano, la mamma di Valerio, il militante di Autonomia operaia ucciso nel febbraio dell’80 dai fascisti a Montesacro: un delitto altrettanto feroce. Tre uomini col volto coperto suonarono a casa dei genitori, si fecero aprire con una scusa, legarono e imbavagliarono la coppia nel letto matrimoniale e aspettarono l’arrivo del giovane militante di estrema sinistra, che fu ucciso sul divano, a 18 anni. Un omicidio senza giustizia. Quella pubblica riconciliazione ruppe un tabù: appartenevano a due mondi inconciliabili, Mattei e Verbano. Giampaolo Mattei era il figlio del segretario di sezione del Msi Mario, i cui i fratelli Virgilio (22 anni) e Stefano (8 anni) morirono carbonizzati dopo un attentato di alcuni membri della formazione di estrema sinistra Potere operaio, Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, che appiccarono il fuoco sull’uscio di casa per puro odio politico. Erano soprattutto due vittime, Giampaolo e Carla, che l’allora sindaco di Roma Walter Veltroni riuscì a fare incontrare: perché, come disse Carla, «i morti non hanno colore ».
Ora grazie al nuovo libro di Luca Telese Cuori contro, il sequel di Cuori neri, (Sperling&Kupfer), scopriamo cosa accadde dopo quell’abbraccio: Mattei venne abbandonato dal suo mondo, («tu parli troppo con i comunisti», gli disse un missino storico come Gramazio durante un incontro alla Fondazione Almirante), perse la stima di amici storici come Graziano Cecchini, che lo aveva protetto negli anni dopo la tragedia, e persino la famiglia gli voltò le spalle. «Mia madre è morta senza che potessimo chiarirci », dice Mattei a Telese. «Quella rottura non era solo personale, ed era accompagnata da un dubbio più profondo. Come era possibile che molti di quei ragazzi, degli angeli custodi della mia infanzia – pensa a Guido Zappavigna o Dario Pedretti – fossero diventati dei terroristi dei Nar? E se io mi ritenevo, ed ero, vittima, quando incontravo una vittima dei Nar come mi dovevo considerare?».
Nel 2005 anche Carla aveva rifiutato un confronto televisivo con Maria Lidia, la madre di Mario Zicchieri, il militante del Fronte della Gioventù ucciso a Roma nel ’75: un faccia a faccia delle Iene. Disse prima di sì, poi ci ripensò, «perché so che Valerio non avrebbe voluto». Alla fine l’intervista la fece Danila Tinelli, la madre di Fausto, ucciso nel 1978 a Milano con Iaio Iannucci dai fascisti: anche questi due delitti sono senza colpevoli.
La frattura con i propri cari è insanabile. Dice Mattei: «L’idea che non fossi più soltanto un custode del sacrario di famiglia ha scavato un fossato tra me e una parte della famiglia, tra me e mia madre. Sono cose che passano nell’aria, come i virus».
C’è un precedente: anche dentro la famiglia di Walter Rossi - ucciso a 20 anni dai Nar nel ’77 nel quartiere Balduina a Roma - ci fu a un certo punto un dissidio, dopo che il padre del ragazzo, Franco, aveva iniziato un dialogo con la giunta Alemanno. «Sputa sulla sua memoria», lo liquidò pubblicamente, nel 2011, il fratello di Walter, Gianluca.
Il rapporto tra Mattei e Verbano s’intensifica. Si vedono a Montesacro, nella casa di lei, in via Monte Bianco, trasformato in un mausoleo in onore di Valerio. «Vedi Giampaolo – dice un giorno Carla – io non odio i fascisti, io odio con tutte le mie forze i fascisti che hanno ammazzato mio figlio». «Se ci pensi – risponde Giampaolo - avrei potuto dire esattamente lo stesso, all’opposto». Quindi nasce tra le due vittime – il fascista che ha perso i fratelli e la comunista che ha perso il figlio – una comunanza profonda: quell’abbraccio sul palco ha fatto il miracolo. Al punto che a un certo punto Carla invita Giampaolo alla veglia per Valerio. «Mi facevo molte domande: aveva senso? Ci avrebbero preso per pazzi?».
Poi Carla muore prima, nel giugno 2012, a 88 anni. «E io – dice Giampaolo – non sono potuto andare né alla veglia, né al funerale. Ma questa ultima scelta per me è stata dolorosa. Era come se dopo essere stati persone tornassimo a essere personaggi. E io non volevo accettarlo. A un certo punto mi sono vestito, sono uscito, e mi sono detto: Vado. Vado per lei. Ma era un rischio che non potevo correre. Non quello di non essere ancora una volta non capito. Così mi sono fermato, sono tornato indietro e sono rimasto in macchina, appoggiato al volante. Solo».

Repubblica 8.10.17
Il governatore della Toscana Enrico Rossi (Mdp): “L’obiettivo dell’ex premier è solo convincere Pisapia. Mobilitazione contro il Rosatellum”

FIRENZE. «Renzi mostra un volto più affabile ma nei fatti accentua la svolta a destra per fare il Partito della Nazione». Per il presidente della Toscana Enrico Rossi l’apertura a sinistra di Matteo Renzi è solo di facciata: dietro restano le scelte già viste in questi anni.
Presidente Rossi, perché non la convince l’apertura a sinistra di Renzi?
«Prima ci ha chiamato traditori, in perfetto stile stalinista. Adesso dice che non siamo più nemici. È un passo avanti. Permangono però tutte le diversità tra lui e noi. In questi anni Renzi ha perseguito politiche neoliberiste, noi vogliamo politiche keynesiane e sociali».
L’apertura di Renzi è una dunque solo tattica?
«Mi pare un tentativo di convincere Pisapia. Come mostrano i sondaggi, Renzi non prende più voti da destra e quindi prova a rivolgersi alla sinistra. Ma allo stesso tempo conferma l’alleanza con Alfano e parla di Calenda come polo moderato. Verdini è poi quello che di fatto è entrato in maggioranza. Siamo al partito della Nazione, anche se rivestito in modo più allettante, senza però escludere l’alleanza con Forza Italia dopo le elezioni. Politicismi con un volto più affabile».
Renzi vuole farsi dire di no?
«Se avesse voluto aprire davvero avrebbe dovuto parlare di una legge bilancio che finanzi la sanità, visto che rischiamo un regresso dell’assistenza. Avrebbe dovuto riaprire una stagione di diritti per i lavoratori, parlare di lotta all’evasione, annunciare una legge sulla povertà e un piano di assunzioni per i giovani, finanziamenti per le scuole. Eppoi lo Ius soli. Non si è cancellato la Bossi-Fini e si è rincorso la destra con le misure di Minniti. Le impostazioni politiche non convergono».
Mdp voterà contro il Rosatellum bis?
«Pensiamo proprio di sì. Costituzionalisti come Flick e Zagrebelsky invitano a non fare mercimonio sulla legge elettotrale tra forze politiche. Mentre si concede a Berlusconi di guidare il centrodestra, anche se incandidabile, e si consente di costruire coalizioni senza presentare un programma».
Se però diventasse legge...
«Siamo pronti a mobilitarci contro questa legge. È solo un accomodamento fatto in casa ed è significativo che nasca da un rapporto tra Forza Italia e Pd, con il solo obiettivo di danneggiare altri come i 5 Stelle. Non mi pare un passo avanti. Anche perché dietro c’è di nuovo Verdini».
“Ma quale svolta, Renzi vira a destra Verdini e Alfano i suoi veri alleati”
MASSIMO VANNI
Secondo lei una lista unitaria a sinistra del Pd è ancora possibile?
«C’è assolutamente bisogno di costruire una forza a sinistra del Pd, aperta e di governo. E occorre subito innescare un processo democratico con l’elezione di delegati e la convocazione a Roma di un’assemblea che discuta tavola dei principi e programma di un soggetto politico a sinistra del Pd».
Anche lei si domanda da che parte sta Pisapia?
«No, ormai non me lo domando più. Avverto che è un uomo di sinistra ma bisogna anche essere conseguenti. Questo tema della poligamia non mi è piaciuto. Parla di sfida al Pd ma dobbiamo costruire una forza alternativa al Pd. Spetta a lui decidere, la sinistra con lui è stata generosa ».
È dunque Pisapia che può rappresentare il nuovo soggetto politico?
«Va chiesto a lui. A luglio è stato indicato lui e non mi pare che ci siano novità nel panorama politico. E se il Pd conferma la sua impostazione, è arrivato il momento di dar vita ad una nuova forza. Noi siamo la novità nel Paese, dopo il 4 dicembre: siamo la sinistra di governo di cui c’è bisogno. È positivo che Renzi abbia smesso di insultarci ma non si può perdere altro tempo: subito l’assemblea fondativa della sinistra».

Corriere 8.10.17
Il caso Battisti e gli intellettuali francesi
Le coccole all’assassino-scrittore gioco intellettuale che travisa la realtà
di Pierluigi Battista

In Francia si sono spesi per lui autori celebri, accecati dai pregiudizi sull’Italia anni 70
Vuoi trasformarti da terrorista condannato a due ergastoli in raffinata e compatita vittima del sistema, coccolato nei circoli parigini più cool, trasformato in icona della bontà da Lula in Brasile? Allora ti devi chiamare Cesare Battisti, che un po’ evoca anche se non c’entra niente. Ma soprattutto devi diventare autore di romanzi noir, passare per rifugiato politico, mobilitare uno stuolo di intellettuali firmaioli compulsivi per redigere manifesti da sottoscrivere e che sono disposti a qualsiasi contorsione mentale pur di sostenere una causa infame nobilitata dal semplice fatto che l’imputato è «uno di noi». Allora un intellettuale sofisticato come Philippe Sollers può smettere i suoi abiti solitamente sobri e sostenere argomentazioni prive di logica comune: «In Italia c’è stato anche un terrorismo di Stato molto importante in quegli anni, è stata una vera guerra civile e sociale». E così, con questo salto da circo un assassino che ha ammazzato delle persone nel nome di una grottesca rivoluzione diventa Sacco o Vanzetti, vittime vere, non per finta. E in Francia può addirittura ricevere la visita in cella di un segretario socialista di nome François Hollande, futuro inquilino dell’Eliseo.
Gli intellettuali francesi, scrittori, cineasti, semiologi, pubblicisti, e il più famoso tra loro era Bernard Henri-Lévy, hanno adottato Cesare Battisti facendosi scudo della «dottrina Mitterrand», che eleggeva la Francia come terra d’asilo e di protezione per tutti i perseguitati del mondo capaci di raggiungere la sorgente dei Lumi. La dottrina prevedeva tuttavia che fossero esclusi gli espatriati che si fossero macchiati di delitti di sangue. Ma due condanne italiane all’ergastolo non erano bastate. E poi non si aveva fiducia nella giustizia italiana, considerata più o meno alla stregua di quella in vigore nel Cile di Pinochet. Non è una ricostruzione esagerata: era proprio così. Già nel 1977, nel mezzo dei tumulti che stavano insanguinando l’Italia e quando l’offensiva del terrorismo rosso di cui Cesare Battisti era uno dei figli seminava morte e paura, un nutrito grappolo di intellettuali francesi, a cominciare dai celeberrimi Deleuze e Guattari, aveva sottoscritto un allarmatissimo appello per denunciare la gestione fascistoide dell’ordine pubblico in Italia, equiparata a una truce tirannia. Da questo humus si forma in Francia la percezione stravolta di un’Italia che ha cancellato ogni nozione dei diritto e della giustizia e in cui perciò non solo era quasi lecito mettersi a sparare sugli inermi per fare la rivoluzione ma era possibile perseguitare e discriminare chi si ribellava alla dittatura di tipo cileno. Ecco perciò che Cesare Battisti, deposte le armi per uccidere materialmente le persone, è stato accolto come un esule immerso nella scrittura di formidabili libri e perciò meritevole di appoggio militante dei suoi simili, del tutto indifferenti alla sorte delle persone che per colpa di Battisti, come stabilito da due sentenze in contumacia, hanno cessato di vivere prima ancora di apprezzare i romanzi usciti dalla penna del loro carnefice. E dalla Francia gli appelli all’impunità di Battisti hanno anche ricevuto una certa eco presso alcuni ambienti altrettanto militanti dell’acuta intellettualità italiana, già a suo tempo sbertucciati da Antonio Tabucchi scandalizzato da tanta superficialità. Da qui le firme pro Battisti, tra gli altri di scrittori come Wu Ming e Tiziano Scarpa, di Nanni Balestrini e Massimo Carlotto, del resto confortate dalla firma in calce agli appelli francesi di scrittori tanto autorevoli come Daniel Pennac. Si poteva considerare uno scrittore come un assassino normale che aveva stroncato alcune vite umane pensando di sacrificarle nel nome della futura umanità liberata?
E così il mito del Battisti perseguitato ha scavalcato l’oceano ed è approdato nel Brasile di Lula fin quando Lula, diffidente verso le procedure della giustizia italiana, non è stato raggiunto come crudele contrappasso dai tentacoli della giustizia brasiliana. Da qui quel senso di impunità che ancora oggi ostacola l’estradizione di Cesare Battisti, assassino e poi scrittore, come se la scrittura potesse riscattare il noir, stavolta tragicamente vero, di cui è stato triste protagonista.

La Stampa 8.10.17
“C’è ancora bisogno di mio padre il Che”
A 50 anni dall’uccisione del rivoluzionario compagno di Fidel parla il figlio Camilo: “Il mondo non è cambiato molto da quando decise di lottare per la libertà di altri popoli”
di Paolo Mastrolilli e Pablo Lombo

«Meglio Trump che Obama: così almeno non ci sono equivoci sulle mire degli Usa contro Cuba». In tutti i guai del mondo, Camilo Guevara legge la conferma dell’attualità di suo padre.
Qual è il senso della mostra sul «Che» che si aprirà a dicembre a Milano?
«Il materiale è stato accettato dall’Unesco come parte del progetto “Memoria del mondo”, nella categoria internazionale, la più significativa per l’universalità che riconosce a coloro che include. Per ciò ha un’importanza culturale, storica, politica. L’intento è mostrare i contesti in cui ha agito il “Che”, quali sono state le sue motivazioni, e la sua eredità storica».
Quando è morto lei aveva 5 anni: quali ricordi conserva?
«I miei presunti ricordi sono molto mischiati con i sogni e non posso definire con certezza quali siano veri, perciò non parlo di queste cose. Partì da Cuba per il Congo quando io avevo 3 anni: un bambino di quell’età non può ricordare nitidamente. E poi stiamo parlando di una persona che dedicava molto tempo al lavoro e agli studi, con grandi responsabilità verso il popolo cubano, che prendeva assai sul serio. Sin da piccolo avevo la coscienza che mio padre era una persona molto amata e rispettata dalla maggior parte dei cubani. Si dice che i figli somigliano più al proprio tempo che ai genitori, perché sono lo scenario, le circostanze, che ti permettono di agire in una direzione o in un’altra. Mio padre ha segnato il mio tempo. I suoi scritti, lettere, insegnamenti sono ancora vitali, la sua voce e immagine ci accompagnano in molti luoghi, nei media e anche a scuola. Da quando ero molto giovane ho fatto letture di cui era l’autore, ma per me è sempre venuto prima il padre e poi l’eroe. Poiché sono cubano, conosco le sue imprese e virtù, l’ammiro come il modello di uomo e rivoluzionario che è».
La morte di suo padre è stata chiarita, o restano punti oscuri?
«Non ho mai fatto confusione su questo fatto. Mio padre è stato assassinato dai militari boliviani, per ordine degli yankee. Certo, si è cercato anche di costruire trame nelle quali a volte compaiono i rivoluzionari cubani come colpevoli, o i sovietici, creando intrighi di palazzo e fiabe. Il Che non ha avuto un giudizio, perché temevano le conseguenze. È stato assassinato a La Higuera perché la causa che difendeva era molto pericolosa e contraria agli interessi degli imperialisti. Non ci sono dubbi su quel che è successo, anche se hanno cercato molte volte di nasconderlo con schermi di fumo e voci malintenzionate».
Quali differenze ci sono tra la sua figura umana reale e la percezione mitica?
«Il Che è stato un uomo, ma molto completo. Coerente in pubblico e in privato, perché non sapeva essere altro che onesto, coraggioso, audace, giusto, amorevole e sensibile. Perciò noi i cubani, che lo conosciamo bene, lo amiamo e ammiriamo così tanto».
Cosa resta oggi della dottrina elaborata da suo padre?
«Il Che è stato un teorico che ha avuto la fortuna di mettere in pratica alcune delle sue tesi. L’eredità è vasta, ma anche attuale. Il mondo non è cambiato molto dagli anni in cui decise di lottare per la libertà di altri popoli. Oggi serve il Che, o persone come lui, ancora più di prima, perché viviamo già i tratti del caos. Se non freniamo questa decadenza, la barbarie che cerca di perpetrarsi potrebbe far sparire la nostra specie».
Come vede il futuro di Cuba, dopo la scomparsa di Fidel Castro e l’annuncio di Raúl che nel 2018 intende lasciare la presidenza?
«Quando il popolo cubano combatteva per l’indipendenza dalla Spagna e le tirannie imposte dagli Stati Uniti, sono morti uomini preminenti come Carlos de Céspedes, Agramontés, Martí, Maceo, Máximo Gomez, Mella, Villena, Guiteras. Le loro idee e lotte hanno dato forma alla nostra nazionalità e influenzato la continuità delle lotte libertarie. La nostra identità è molto legata ai loro lasciti. Fidel, Raúl sono parte di questa tradizione, e quelli che seguiranno non smetteranno di essere patrioti rivoluzionari. La rivoluzione è il progetto che meglio ci si addice, perché risponde ai nostri interessi. Se vogliamo continuare a esistere come nazione, siamo obbligati a mantenere una forma di produzione alternativa al capitalismo, pur migliorandola o modificandola. Se perdiamo del tutto questo, saremo in grave pericolo di morte».
Aveva condiviso l’apertura di Obama, e cosa pensa di Trump?
«Tutto ciò che viene fatto per calmare gli animi è positivo, se non compromette i nostri interessi. Però Obama non aveva proposto una nuova linea, ristabilendo i rapporti diplomatici. Aveva detto chiaramente che voleva prendere strade diverse, per raggiungere lo stesso fine: cancellare la rivoluzione. Con Trump le cose sono più chiare, e ci siamo abituati. Non ci ha nemmeno lasciato “godere” quell’apparente calma, che quindi non ci mancherà. Spero che alla fine prevalga il pragmatismo, e che in futuro (secondo me lontano) potremo intrattenere rapporti civili, per il mutuo beneficio».
Un altro argentino sta diventando mito, e molti dicono che è un «rivoluzionario», o un «comunista». Cosa pensa di papa Bergoglio?
«Io, grazie a Dio, sono ateo, ma parte della mia istruzione, principalmente sui valori, ha origini nel cristianesimo e in altre religioni. Sembra che papa Francesco voglia far germogliare questi valori. In realtà non lo conosco abbastanza per giudicarlo, ma posso affermare che se seguisse semplicemente gli insegnamenti di Cristo, per forza di cose sarebbe rivoluzionario e avrebbe molti nemici. Ho visto molta gente chiamarsi cristiana e non patire neanche un po’ di fronte alla disgrazia altrui, né seguire uno solo dei comandamenti, oppure essere più peccatore del Diavolo. Quindi se vedo qualcuno accostarsi a quegli insegnamenti, anche un po’, mi sento felice. Magari il Papa fosse così “cattivo”, come denuncia chi si oppone ai cambiamenti positivi nel mondo».

La Stampa 8.10.17
Castro il politico, Guevara l’idealista:
così è sopravvissuto e si è consolidato il mito
Dopo la morte è diventato l’incarnazione del potere che rinuncia a sé stesso
di Mimmo Candito

A 50 anni dalla morte del Che, la genealogia delle rivoluzioni si propone ancora una volta come la copia stupida d’una stampante della storia, che ripete sempre sé stessa: fu più rivoluzionario Robespierre o Georges Danton? Oppure Lenin piuttosto che Trotzkij? O qui, e più contigui a noi, lo è stato il Che o invece Fidel Castro?
In questa scomposizione che traversa il destino di popoli e mondi, la linea di frattura passa sempre lungo la spartizione obbligata dei ruoli, che nella tentazione visionaria degli estremismi assegna identità non sempre corrispondenti all’azione politica realizzata: il destino di tutte le rivoluzioni segue percorsi amaramente ripetitivi, che all’avvio della rivolta, nello slancio dei furori ribelli, esaltano il «progetto», la palingenesi salvifica diretta a squarciare il ventre della storia; però poi nell’esercizio concreto del potere, quando il controllo delle istituzioni e dei microcosmi della società è compiuto, quel progetto si irrigidisce, dogmatizza comportamenti e relazioni, si fa «regime».
E allora, di nuovo, il Che o Fidel? La rivoluzione cubana - dopo tanti anni, e tanti fallimenti - ha ancora avuto la forza di avvolgere nel velo mistificante del mito le difficoltà del proprio cammino, riuscendo perfino a coprire il costo tragico che ha dovuto pagare per radicare il proprio insediamento dopo quell’esaltante capodanno del ’59. Nessuna rivoluzione perdona i propri nemici, il suo obiettivo è stracciar via il passato, cancellarne perfino la memoria. E il Che, il martire degli ideali più alti, la purezza dell’impegno che non si piega agli opportunismi obbligati della politica, comandò tribunali e plotoni d’esecuzione che, fino alla Baia dei Porci, eliminarono - a migliaia - uomini e donne ch’erano stati all’ombra della dittatura di Batista.
Il mito che l’accompagna e lo ritrae ha dimenticato questa prima fase della vita del guerrigliero fattosi uomo di Stato, con tutto il gravame della responsabilità che quei compiti intanto gli hanno imposto, presidente del Banco Central e poi ministro dell’Industria. In quei primi anni di potere, Che Guevara è solo un «comandante» guerrigliero come tanti, anche se già il secondo di Fidel. È invece Castro a rivestirsi del fascino della rivoluzione vittoriosa: il suo carisma, la sua oratoria torrenziale, la spregiudicatezza con cui si muove nel nuovo palcoscenico dei poteri lo fanno il simbolo irresistibile d’una forza che pare cambiare il mondo. Solo che la politica impone poi le sue regole, e di fronte alla difficoltà d’una gestione economica sempre più asfittica - e all’irrigidimento yanqui che provocano le nazionalizzazioni e la riforma agraria - l’isola della libertà diventa poco alla volta l’insediamento d’un regime comunista fortemente centralizzato.
È qui che si apre la frattura dei ruoli, imposta dai fatti più che dalla volontà: Fidel il politico, che vuol salvare il proprio «progetto», e Che l’idealista, che vuol recuperare i princìpi che ha perfino fissato in un testo dogmatico, Guerra de guerrillas: un método. Da ora, e per sempre, lui non avrà nulla da condividere con la fallimentare genealogia comunista del ’900.
La sua sparizione dalla vita pubblica di Cuba, nel ’65, avvia il percorso della fondazione del mito, lui diventa l’incarnazione virtuale del potere che rinuncia a sé stesso pur di perseguire il proprio ideale. E il mito potrà sopravvivere, e consolidarsi, anche dopo la morte del Che; anzi, sarà proprio la sua morte da «Ettore» a dargli eternità.
L’asse della cultura si sta intanto spostando verso la «videosfera», l’immagine domina la lettura della realtà; e una foto di Korda, il basco, i riccioli ribelli, la sua bellezza d’uomo di carne, lo farà icona universale, modello estetico, e lo imprimerà per sempre nella pagina più ideale della storia. Ancora oggi, cinquant’anni dopo.

il manifesto 8.10.17
Le pillole che non salvano
Medicina. Uno studio inglese pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica «British Medical Journal» rivela che la metà dei nuovi farmaci anti-cancro, autorizzati dall'Ema, non serve a niente
di Andrea Capocci

Secondo una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista British Medical Journal, il 57% dei 68 farmaci oncologici autorizzati dall’Agenzia Europea del Farmaco (Ema) tra il 2009 e il 2013 non aveva dimostrato i propri benefici in termini di qualità e di aspettativa di vita. Lo studio è stato realizzato dai ricercatori del King’s College e della School of Economics di Londra e dell’Università di Riga (Lettonia) guidati dalla sociologa della medicina Courtney Davis.
Oltre ai dati forniti dalle società farmaceutiche all’Agenzia al momento dell’autorizzazione, il team di Davis ha consultato le ricerche precedenti e successive disponibili in letteratura scientifica e svolte anche da ricercatori indipendenti. Si tratta di medicine che le case farmaceutiche vendono a un prezzo medio di 85 mila euro per un anno di trattamento. In Europa, il costo ricade in genere sui sistemi sanitari nazionali, ovunque in difficoltà economiche.
L’APPROVAZIONE da parte delle agenzie pubbliche (l’Ema in Europa, a Londra, e la Food and Drug Administration negli Usa) è uno dei momenti decisivi nella storia di un farmaco. Per sviluppare una nuova medicina generalmente si inizia con un brevetto su una molecola, necessario per mettere fuori gioco la concorrenza. Dopo aver messo a punto la terapia, iniziano i test (detti trial) per dimostrare l’assenza di effetti collaterali gravi e l’efficacia del farmaco rispetto a un placebo o a un concorrente.
All’esame dei trial sopravvive meno del 10% dei potenziali farmaci. Nei casi fortunati, la società farmaceutica che detiene il brevetto può chiedere l’autorizzazione alla commercializzazione. Nel frattempo, il costo dello sviluppo del farmaco (trial compresi) ha raggiunto il miliardo di euro, in media. E dal primo test alla richiesta sono passati tra i dodici e i diciotto anni (il brevetto scade dopo vent’anni). L’approvazione permette di introdurre il nuovo farmaco in commercio, a un prezzo fissato in regime di monopolio grazie al brevetto. Se invece l’autorizzazione finale fosse negata, il tempo, le risorse e i profitti sperati si volatilizzerebbero.
Per dare il via libera a un farmaco, da regolamento l’Ema ne dovrebbe valutare l’efficacia in termini di aumento dell’aspettativa di vita. A differenza di quanto avviene negli Usa, a eventuali miglioramenti della qualità della vita (alleviamento dei sintomi, assenza di effetti collaterali) è una rilevanza minore. Eppure, tra le medicine oncologiche, molte sono dedicate a tumori in stato molto avanzato, con scarsa speranza di guarigione. L’aspetto «palliativo» dei trattamenti meriterebbe dunque maggiore attenzione. Ma le società farmaceutiche non sono incentivate a curarsene: solo due dei farmaci approvati nel periodo 2009-2013 dimostravano qualche miglioramento nella qualità della vita dei pazienti.
La percentuale dei farmaci approvati che dimostrano di aver aumentato l’aspettativa di vita dei malati scende così al 35%. In media, questi farmaci giudicati «efficaci» allungano la vita dei malati di circa tre mesi. Il dato piuttosto sconfortante conferma una rilevazione analoga compiuta sulla Food and Drug Administration (Fda, l’agenzia statunitense che svolge lo stesso ruolo dell’Ema) dal gruppo dello statunitense Vinay Prasad nel 2015, secondo la quale i farmaci oncologici approvati senza benefici reali tra il 2008 e il 2012 erano addirittura il 67%.
Courtney Davis e i suoi colleghi puntano il dito contro le procedure di approvazione ritenute troppo favorevoli alle società farmaceutiche. Sono proprio le compagnie a presentare all’Ema i dati che motivano l’efficacia di un farmaco. In quella fase, la trasparenza può venire meno. Molto spesso, infatti, i dossier non contengono informazioni dirette sull’aumento dell’aspettativa di vita dei malati, ma dati «surrogati»: si tratta, cioè, di altre caratteristiche del farmaco più facili da misurare in tempi ridotti, che secondo le società farmaceutiche dimostrerebbero indirettamente i benefici dichiarati dei farmaci.
Nella maggioranza dei casi si riportano benefici in termini di rallentamento della malattia o nei dati fisiologici dei pazienti. Una notevole mole di studi statistici, però, dimostra che questo tipo di informazioni non garantisce affatto che i pazienti sopravvivano più a lungo alla malattia. Accelerano però le procedure di approvazione. In molti casi, inoltre, i test clinici non rispettano gli standard di qualità internazionali. Per misurare l’efficacia, occorre studiare l’effetto di un farmaco in un gruppo di pazienti e confrontarlo con un altro gruppo «di controllo» a cui viene somministrato un farmaco concorrente o un placebo (una finta medicina), il tutto all’insaputa sia dei medici che dei pazienti per evitare di influenzarne il giudizio. In molti casi studiati dai ricercatori, invece, il confronto è stato fatto con altri farmaci sperimentali e talvolta (il 12% dei casi) il gruppo di controllo non c’era proprio. Le società farmaceutiche si giustificano con la rarità di alcune forme di cancro, che non consentono di arruolare un numero statisticamente sufficiente di pazienti.
ALL’EMA, INVECE, la disinvoltura con cui si approvano i nuovi farmaci viene giustificata con il dovere di fornire ai pazienti terapie in tempi più rapidi possibile. Se le informazioni sui benefici di un farmaco non sono esaurienti, l’Ema può rilasciare autorizzazioni «condizionali» che prevedono verifiche dell’efficacia anche dopo l’autorizzazione. I dati analizzati da Davis, però, dimostrano che solo l’8% dei farmaci approvati ha dimostrato una (marginale) efficacia in test clinici successivi. La percentuale dei farmaci effettivamente benefici sale al 51%. Eppure, solo nel caso dell’Avastin, un farmaco contro il cancro al seno che ha fallito gli esami post-autorizzazione, la licenza è stata ritirata. Circa la metà dei farmaci oncologici approvati in Europa, dunque, non ha dimostrato la sua efficacia né prima né dopo la sua introduzione in commercio.
DEBORAH COHEN, in un articolo di commento alla ricerca sulla stessa rivista, punta il dito più direttamente sul rapporto troppo stretto tra controllato e controllore. Il bilancio dell’Ema si basa per l’89% sulle tasse pagate dalle case farmaceutiche per richiedere l’approvazione dei farmaci. Se un loro esame si rivelasse più severo, il numero di richieste diminuirebbe e le casse dell’Agenzia si svuoterebbero. Al contrario, esami più blandi garantiscono che anche le richieste siano presentate con maggiore disinvoltura, con maggiori entrate fiscali per l’Agenzia.
È un fenomeno ben noto: lo stesso circolo vizioso negli uffici brevetti statunitensi ed europei ha aumentato enormemente il numero di brevetti approvati negli ultimi vent’anni, non solo in campo farmaceutico.
Inoltre, Cohen denuncia l’eccessiva «assistenza» posta dai consulenti dell’Ema alle società farmaceutiche, che spesso pescano il proprio personale nelle autorità regolatorie. L’ultimo caso eccellente riguarda proprio l’Italia, e in particolare Luca Pani, direttore fino al 2016 dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) in un periodo piuttosto «caldo». Fu lui a bloccare la diffusione delle finte terapie di Davide Vannoni a base di presunte cellule staminali e a condurre le prime trattative con le società farmaceutiche per l’introduzione dei farmaci anti-epatite C in Italia, spuntando prezzi elevati ma inferiori a quelli praticati in altri paesi. Sempre Pani rimosse l’allora presidente dell’Aifa con l’accusa di conflitto di interessi. Pani, però, aveva anche un ruolo all’Ema, proprio nel comitato scientifico che si occupa dell’approvazione dei farmaci. Dal 18 settembre, ha annunciato lui stesso, Pani è passato dall’altra parte della barricata, diventando direttore esecutivo presso la società statunitense Neurocog Trials, che si occupa proprio dell’iter di approvazione di farmaci neurologici per conto delle case farmaceutiche.
IL NUOVO CASO di «porte girevoli» non è piaciuto alla ministra Lorenzin che sta guidando la cordata per portare in Italia l’Agenzia Europea, attualmente basata a Londra ma costretta allo sfratto dalla Brexit. Milano, con Vienna e Copenhagen, è una delle candidate più quotate. Tra i criteri della scelta, peserà sia la credibilità scientifica del paese ospitante che la capacità di accogliere un ente europeo da quasi mille dipendenti, con un notevole indotto di consulenti e lobbysti.

il manifesto 8.10.17
L’immenso rudere da Tertulliano a Franceschini
Colosseo: la mostra, il libro. Un volume Electa a più voci ricostruisce la bimillenaria vicenda dell’Anfiteatro Flavio, «rifondato» molte volte. Conoscerne la storia è indispensabile per immaginare un futuro per Roma
di Maurizio Giufrè

E’ una circostanza ben calcolata quella della mostra Colosseo Un’icona (fino al 7 gennaio) allestita a Roma nell’ambulacro del secondo ordine dell’antico anfiteatro e della pubblicazione collettanea Colosseo (Electa, 300 illustrazioni, pp. 408, € 39,00), a cura di Rossella Rea, Serena Romano e Riccardo Santangeli Valenzani. Si collocano entrambi a conclusione della contestata riforma ministeriale di Franceschini che, con l’istituzione del Parco archeologico del Colosseo, ha fatto piccoli pezzi della gestione del patrimonio archeologico romano, sottraendo alle competenze della Soprintendenza, oltre al monumento in questione, il Foro Romano, il Palatino e la Domus Aurea. Dividere e disarticolare organismi delle istituzioni per rendere tutto più efficiente è un singolare modo di procedere. Oltretutto appare elusa la questione centrale: qual è il futuro urbanistico della capitale in relazione al suo patrimonio archeologico? Più in generale, come i Beni culturali saranno meglio salvaguardati per essere goduti dalle prossime generazioni?
Una storia indicativa
La storia dell’Amphitheatrum Flavium, illustrata dalla mostra e dal libro, è in questo senso indicativa: conoscerla produce inevitabilmente una seria riflessione. I pregevoli contributi raccolti invitano a immaginare il «domani» anche se non fanno cenno di come s’inserirà il Colosseo, con la sua area archeologica dentro le mura, nel quadro dei problemi dall’urbanistica scomposta e complessa di Roma. Non si va, quindi, oltre il programma dei restauri finanziati dalla Tod’s e la «ricomposizione della forma architettonica» (Rea) che vuole dire la ricostruzione del piano dell’arena dell’anfiteatro. In sostanza, come scrive Francesco Cellini a conclusione del suo scritto centrato sulla percezione del Colosseo negli anni della formazione della città capitale, nulla si dice su cosa sarà la città storica una volta trasformata «in un immenso recinto museale». Eppure è evidente che il secolare percorso di conoscenza che ha interessato il più imponente «oggetto» dell’antichità è sempre stato in stretta comunione con la vita degli uomini che hanno provveduto nel trascorrere nel tempo a denotarlo di valori e significati simbolici, sociali e materiali, in altre parole a relazionarsi a esso secondo l’uso di volta in volta utile e necessario.
Benevolo-Aymonino
Non per indurre a un percorso diacronico inverso – di visita e di lettura –, ma occorre prendere atto che almeno dalla fine del regime fascista, il «che fare dell’area dei Fori» è stato un brancolare nel buio; a eccezione del progetto rimasto sulla carta di Benevolo-Aymonino, che per ragioni storiografiche si sarebbe dovuto almeno menzionare. Resta così del tutto disatteso l’imperativo che ogni istituzione pubblica ha l’obbligo di perseguire: la ricerca «dei riferimenti guida, dei modelli di giudizio e di comportamento» per governare il nostro patrimonio culturale. Quei minimi accorgimenti che ci permettano, come scrisse Manieri Elia, «di stare in un luogo nel quale riconoscersi»: finalità assoluta, per parlare dell’identità dell’Urbe. Al contrario tutto oggi sembra ridursi alla perimetrazione delle aree di competenza tra ciò che sarà mio – dell’Amministrazione Capitolina – e ciò che sarà tuo – del Ministero –, per fini dove l’economicamente proficuo si fonde al vanto di esercitare il potere su un patrimonio unico al mondo.
Allora occorrerà rimarcare che le vicende del Colosseo devono rendere conto della centralità che questo ha da sempre avuto nella storia della città: eredità dell’impero dei Cesari, testimonianza del supplizio cristiano, simbolo laico della Terza Roma. Dall’apologeta cristiano Tertulliano a Mussolini, l’Anfiteatro Flavio (iniziato da Vespasiano nel 72 d.C., inaugurato da Tito nell’80, completato dal fratello Domiziano nell’82) ebbe un’«identità contesa» come pochi altri monumenti dell’antichità: «espressione di aspirazioni e ideali differenti – come racconta Domenico Palombi –, specchio e testimoni delle diverse stagioni del rapporto con l’antico, con la sua memoria, con i suoi simboli».
Come attestano dall’XI secolo i materiali d’archivio, un uso «apparentemente schizofrenico» contraddistingue l’utilizzo del Coliseum una volta abbandonati gli spettacoli circensi ancora presenti fino al VI secolo. Nel Medioevo, conseguenza del frantumarsi delle proprietà ecclesiastiche, l’antico anfiteatro, abitato negli spazi al piano terra (cryptae) da una «media élite» e in quelli degli ordini superiori (domus) da proprietari più facoltosi (Francipane, Annibaldi), impiegherà secoli prima di ritornare nelle disponibilità pubbliche (Curia). Con la nascita dell’umanesimo si mette finalmente un argine alle spoliazioni di pietre e marmi. Trascorso il tempo dei racconti immaginifici, tra il mistico e il demoniaco, dei Mirabilia, le magnificenze di Roma antica assumono a metà del Quattrocento – da Martino V a Sisto IV– nuove funzioni ideologiche. Il programma universalistico della Renovatio Urbis papale, tra restauri filologici dell’antichità e nuovi edifici monumentali, si compie affinché la fede, come disse Nicolò V, possa «essere colpita da spettacoli grandiosi». Il Colosseo, alla pari di altri resti antiquari, diventa allora, dopo i «secoli bui» del medioevo, un patrimonio da organizzare per la sua migliore resa produttiva. Il disegno papale si volge alla costruzione della «Gerusalemme terrena»: ritratto di quella celeste tanto agognata. Lo dimostra il piano urbanistico di Giulio II e ancora di più quello di Leone X, intenzionato con i suoi artisti (Giuliano da Sangallo, Raffaello) a emulare i modelli dei Grandi Antichi. Accanto ad un uso operativo del linguaggio classico si consolida in parallelo lo studio archeologico, con attente campagne di rilievi che da Bramante proseguiranno fino a Serlio e Palladio e oltre, fino alle ricostruzioni colorate dei pensionati-pittori francesi di metà Ottocento. Nonostante però i programmi (imperiali), l’«immenso rudere» restò sempre «in una condizione di isolamento», anche se come per nessun altro monumento antico si possono enumerare così molteplici tentativi per rifunzionalizzarlo: da quelli «industriali» di Sisto V per costruirvi una filanda (1590) o di Clemente XI (1700) che l’impiegò come deposito di letame per le fabbriche lì vicino di salnitro, agli usi di carattere devozionale: il piccolo tempio «in onore de’ Santi Martiri» di Bernini; il grande santuario di Carlo Fontana.
Redimere dal paganesimo
La volontà di redimere in modo definitivo l’arena da ogni trascorso pagano è un lungo processo che dalla fine del XV secolo si articola tra l’edificazione di cappelle (La Via Crucis, 1750) e chiesette (Santa Maria della Pietà), rappresentazioni sacre e opere di confraternite (Gonfalone). Prima, però, che con l’arte e i nuovi media i «segni della modernità» conducessero il Colosseo nel nostro «sempre-presente» e nell’attesa che si possa precisare un suo «inimmaginabile dopovita» (Chiodi), occorre ricordare gli impegnativi restauri e le ricostruzioni dell’Ottocento senza i quali né il Fascismo avrebbe avuto il fondale della sua Via dell’Impero, né i milioni di turisti di oggi quello dei propri selfie. Si deve a figure quali Raffaele Stern, Giuseppe Valadier, Giuseppe Camporese la «rinascita». Gli editti di Pio VII arrestarono il grave degrado dell’intero monumento che «minacciava di privare i posteri – come scrive Rossella Rea – anche della visione dello stato ruderale». Con importanti interventi ricostruttivi in circa cinquant’anni dall’inizio del secolo si diede la risposta più convincente ai sostenitori «del sentimento del pittoresco e della rovina» (Nazzaro), non solo diffuso in quel periodo ma, aggiungiamo noi, sopravvissuto ancora oggi attraverso la teoria brandiana.
In fondo nella storia del Colosseo leggiamo riflessa questa considerazione di Michel Serres: se Roma «ha saputo costruire, era necessario che sapesse fondare». Al centro di un quadro di Antoine Caron (1521-’99) che il filosofo francese cita, sotto l’immagine del Colosseo si rappresentano trucidi assassini. La «fondazione» della città avvenne dunque nel «pandemonio» che occupò lo spazio e lo mantenne. È forse dalle «molteplici fondazioni» del famoso anfiteatro che occorre ripartire per immaginarne di altre e più coerenti.

il manifesto 8.10.17
La lunga rincorsa di Mussolini antisemita
Storia contemporanea. Nell’edizione ampliata del suo «Mussolini contro gli ebrei», da Zamorani, Michele Sarfatti presenta diversi nuovi «episodi». Già prima del ’38 però...
di Giorgio Fabre

Nel maggio 1994 Michele Sarfatti pubblicava da Zamorani, editore specializzato in storia della persecuzione antiebraica, la prima edizione di Mussolini contro gli ebrei. Renzo De Felice era già malato, ma ancora attivo e dirigeva la sua rivista, «Storia contemporanea». E molto incisivo era lo stuolo dei suoi allievi, esponenti dell’establishment accademico e collaboratori di vari giornali. Mussolini contro gli ebrei metteva profondamente in crisi, soprattutto grazie alla precisione e all’incontestabilità della documentazione, le tesi dello storico del fascismo, in particolare la sua Storia degli ebrei. Era una svolta in questo campo, anche di metodo. La reazione fu un silenzio greve sul libro di tutta la potente scuola defeliciana. L’anno dopo De Felice pubblicò il famoso Rosso e Nero (Baldini e Castoldi) su Mussolini e il fascismo, ignorando del tutto questo libro. Si ricorda solo, per converso, una recensione appunto dell’allora nemico di De Felice, Nicola Tranfaglia, su Repubblica. Ma la vita del libro di Sarfatti fu assai difficile.
Egli aveva ricostruito con estremo dettaglio – spesso avendo recuperato carte autografe e lavorando sugli originali – tutte le prese di posizione e le concrete azioni persecutorie del capo del fascismo verso gli ebrei nel 1938: compresa l’elaborazione del Manifesto della razza (l’attribuzione era praticamente una novità) e la preparazione accurata delle leggi antisemite.
Dalla ricostruzione emergeva che il duce aveva condotto di persona un lavoro di una complessità enorme e Sarfatti, passo passo, lo aveva seguito – per quanto era stato possibile – nelle sue varie fasi, con documenti originali e interpretazioni assai innovative. È ovvio che a uno storico come De Felice, che aveva puntato a dimostrare come nel 1938 Mussolini avesse «discriminato» gli ebrei, più che «perseguitarli», una ricostruzione del genere potesse dare fastidio. In un certo senso, Sarfatti agì da «revisionista» nei confronti dello storico italiano accreditato come il massimo esponente italico del revisionismo storiografico. Se ne accorse George Mosse, che fino ad allora sul fascismo italiano aveva seguito in tutto De Felice. Rapidamente (e morto De Felice nel maggio 1996), Mosse fece uno scarto e nel ’97 dichiarò che su antisemitismo e razzismo non dava retta «fino in fondo» allo storico reatino e qualche anno dopo certificò che riteneva Mussolini «un convinto razzista».
Oggi, a quasi un quarto di secolo dalla prima uscita, presso lo stesso editore Sarfatti pubblica una nuova edizione ampliata di Mussolini contro gli ebrei (Zamorani, euro 28,00), 217 pagine invece di 199 e con un corpo più piccolo, in cui aggiunge e illustra diversi nuovi episodi dell’antisemitismo di Mussolini nel 1938: alcuni recuperati e ridiscussi in base ai nuovi studi pubblicati nel frattempo, altri ricostruiti in maniera inedita. Chiude il volume un capitolo sul censimento degli ebrei dell’agosto ’38, che non contiene novità rispetto al ’94.
Il risultato della seconda edizione è la dimostrazione – ancor più forte di quanto si sapesse o si potesse intuire – dell’impegno antisemita di Mussolini: che, come è noto, era un lavoratore indefesso e veloce, ma fu davvero impressionante per l’attenzione e la cura con cui predispose il terreno e poi preparò le nuove leggi contro gli ebrei. Rispetto a vent’anni fa, sappiamo ora che nel 1938 scrisse articoli (in forma anonima) sulla campagna razzista; allertò con anticipo, un mese prima del Manifesto, i ministeri che avrebbero dovuto agire; si preoccupò, fin dal novembre 1937, di avvertire i nazisti della campagna antisemita che si andava preparando in Italia. Si fece affiancare da alcuni «tecnici», i cui ruoli però sono ancora piuttosto opachi; e poi da qualche politico; ma fu lui a ideare e a guidare tutta l’operazione, con fermezza e talora perfino con estrema durezza: come oggi si vede bene dal modo in cui trattò, perfino sbeffeggiandoli, papa Pio XI e la Chiesa.
Viene da dire, quasi in automatico, che tutta questa operatività non poteva essere nata come un fungo, tra la fine del ’37 e quella del ’38. Mussolini agiva in maniera molto diversa da Hitler: era metodico, aveva tempi lunghi di preparazione e di elaborazione, più volte sperimentava e talvolta tornava sui suoi passi, come fece anche nel 1938, quando – a febbraio – preparò il dettaglio dell’azione razzista con cinque-sei mesi di anticipo. Lo aveva fatto anche in altri campi: nel fondamentale e delicatissimo terreno corporativo, che richiese anni di preparazione; o in quello della censura dei libri. È plausibile, quindi, che la preparazione sia stata molto più lunga, anche se magari non continuativa, come del resto anche nel 1938.
In effetti, da altre ricerche è emersa una diversa interpretazione del periodo che anticipò le leggi contro gli ebrei, una preparazione che risale più indietro nel tempo rispetto al 1936-’38. Sarfatti ne accenna, ma concentra la sua analisi sul periodo della persecuzione «pubblica». Eppure è ormai ampiamente documentato che eliminazioni specifiche di ebrei da vari posti di responsabilità furono ordinate a partire dal 1933-’34: accadde nei comuni, nelle province, nei sindacati, negli ospedali, in qualche caso nelle università. Mussolini poté predisporre con cura, ben soppesando e con altri stop and go prima del fatidico 1938, il terremoto che provocò con le leggi razziste. Non solo ci pensò, ma eliminò. È una vicenda su cui continua a emergere nuova documentazione, ma il quadro complessivo di questo «prequel» è chiaro e ineludibile.
Eppure, anche con questi limiti, il libro di Michele Sarfatti continua a restare un piccolo capolavoro della storiografia del Novecento, in una materia difficile e ancora controversa come quella delle leggi razziali. Oggi, questo campo storiografico è diventato un campo di battaglia, soprattutto per le lotte e per le carriere accademiche, e la qualità della ricerca è andata in caduta libera. È naturale che quel libro sia ancora, per molti aspetti, un modello.

Corriere La Lettura 8.10.17
1968
«Noi siamo esseri umani!» Così parlò Mario Savio, nel 1964
di Emanuele Trevi

«Inceppate l’ingranaggio. Mettetevi di traverso con il vostro corpo. Noi siamo esseri umani». Il 2 dicembre del 1964 è una data miliare nella storia dell’oratoria umana. Alto e magro, la testa coronata da un folto cespuglio di capelli, Mario Savio prende la parola sulla gradinata della Sproul Hall, nel centro del campus di Berkeley. Pochi giorni dopo, avrebbe compiuto ventidue anni. Era figlio di modesti immigrati siciliani, arrivati a New York dalla provincia di Caltanissetta.
Gli anni Sessanta del Novecento sono una galleria di icone talmente risapute che si sfiora sempre, nell’atto di rispolverarle, l’insignificanza. Ma a risentirlo oggi, magari all’interno del bellissimo documentario di Mark Kitchell intitolato Berkeley in the Sixties , il discorso di Mario Savio mette i brividi. Proprio la questione della libertà di parola era stata al centro delle contestazioni che per tutto l’anno avevano infiammato il campus. Ma una cosa sono le rivendicazioni politiche del Free Speech Movement, necessariamente astratte come tutto ciò che deve essere valido per tutti, e in ogni momento; un’altra è l’uso che il singolo individuo, in una determinata circostanza, fa della libertà che si è presa.
Non era, quello del 2 dicembre, il primo discorso pubblico di Savio. Pochi mesi prima, era salito su una macchina della polizia per arringare la folla, non prima di essersi tolto le scarpe per non danneggiare una proprietà pubblica. Ma per capire cosa accadde quella mattina, bisogna ricorrere al vecchio concetto di ispirazione. Come un «crescendo» musicale, il discorso attinge per gradi al suo massimo di intensità. Inizia in maniera ragionevole, e poi, quando è il momento, e solo allora, mette la rabbia al servizio dell’efficacia. Così quel celebre culmine oratorio — « We’re human beings! » — arrivò al momento giusto. Credo che le idee politiche abbiano bisogno di uno stile non meno della poesia, della pittura, della sartoria. E, se lo stile è l’uomo, è sensato credere che quel ragazzo fu la scintilla necessaria a un incendio che nemmeno lui poteva immaginarsi. Tutto quello che venne dopo, in qualche misterioso modo, gli assomigliò.

Corriere La Lettura 8.10.17
1968
La rivoluzione e la leggerezza Due dimensioni incompatibili
di Paolo Di Stefano

Tanto Vogliamo tutto di Nanni Balestrini è un romanzo politico, tanto Le pietre verbali di Maria Corti è un romanzo semiotico, quanto quello di Romano Luperini L’uso della vita (Transeuropa, 2013) è invece un romanzo sentimentale. Forse l’unico vero romanzo storico sul Sessantotto, ma soprattutto un breve romanzo di formazione sentimentale dentro la politica, anche un romanzo di amicizie, ambientato tra il febbraio 1968 e il gennaio 1969, a Pisa, epicentro della contestazione non solo in Italia, ma in Europa.
«Bisogna essere leggeri come l’uccello e non come la piuma» sono i versi di Paul Valéry che stanno in epigrafe e questa è pure l’immagine con cui si chiude il libro: la piuma scompare allo sguardo di Marcello, il protagonista, proprio mentre entra nella sua visuale un passero dalla traiettoria dritta ed elegante. La sua leggerezza, dice il narratore, non è come quella della piuma, va conquistata e forse non basta un vita intera.
L’uso della vita immerge una vicenda di finzione privata nel contesto storico ben documentato, dove compaiono Sofri, Fortini, D’Alema, Della Mea, le occupazioni, l’università, le discussioni, le fabbriche, gli slogan, i cortei, i canti, gli scontri, la polizia. In questa mescolanza di verità e invenzione, la dimensione pubblica convive con quella privata, la lotta politica convive con le crisi esistenziali, familiari, generazionali: «Le rivoluzioni — dice il padre ex partigiano a Marcello — sono una tragedia, la mia generazione l’ha fatta contro i fascisti e i tedeschi, ed è stata una tragedia, ogni guerra civile è una tragedia, e noi l’abbiamo fatta senza tante parole…».
Nei figli, invece, era ancora viva l’illusione che l’energia rivoluzionaria, covando nel grembo dell’immaginazione liberatoria, si facesse autentica felicità collettiva. Nella narrazione non c’è senno di poi, come precisa Romano Luperini nella nota finale, ma nei piccoli fallimenti individuali e amorosi, nelle intermittenti incertezze del protagonista tra rabbia e frustrazione si avverte il presentimento del peggio. Cioè del passaggio brusco dalla leggerezza iniziale alla pesantezza tragica che verrà.

Corriere La Lettura 8.10.17
1968
Simon preferiva il canottaggio ma finì a prendere manganellate
di Francesco Piccoli

È il punto di partenza della storia di Fragole e sangue di Stuart Hagmann (1970) che mi ha fatto identificare con Simon, protagonista biondo e occhialuto (e un po’ brutto): lui pratica il canottaggio e delle lotte studentesche non gliene frega niente. Nemmeno del fatto che una parte dei terreni dell’università stanno per essere ceduti alle forze armate come campi di addestramento. Però il suo compagno di stanza lo convince a partecipare all’occupazione perché ci sono molte ragazze carine. Questa è la motivazione che convince Simon, che si innamorerà di una ragazza e si innamorerà della causa fino alla commovente scena finale in cui tutti gli studenti sono in cerchio all’interno dell’università, mentre genitori e professori, lì fuori, vedono arrivare la polizia armata e pronta a entrare.
E i ragazzi invece di opporre resistenza battono il tempo sul parquet della palestra e intonano in coro Give Peace a Chance , come un mantra che oppone la forza del progresso e della libertà alla forza della repressione. La polizia però entra e scarica lacrimogeni e manganellate. Simon e gli altri vengono picchiati e trascinati fuori, e Simon mostrerà forza e coraggio nel resistere, fino al tuffo finale, liberatorio e strepitoso, per andare a salvare la sua ragazza.
Fragole e sangue è il film simbolo di quegli anni proprio perché in meno di due ore riesce a raccontare mirabilmente il coinvolgimento di qualsiasi giovane disimpegnato nell’appartenenza alla propria generazione. È un film pieno di musica indimenticabile, un po’ sconclusionato ma ancora potente.
Quando finisce, bisogna concentrarsi molto per ricordarsi di non essere più studenti, di non essere più giovani, di non avere più la forza di opporsi ai manganelli. E il massimo a cui si può aspirare è essere uno di quei genitori trepidanti aggrappati alla rete di protezione, che sperano soprattutto che la ragione sacrosanta dei figli non sia troppo in opposizione con la repressione. E in ogni caso, per quanti sforzi si facciano, non si è più protagonisti, ma spettatori. Appassionati e commossi, desiderosi di cambiare il mondo. Ma solo spettatori.

Corriere La Lettura 8.10.17
1968
Il proletariato della cucina disintegra il salotto di Pirandello
di Maurizio Porro

I drammaturghi inglesi sono stati i primi e gli ultimi — da Osborne che già ricordava con rabbia a Nigel Williams con i violenti scontri proletari di Nemico di classe — ad accorgersi che era scoppiato il ’68 anche sulle scene e anche l’essere o non essere assumeva altro significato. Mentre i dreamer contestavano a Parigi i grandi attori di potere classico, mettendo sul banco degli imputati anche Molière e Racine, una nuova realtà sociale oggi tra le prime della scena mondiale, il Théâtre du Soleil, sede nella Cartoucherie alla periferia di Parigi, con la regia della grande Ariane Mnouchkine, metteva in scena al Festival di Venezia, addì 7 ottobre 1968, La cucina di Arnold Wesker. Che riassume nella forma e nella sostanza i comandamenti di un’epoca che andava sganciando per sempre il teatro dai tre atti ambientati nei salotti di Pirandello, nelle reggie di Schiller, nei saloni molieriani o nelle dacie di Cechov.
Che la Mnouchkine amasse il collettivismo lo dimostrerà anche il seguente 1789 , data non scelta a caso, che debuttò a Milano col Piccolo Teatro.
La cucina che l’arrabbiato Wesker aveva scritto profetizzando il cambio di marcia sociologico, è la storia dettagliata ma non naturalistica di una qualunque giornata di lavoro nella cucina di un grande ristorante, dove non ci devono essere vere pietanze, ma piatti vuoti (ci fu un allestimento italiano a cura di Lina Wertmüller). Sono 40 personaggi che urlano, cucinano, litigano, si disperano, preparano arrosti, fritture, pesce bollito, carne alla griglia, buffet freddo, uova, verdure, pasticceria (l’autore era stato capo pasticcere di un ristorante del Boulevard des Capucines).
È la prima volta che il proletariato delle cucine fa il suo ingresso da protagonista (in un testo non brechtiano) presentando il conto dei suoi problemi e mirando simbolicamente al cuore dei padroni e dei clienti ai tavoli. «Per Shakespeare il mondo è un palcoscenico, per me è la cucina», diceva Wesker: ci sono tante piccole storie che affermano ognuna la propria priorità, denunciando lo sfruttamento del lavoro dove l’uomo si trova solo con se stesso e senza risposte se non il vecchio slogan vintage della lotta di classe.

Corriere La Lettura 8.10.17
1968
Pugni con guanti neri al cielo Contro il razzismo all’Olimpiade
di Mario Sconcerti

È stato un gesto semplice, fatto in modo povero, ma ha finito per rappresentare cinquant’anni di sport e conquiste sociali. Era l’Olimpiade del 1968, Città del Messico. Si erano appena corsi i 200 metri maschili, aveva vinto Tommy Smith, un texano longilineo con un tempo eccezionale, 19.83. Era il primo uomo a scendere sotto i 20 secondi nella storia dell’atletica. Gli ultimi trenta metri li aveva corsi a braccia alzate. Terzo era arrivato John Carlos, nato e cresciuto ad Harlem. Appartenevano tutti e due al Programma olimpico per i diritti umani, un’organizzazione nata a Berkeley che chiedeva agli atleti neri di contestare i Giochi, di gareggiare ma protestando (scegliessero loro le modalità).
Smith e Carlos salirono sul podio scalzi, con una collana di pietre al collo dove ogni pietra rappresentava una violenza subita, e alzando a pugno chiuso le mani con guanti neri al momento dell’inno americano. Avevano fatto qualcosa di immenso quasi senza capirlo. Carlos però si era dimenticato i guanti al villaggio olimpico, mentre Smith li aveva fatti comprare a sua moglie Denise. Fu Peter Norman, l’australiano medaglia d’argento a suggerire di usare uno a testa i guanti di Denise.
Quando scesero dal podio non erano più atleti, erano dei traditori. Furono cacciati il giorno stesso dalla nazionale americana, cominciarono a ricevere da tutto il Paese minacce di morte, perfino l’esercito li espulse per indegnità. Carlos è tormentato da telefonate anonime, sua moglie non resiste, si toglie la vita. Lui vivrà facendo il buttafuori ad Harlem, Smith lavando auto. Viene travolta la vita anche di Norman. Era un bianco, ma gli sembrava giusta la protesta dei due americani. Anche lui sarà costretto a chiudere con l’atletica. Vivrà insegnando ginnastica e lavorando in una macelleria.
Poi il tempo passa, la lunga corsa di Smith e Carlos continuò a essere discussa ma finalmente anche capita. Smith nel 1999 viene dichiarato atleta americano del Millennio. Sei anni dopo il riconoscimento più forte: la loro foto con i guanti neri diventa un monumento nel campus del San José State University. Ad applaudirli quel giorno c’era anche Norman.

Corriere La Lettura 8.10.17
1968
Un’irrefrenabile gioia di vivere è il superpotere di Barbarella
di Alessandro Trevisani

Single, indipendente, innamorata dell’amore. Combatte per pacificare, mai per distruggere. E la sua arma è l’amplesso, con cui sfinisce chi l’assale. Non solo uomini: Barbarella è una terrestre del quarantunesimo secolo, che viaggiando nello spazio seduce angeli, regine, ragazzine, perfino robot. Esordisce nel 1962, sul trimestrale maschile «V-Magazine». Al suo creatore, Jean-Claude Forest, l’editore Gallet dà carta bianca. Nella fluida pennellata del fumettista Barbarella prende il viso, gli occhi bistrati e la biondissima cotonatura di Brigitte Bardot. Proprio nel 1968 il pigmalione di BB, Roger Vadim, dirigerà la sua terza moglie, Jane Fonda, nel film Barbarella . Intanto il fumetto è diventato un successo mondiale, col libro edito nel 1964 da Éric Losfeld, un ex contrabbandiere col pallino della letteratura erotica, che lo fa tradurre in una dozzina di Paesi, tra cui gli Stati Uniti.
Nella patria dei comics Barbarella è uno choc, così determinata (laddove Dale Arden, la compagna di Flash Gordon, era banalmente ancillare) e così focosa (mentre Wonder Woman era androgina e desessualizzata). «La prima primadonna del fumetto», così la presenta la Valentina di Crepax sulle pagine di Linus. Speciale Barbarella , nel 1969 (solo nel 2016 avremo un Barbarella. Edizione integrale , Comicon Edizioni, pp. 180, e 18). È anche la prima a uscirsene con certe battute. «So sempre quello che voglio, e dove e quando», dice in una storia del 1968. Qualche tavola dopo è incoronata regina da una congrega di orribili protettori di prostitute. «Prima mi hanno fatto puttana... Poi santa! Finiranno per sposarmi! Sveglia, vecchia mia!», esclama lei, e scappa.
Come gli eroi western, Barbarella non si ferma mai. Ma a portarla via è una gioia di vivere che si fa urgenza. «Non sono tranquilla per niente... Meglio fare subito l’amore!», dice, sotto assedio, all’Orticario, un personaggio che è il sosia di Forest. Ma Barbarella non è la donna che il suo autore vorrebbe avere. È quella che vorrebbe essere. Ed è questa la cifra «sessantottina» del marchio: Forest&Barbarella, come Flaubert&Bovary, cent’anni dopo.

Corriere La Lettura 8.10.17
1968
Politica e voglia di sapere Il lavoro del compagno ciclostile
di Aldo Colonetti

«Uno, nessuno e centomila» oggetti per rappresentare lo spirito del tempo del Sessantotto, per citare Luigi Pirandello: come evocava Il grande numero , titolo della 14° Triennale di Milano, maggio 1968, inaugurata e poi subito occupata da studenti e artisti (manifesto di Albe Steiner). Introduceva il concetto di «serialità infinita» che ha definito, in tutte le sue manifestazioni, il ’68. E allora ecco che l’oggetto più rappresentativo di quel periodo forse è il ciclostile: oggi pochi lo ricordano, anche perché è come se fossero passati mille anni, dall’inchiostro al fax fino ad arrivare alle immagini virtuali del nostro tempo. Un oggetto anonimo, che derivava dai tradizionali processi di stampa, semplificando però sia i meccanismi sia i costi di produzione: una macchina leggera per riprodurre un numero limitato di copie di testi e immagini al tratto, mediante una matrice di carta di seta paraffinata, il cui testo veniva battuto con una normale macchina da scrivere.
Ogni università, ogni scuola, ma soprattutto tutti i diversi movimenti, associazioni, piccoli e grandi partiti, avevano in un angolo questo «oggetto» meccanico. Il funzionamento, nei più semplici, era manuale. Da lì partivano non solo volantini, convocazioni, sigle di gruppi che spesso nascevano e scomparivano in poche settimane: col ciclostile venivano anche distribuite le dispense dei corsi universitari: ricordo una serie lezioni di Gillo Dorfles sui limiti della semiotica, ma anche la prima traduzione dei Grundrisse di Marx per il corso di Enzo Paci, ciclostilata da uno dei suoi assistenti, Giairo Daghini, alla Facoltà di Filosofia di Milano.
Forse non eravamo totalmente consapevoli di come questi fogli volanti, che non erano ancora libro, destinati a durare il tempo breve di una manifestazione o di un esame, rappresentassero in nuce un fenomeno oggi invece diffuso dovunque, una sorta di prêt-à-porter della lettura. Parole e immagini si possono riprodurre all’infinito con lo smartphone, ma che nostalgia dell’odore d’inchiostro e soprattutto del desiderio di conoscenza che un foglio, anche stampato alla bell’e meglio, sapeva stimolare. Forse meriterebbe il Compasso d’Oro alla carriera, perché si tratta comunque di design.

Corriere La Lettura 8.10.17
Alain Touraine
Nel mondo postsociale conta soltanto il singolo
di Carlo Bordoni

La democrazia è un concetto poliedrico. Cambia continuamente di significato a seconda dei tempi. Dall’originale senso di dominio del popolo, che assume nei classici persino una sfumatura negativa, poiché accusato di una forma di oppressione nei confronti delle minoranze, si è passati al suo riconoscimento come forma politica preferenziale, quasi ideale. Come governo della volontà maggioritaria, malgrado le perplessità di Jean-Jacques Rousseau sulla rappresentanza, fino all’interpretazione classista di Karl Marx, la democrazia è arrivata fino a noi dopo continue revisioni rese necessarie dalle mutate condizioni politiche e sociali. Si pensi ad Alexis de Tocqueville, che importò dall’America l’idea più attuale di democrazia quale riconoscimento di uguali diritti e doveri per tutti.
Adesso siamo di fronte a un ennesimo aggiustamento di tiro. Alain Touraine, decano dei sociologi francesi, classe 1925, ha pubblicato di recente in due ponderosi tomi la summa del suo pensiero critico sulla modernità. Prima con La fin des sociétés (Seuil, 2013), poi con Nous, sujets humains (Seuil, 2015), di cui ora il Saggiatore presenta la traduzione italiana, Noi, soggetti umani , a cura di Massimiliano Matteri.
Touraine riconosce al «soggetto umano» la priorità di ogni diritto. Affermazione che può sembrare il banale rafforzamento di un principio largamente condiviso, ma che invece nasconde uno «scivolamento» sostanziale dai diritti dell’insieme degli uomini al diritto universale del singolo, indipendentemente dal contesto in cui vive. La posizione di Touraine, nell’attualizzarsi e adattarsi alle nuove tendenze sociali di valorizzazione dell’individuo, modifica l’idea stessa di democrazia, assegnando al soggetto un primato che finora gli era stato negato. O, meglio, che gli era riconosciuto e si era perso per strada.
Si tratta di una conquista (o riconquista) importante, che stabilisce una volta per tutte la conclusione di un lungo processo di rivalutazione del soggetto, partito dagli inizi del secolo scorso col pensiero di Edmund Husserl e di Martin Heidegger, attraverso Jean-Paul Sartre e Jacques Derrida, e arrivato fino a noi con i movimenti degli Indignados, Occupy Wall Street, le Primavere arabe e i manifestanti di Piazza Taksim.
Al pari di Stéphane Hessel, che li vede alimentati dall’indignazione, Touraine considera questi movimenti una risorsa e li definisce etico-democratici. Non sono rivoluzioni — osserva — ma «lampi di soggettivazione vigorosa, incapaci di trasformarsi in organizzazione politica e in strategia». Mentre le rivoluzioni portano alla guerra civile e al terrore, la soggettivazione «è prima di tutto una liberazione». A questi si oppongono gli «antimovimenti sociali», nati dal fallimento delle aspirazioni nazionaliste degli Stati che hanno attraversato l’esperienza del colonialismo o della dipendenza dall’Occidente. Utilizzano preferibilmente la causa religiosa (fondamentalismo), linguistica o tradizionale come arma contro forze ritenute ostili e lontane dal loro spirito. Gli antimovimenti sociali sono caratterizzati dalla chiusura in comunità isolate, mossi soltanto dalla volontà di prevaricare e distruggere l’altro, alla ricerca di una riaffermazione identitaria.
La crisi che attanaglia l’Occidente non ha solo carattere economico. Lo sviluppo delle tecnologie e delle comunicazioni ha introdotto una nuova forma di potere totalizzante, simile a quello delle dittature del XX secolo, ma più diffuso e pervasivo. Il cambiamento è avvenuto sotto i nostri occhi: il capitalismo finanziario ha sostituito quello produttivo. Siamo immersi in un mondo immateriale che è possibile definire «società della conoscenza», anziché della comunicazione.
In una sorta di scansione temporale, la fase più recente della modernità si rivela attraverso una sequenza in cui, a una società fortemente industrializzata, succede quella definita postindustriale — espressione che lo stesso Touraine aveva coniato in precedenza — dove il consumo prevale sulla produzione. Ma, invece di postindustriale , adesso sarebbe meglio parlare di società postsociale . Una società che non si riconosce più per la capacità di modificare l’ambiente grazie alla tecnologia, ma che è pienamente consapevole della propria creatività. La definizione di postsociale , pur con le perplessità dovute all’uso fuorviante del termine, riguarda una società aperta alla globalizzazione, che utilizza la tecnologia, ma non ne è succube; che ha maturato la dignità del soggetto e un forte senso di liberazione da ogni condizionamento politico e religioso.
Questo perché «la società si è ridotta a un ibrido, dove i conflitti sono spostati fuori dal campo sociale». Infatti, se prima la società era caratterizzata dall’opposizione interna delle classi, ora è avversata da forze esterne al contesto sociale: per questo è postsociale . Ciò consente a Touraine di liberarsi in un sol colpo del materialismo storico e di ogni dubbio sulla secolarizzazione. Durante l’industrializzazione la parola d’ordine era «solidarietà» tra i lavoratori, che si opponevano al dominio del capitalismo. Adesso che — sociologicamente — non esiste più la classe operaia, pur continuando a esistere gli operai, alla solidarietà si è sostituito il diritto alla dignità. L’individuo, liberato da dipendenze ideologiche, acquisisce la piena coscienza di sé come «portatore di diritti umani universali».
Quanto alla secolarizzazione, cioè la liberazione da influenze religiose, Touraine è ancora più categorico: «Non ammetto che una società in possesso dell’esperienza della propria creatività, possa desiderare di sottomettersi alle decisioni di un dio». Ma non solo: «Qualsiasi richiamo a un principio sacro… non può essere che un atto di forza di una minoranza priva di legittimità». È per la piena autonomia individuale, dove questo termine è inteso nel suo senso etimologico: che ha una propria legge ( nomos ) e che perciò non deve sottostare a imposizioni limitative della sua libertà.
I diritti umani universali devono collocarsi al di sopra delle istituzioni politiche, persino al di sopra delle norme costituzionali e della legge. Si può leggere come un superamento dell’idea hobbesiana di Stato moderno, detentore di un potere assoluto sul cittadino, al quale offre garanzie di sicurezza, stabilità e certezza in cambio della libertà. Suona quasi come una liquidazione del passato; una sorta di «liberi tutti», in attesa che una nuova entità ripristini il sistema socio-politico e annunci che la ricreazione è finita.
Una formulazione, a suo modo, rivoluzionaria, poiché rovescia il principio machiavellico di Carl Schmitt, per cui il sovrano si pone al di sopra delle leggi che egli stesso ha emanato: ora è il soggetto umano, il singolo, l’uomo della strada, a venire prima di qualsiasi legge, mentre le stesse norme — così come il sovrano, figura incoerente, vista l’inutilità di «colui che sta più in alto di tutti» — si pongono gerarchicamente al di sotto di lui. Il lavoro di Touraine presenta una continua contrapposizione/alternanza tra ciò che è stato e ciò che deve essere, secondo un principio volontaristico teso a realizzare una società ideale: pur partendo dai sintomi del presente, non nasconde un sottofondo utopico, venato di un sottile anarchismo che ammanta il suo pensiero di uno smisurato senso di libertà. Se non immediata, almeno auspicabile.

Corriere La Lettura 8.10.17
Il potere della «S» ci mostra le piccole catastrofi delle cose
di Giulio Giorello

Nel 1730 la regina Caroline si oppose al progetto di un lago rettangolare in mezzo a Hyde Park, a Londra. Fu invece realizzato un curvo specchio d’acqua che rispettava le ondulazioni del terreno. Venne chiamato Serpentine, come se vi fosse qualcosa di «diabolico»: Lucifero in sembianza di serpente aveva spinto a peccare Eva e Adamo! Ma costituiva una rivincita delle figure curve nelle applicazioni della matematica al paesaggio. Dall’antichità il curvo aveva attratto l’attenzione dei matematici ma spesso si trattava di ricondurlo a ciò che era retto: rettificazione della circonferenza, quadratura del cerchio, cubatura della sfera... Galileo dichiarò che il mondo era un libro scritto in caratteri geometrici di questo genere. Ora Allan McRobie ( The Seduction of Curves ) propone per quel «libro» un altro «alfabeto»: attinge alle figure studiate da René Thom (1923–2002) nella sua teoria delle catastrofi e rese popolari in varie applicazioni da Christopher Zeeman.
Nelle parole del matematico russo V. I. Arnol’d, le catastrofi «sono bruschi mutamenti che avvengono come reazione improvvisa di un sistema sottoposto a una variazione regolare delle condizioni esterne». Non si tratta sempre di disastri! Thom amava dire che poteva essere una grandiosa catastrofe anche la fine di un immenso impero come quello di Alessandro Magno; ma da essa potevano nascere nuove realtà storiche. Del resto, il libro in cui Thom presentò la sua teoria si intitolava Stabilità strutturale e morfogenesi ; la stabilità non riguardava i processi studiati in sé, ma il loro modo di presentarsi secondo delle modalità che rimanevano le stesse operando piccole variazioni, le quali, però, potevano rivelarsi «fatali» entro ciascuno di quegli stessi processi. Basti pensare a una curva fatta a S: supponiamo che una pallina si muova lungo l’arco superiore di questa S; a poco a poco si avvicina al punto finale e quando lo raggiunge cade sul corpo sottostante della S. Immaginiamo ancora che la pallina inizialmente mandi una luce, per esempio azzurra; e che seguendo la forma della lettera maiuscola cambi colore: caduta più in basso, manda (poniamo) una luce rossa. Il brusco salto da un colore all’altro è «catastrofico»!
L’approccio geometrico si adatta a cambiamenti di stato (solido, liquido e gassoso), stabilità delle navi, attività del cervello, rivolte nelle carceri, «il comportamento dei giocatori in borsa, l’influenza dell’alcol sui guidatori o persino il sistema di censura sulla letteratura erotica» (Arnol’d). Mentre Zeeman «cercava numeri», Thom sembrava invece più attento a una comprensione qualitativa del mutamento, affascinato com’era dall’emergenza delle forme in campo biologico e linguistico. McRobie ora mira a ritrovare le figure di Thom nella rappresentazione artistica del corpo umano. Lo confermano le sue modelle, liete di poter «influenzare lo spazio». Thom aveva concluso: «In un tempo in cui tanti studiosi stanno a fare calcoli, può essere bello che quei pochi che lo possono sognino».

Corriere La Lettura 8.10.17
Neuroscienze
Il linguaggio è dentro di noi
di Luigi Ripamonti

Esistono lingue impossibili? E se sì, a che cosa servirebbero? Per esempio a delineare le caratteristiche che rendono tali quelle possibili, cioè quelle che usiamo.
Questo l’approccio scelto da Andrea Moro, uno dei maggiori neurolinguisti mondiali, per tratteggiare, di fatto, lo stato dell’arte della linguistica moderna, secondo la quale la struttura del linguaggio non è determinata dalla funzione comunicativa, ma è, invece, l’esito di un progetto biologico.
In altre parole: l’insieme di neuroni, sinapsi, fibre cui ricorriamo per parlare e scrivere non si è sviluppato per questo scopo. È il contrario: poiché abbiamo un cervello fatto in un certo modo possiamo parlare e scrivere, cioè comunicare in un modo diverso dalle altre specie. Studi di neurobiologia hanno identificato fasci nervosi specifici per queste funzioni che sono caratteristici dell’uomo e sono assenti, per esempio, nei primati.
Possiamo considerare il linguaggio sia da un punto di vista formale sia da uno fisico, spiega l’autore. La prospettiva formale descrive il linguaggio come un insieme di elementi primitivi discreti (parole) e di regole di combinazione capaci di generare una sequenza infinita di strutture (sintassi), mentre la prospettiva fisica lo inquadra, dal canto suo, in due ambienti differenti: fuori e dentro il cervello. All’esterno del cervello il linguaggio consta di onde meccaniche d’aria (suono), all’interno di onde elettriche, il codice che le cellule nervose utilizzano per scambiarsi informazioni.
Dal punto di vista formale è stato dimostrato che una lingua è possibile, cioè accettabile dal nostro sistema nervoso, solo se risponde a determinati prerequisiti, come per esempio ricorsività , non monotonicità e altri ancora. In questo caso, qualunque sia il suo livello di complessità, un idioma può essere imparato da un bambino entro i quattro anni di vita, proprio perché il suo cervello lo sa gestire. Se proponessimo invece a un bambino una lingua artificiale, pur dotata di struttura e coerenza logica interne, egli non potrebbe impararla: sarebbe una lingua impossibile. E di questo esistono prove neurobiologiche indirette ottenute su individui adulti.
Sono state identificate infatti aree cerebrali che, se esposte all’ascolto di frasi che abbiano un codice sintattico «possibile», si attivano e che invece, se sollecitate con parole in un ordine che non si attiene alle regole fondamentali per la nostra specie, non reagiscono, cioè non mettono in moto alcun segnale di ricezione e decrittazione. E ciò indipendentemente dalla lingua già conosciuta.
Il cervello di un bambino, in questo senso, va considerato come staminale , cioè capace di differenziarsi nell’apprendimento di qualsiasi lingua che sia riconosciuta dal suo «hardware», che, fra l’altro, agisce come un setaccio, in grado di filtrare costruzioni sintattiche inaccettabili. Possiamo immaginare la lingua come un arazzo di cui noi vediamo la parte anteriore, chiarisce Andrea Moro, se però noi giriamo l’arazzo ci rendiamo conto che il risultato che abbiamo osservato è sostenuto e reso possibile da una serie di intrecci sottostanti.
Le proprietà specifiche del linguaggio umano, insomma, sono ancorate a leggi di natura e non a qualcosa che si sviluppa come accumulo di fatti storici casuali.
È vero che le lingue mutano con il tempo, soprattutto nel lessico, ma devono comunque obbedire alle regole dettate dalla nostra struttura biologica, che è invariante e comune a tutte le latitudini e che, di fatto, rispetto alle proprietà formali non si evolve.
Tornando alla distinzione iniziale e volendo affrontare il problema da un’ottica puramente fisica, può essere interessante ed emblematico un esperimento descritto dall’autore, nel corso del quale è stata confrontata la forma delle onde elettriche registrate in un’area non acustica del cervello (cioè non connessa alla raccolta e all’analisi del suono) con quelle che si generano dopo la lettura mentale di identiche espressioni. Ebbene il risultato è che le due forme d’onda sono così simili da sovrapporsi a prescindere dalla presenza del suono. Ciò significa che l’informazione acustica è parte del codice sin dall’inizio, o almeno da prima che la produzione del suono abbia luogo.
Gli studi di linguistica e neurolinguistica dicono quindi, in sostanza, che affermare che il linguaggio è strutturato per comunicare sarebbe come dire che la mano si è evoluta per impugnare la biro.
E indicano invece che gli uomini, probabilmente gli unici fra gli esseri viventi, hanno caratteristiche organiche che rendono possibile la creazione di una sintassi capace di generare senso e che risponde alle necessità fondamentali di ciò che intendiamo per linguaggio, superando la convinzione secondo cui le lingue possono differire le une dalle altre senza limite e in modi imprevedibili.
Ciò fa concludere a Moro che: «Le sfide che l’esplorazione del linguaggio pone alla teoria e alla prassi sono completamente cambiate da quando l’idea delle lingue impossibili è stata adottata come guida per la ricerca, ma la vera sfida, alla fine, non riguarda un oggetto: riguarda noi. Il linguaggio, come i teoremi e le sinfonie, esiste solo in noi, ed è in noi che il Big Bang che conta nella storia biologica della nostra specie dev’essere trovato; fuori da noi, ci sono solo oggetti, movimento e luce».

Corriere La Lettura 8.10.17
Figli che uccidono i padri Succedeva già nell’antica Roma
di Teresa Ciabatti

«Volevo uccidere mio padre» dichiara ai pm Manuel Foffo assassino, insieme a Marco Prato, di Luca Varani. «Non posso biasimarti per quello che hai fatto», gli scrive in carcere Pietro Maso, lui che il padre lo ha ucciso davvero, padre e madre, per incassare l’eredità e fare la bella vita subito, no, non poteva aspettare. Questa è la società di oggi, la famiglia contemporanea. Se non fosse che Eva Cantarella, storica dell’antichità, col suo nuovo libro, Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi (Feltrinelli), smonta la convinzione che certi crimini appartengano alla famiglia moderna. Con garbo («devo dire che una simile ipotesi ha sempre destato in me molte perplessità»), l’autrice contraddice giornalisti ed esperti, mostrando invece la continuità con il passato. Ovvero: abbiamo sempre ucciso i padri (dove i padri rappresentano anche madri, fratelli, mogli).
Nel mondo classico il grande problema tra generazioni era la patria potestas : mentre in Grecia terminava con la maggiore età dei figli, a Roma perdurava fino alla morte dei padri. Uomini adulti senza autonomia economica né diritti giuridici finché era in vita il padre. Ecco che la questione si faceva urgente: quando muore il padre? La morte del padre via via diventa desiderio, auspicio, libertà. «I sessantenni giù dal ponte», recita un vecchio detto romano alludendo alla pratica di buttare i vecchi nel Tevere, in una società in cui i sessant’anni sono considerati estrema vecchiaia. A dimostrazione che — come nota Eva Cantarella intitolando un capitolo «Breve preistoria della rottamazione» — l’insofferenza odierna dei giovani, la loro voglia di prendere il comando non è una novità. Dalle fonti la studiosa riscontra che l’uso di gettare i vecchi nel Tevere fosse ancora abitudine nella Roma classica, benché qualcuno se ne vergognasse, vedi Ovidio: «Chi crede che i nostri antenati mandassero a morire i sessantenni li condanna a una terribile infamia» scrive nei Fasti , per poi contraddirsi altrove, come si contraddicono Cicerone, Lattanzio e Varrone. Insomma, a volte lo negano, altre lo ricordano, finendo solo per dimostrarne l’esistenza: sì, i vecchi venivano uccisi.
Dalla realtà giuridica è anche facile capirne i motivi: padri unici titolari dei diritti e figli adulti costretti ancora a dipendere. Figli che, se maschi e se maggiorenni, godevano tuttavia di diritti minori, quale il diritto a partecipare alle assemblee, o a ricoprire cariche pubbliche, incongruenza che generava non pochi equivoci.
Prendiamo l’esempio di Caio Flaminio, tribuno, che promulga una legge agraria nonostante l’opposizione del Senato il quale minaccia di scatenargli contro l’esercito, eppure niente: lui non cambia idea. Coraggioso, temerario, Caio Flaminio porta avanti la legge. Un giorno però, proprio quando sta riferendo in assemblea, arriva il padre che lo trascina giù dai rostri e lo porta via come un qualsiasi bambino bizzoso. E il figlio — il suddetto coraggioso temerario — senza protestare si rimette alla volontà paterna. Dunque: che cosa dovevano fare questi figli romani se non augurarsi la morte dei padri? Da una legge attribuita a Romolo veniamo a sapere che a Roma i padri sui figli avevano diritto di: incarcerarli, percuoterli, costringerli a lavorare nel proprio fondo, venderli e ucciderli. Ammettiamolo: era così innaturale desiderare ardentemente che questi padri morissero? I sessantenni giù dal ponte, sì, ci troviamo a concordare a distanza di secoli, perché le frustrazioni interne alla famiglia della Roma antica sono le nostre; e, seppur in differenti contesti sociali e giuridici, uguali sono le motivazioni, finanche le azioni.
Tuttavia Come uccidere il padre non è solo un saggio, un’argomentazione documentata e intelligente. È qualcosa di più, qualcosa di unico grazie allo sguardo dell’autrice: potente, disincantato e acuto come quello di Truman Capote sull’America da F. D. Roosevelt a J. F. Kennedy. Uno sguardo, quello di Eva Cantarella, mai reverenziale (neppure irriverente) verso il mondo classico. Nel racconto c’è la storica, ma anche la narratrice capace di cambiare tono, suscitando ora divertimento, ora empatia.
Ecco un Ovidio ritratto nei suoi vezzi. Ovidio che s’innamora di continuo: «Avevo il cuore tenero e facilmente conquistabile dai dardi di Cupido, e sensibile a un impulso anche leggero» ( Tristia ); Ovidio che ha parole denigratorie per la prima moglie — «una donna né degna né utile»; Ovidio che liquida la seconda come una che non ha mai occupato un posto saldo nel suo cuore. E oltre: Ovidio che si contraddice parlando di una stessa donna amatissima, la terza moglie, di cui celebra la devozione immaginandola sofferente per la lontananza, poi — quasi in un repentino cambio d’umore — dubitando: ma sarà davvero triste? Infine rimproverandola: «Hai perso un marito, devi pure essere triste, affliggiti, dunque, per la perdita che ti ha colpito, mia dolcissima sposa, e trascorri il tempo della tristezza provocata dalla mia sventura piangendo la mia sorte...».
Un Ovidio capriccioso, narcisista, iracondo e romantico, insicuro, fragile quanto la Marilyn di Truman Capote, «la bellissima bambina» che non vuole vedere cadaveri.
Come uccidere il padre di Eva Cantarella non è quindi solo studio assennato, ma narrazione che appassiona, diverte, e commuove. Appassiona nel racconto dei casi familiari, vedi quello del figlio che s’innamora della matrigna, come testimoniato nelle Controversiae di Seneca. Succedeva di frequente del resto che i figli, rimasti nella casa paterna dopo il divorzio dei genitori, fossero costretti a convivere con una matrigna loro coetanea se non più giovane di cui s’innamoravano. Conseguenze: litigi, minacce, omicidi.
Come uccidere il padre diverte, specie sull’argomento sesso: medici che consigliano il controllo degli eccessi sessuali, Lucrezio che deplora il desiderio come malattia, raccomandando all’uomo saggio di evitare la follia del piacere delle carni.
Come uccidere il padre commuove quando — secondo testimonianze da Lattanzio a Plinio — i vecchi decidono di andare a morire. Nessun conflitto, nessuna costrizione o parricidio, solo uomini che arrivati a un certo punto dell’esistenza si sentono inutili, forse stanchi, e si gettano nelle acque di loro spontanea volontà. Padri che tolgono il disturbo, lasciando i figli finalmente liberi: che adesso siano i giovani a vivere, a portare il fardello.

Corriere La Lettura 8.10.17
La rivoluzione di Velázquez: i quadri ci guardano
di Mauro Covacich

Chi guarda chi? È solo a un primo sguardo distratto, come capita spesso passando in rassegna le sale di un grande museo, che si ha l’impressione di guardare i quadri. Poi, prestando maggiore attenzione, risulta evidente che sono i quadri a guardare noi. I quadri ci guardano e, lo sappiamo bene, ci interrogano, innanzitutto sulla loro permanenza. I modelli ritratti sono morti da un pezzo ma non i loro volti, che noi manteniamo in vita o, meglio, riaccendiamo fungendo da innesco spirituale, per certi aspetti telepatico, al materiale inerte di cui sono composti.
« Las Meninas è come una camera della mente, un luogo in cui i morti non muoiono», dice Laura Cumming quasi all’inizio di Alla ricerca di Velázquez (Neri Pozza). A monte di questa intuizione c’è il movente personale dell’autrice che inizia la sua ricerca per caso, di fatto schivando l’arte e tutti i suoi contenitori urbani, ancora in preda al dolore per la scomparsa del padre, pittore scozzese alle cui opere la figlia offre in cuor suo una promessa di fedeltà — non avrò altro artista all’infuori di te — finché non incontra Velázquez, finché non si affaccia alla sala del Prado dominata da Las Meninas dove, nel varco casuale, quasi proditorio, creatosi tra i visitatori, il quadro la convoca a una resa dei conti.
Chi guarda chi: nessuno come Velázquez pone la questione con uguale radicalità. Dobbiamo entrare bene nel gioco di rimandi escogitato dall’artista in Las Meninas . Sulle prime sembrerebbe il ritratto della principessina Margherita circondata dal suo seguito, le damigelle (da cui il titolo), la nana, il cane, un probabile giullare e altri due personaggi in secondo piano. Poi però ci accorgiamo della presenza del pittore, cioè di Velázquez stesso ritrattosi accanto a questa allegra combriccola, intento a dipingere su una grande tela di cui vediamo il telaio posteriore. Quindi il soggetto del quadro è l’artista? No, anzi sì, in un certo senso: l’artista nell’atto stesso di dipingere ciò che non vediamo nel dipinto, ovvero ciò che lui sta dipingendo sulla tela a noi celata, ovvero ciò a cui tutti i personaggi in scena, in modo più o meno irriguardoso, sono venuti a osservare, ovvero i due regnanti, Filippo IV e consorte in posa per un ritratto, che solo ora catturano la nostra attenzione, minuscoli, appena riconoscibili nello specchio alle spalle della principessina. Sono loro a essere dipinti dal Velázquez al lavoro nel quadro. Noi stiamo vedendo il quadro del quadro o, se vogliamo, la realtà delle damigelle dal punto di vista del quadro in fieri , ovvero dal punto di vista dei regnanti in posa. Noi osservatori diventiamo il quadro che i personaggi stanno osservando (e gli occhi pestiferi della principessina ne sono la prova evidente).
Questo rovesciamento non è la fine del gioco di specchi, perché a uno sguardo più attento ci rendiamo conto che tutto ciò è possibile grazie a un’apertura sullo sfondo, dove un uomo, il ciambellano di corte, tiene scostata una tenda su una scalinata, probabilmente dopo aver fatto passare il re e la regina (quindi i regnanti si sono appena messi in posa?, o la seduta sta finendo?), e il suo gesto permette alla luce di illuminare le loro figure, altrimenti in ombra e ora invece ben riconoscibili nello specchio sulla parete alle spalle della combriccola. Ma forse potremmo dire che il gesto del ciambellano rende possibile l’intera raffigurazione, come se schiudesse il foro stenopeico di una camera oscura, lo spiraglio che permette la proiezione delle immagini sulla parete opposta.
È lui ad aprire al mondo di fuori, lo spazio esterno alla stanza, l’unica realtà possibile, visto che noi osservatori siamo dal lato di chi viene ritratto nel quadro e i personaggi in scena davanti a noi sono una pittura a olio. Forse quel punto luce è la rappresentazione della nostra pupilla e l’intero quadro non è altro che l’allegoria della visione umana.
L’ultimo cerchio della spirale è, per forza di cose, andato perduto: il quadro, ultimato dal maestro nel 1656, a quattro anni dalla morte, era esposto nella residenza reale dell’Alcazar prima che venisse bruciata; per di più collocato — site specific davvero ante litteram — nella stessa sala rappresentata nel quadro, dove Velázquez era solito lavorare e dove la principessina Margherita, le damigelle e il resto della combriccola hanno dovuto posare. Se aggiungiamo il fatto che i personaggi sono dipinti a grandezza naturale, possiamo immaginare l’effetto vertiginoso che dovevano destare quelle figure alla vista dei visitatori del palazzo, a maggior ragione se erano visitatori abituali o, esageriamo, le stesse damigelle e la principessa venute a farsi osservare dai loro sembianti, intente a studiarsi nell’atto di farsi studiare dal signor ciambellano quella volta che le dipingeva facendo finta di dipingere il re e la regina venuti a guardarle eccetera eccetera.
A confronto, l’autoritratto di Van Eyck sullo specchio dei coniugi Arnolfini è un semplice salto mortale dal trampolino di un metro. Ma la teatralità della scena, il gusto barocco per la spirale e l’iperbole, non bastano a spiegare la visione letteralmente paradossale di Las Meninas . Bisogna tornare al punto di partenza: chi guarda chi. Michel Foucault ne Le parole e le cose dedica all’opera uno dei primi saggi ecfrastici della filosofia francese (poi verrà La verità in pittura di Jacques Derrida, sempre sulla scia degli zoccoli da contadina di Heidegger). Foucault sostiene, come dicevamo sopra, che il soggetto vero del quadro è invisibile, trattandosi dello sguardo dell’artista colto nell’atto creativo, impegnato a strutturare la rappresentazione. Il soggetto del quadro è il Soggetto, inteso come le facoltà del cogito (che non a caso trionfa proprio nel Seicento cartesiano), nella cui rete cognitiva qualcosa come una rappresentazione può configurarsi e poi diventare olio su tela, sempre rinviando all’essere di cui è immagine, ovvero quel suo costitutivo «oltre» che inesorabilmente si sottrae, l’inafferrabile essenza noumenica che, se ci è concessa una brutale semplificazione, potremmo anche chiamare vita.
Un dipinto sul senso del dipingere: su questo lavora Velázquez negli ultimi anni, così fondamentali eppure poco prolifici, gravati dai mille impegni di un’esistenza ormai consacrata all’amministrazione della reggia. «Un rivoluzionario silenzioso» lo definisce giustamente Laura Cumming, lontano dal maledettismo caravaggesco, un pittore di corte (oggi si direbbe: di regime), una specie di funzionario artistico dalla vita tutt’altro che avventurosa.
Con lo stile piano e colloquiale tipico dei divulgatori anglosassoni la Cumming scrive un libro non banale sul maestro spagnolo. Lo fa intrecciando la biografia a un lungo racconto nel quale ricostruisce il ritrovamento, avvenuto a metà Ottocento, di un ritratto di Carlo I eseguito da Velázquez ma attribuito a Van Dyck. Ci sono vicissitudini giudiziarie in abbondanza, aste, perizie e contestazioni varie, tutto condito da grande acribia investigativa. Insomma, si tratta di un libro per appassionati del genere, che però ci consente di riavvicinarci al mistero di Velázquez, un merito non da poco. Semmai è discutibile, a mio avviso, il bisogno di emozionarsi, ribadito quasi a ogni pagina. A me Las Meninas non provoca la stessa commozione che scuote l’autrice, a me quel quadro spacca il cervello in mille pezzettini. E temo non sia un problema solo mio.

Corriere La Lettura 8.10.17
Invece il pennello di Rembrandt emancipa gli ebrei
Di Donatella Di Cesare

Quelle case basse, a due piani, lungo i canali dell’Amstel, non esistono più e l’intero quartiere ebraico, il Vlooienburg, costruito su un’isola, può ormai solo essere immaginato. Ben poco è sopravvissuto al tempo, all’occupazione nazista e alle ristrutturazioni urbanistiche del dopoguerra. Resta però la Jodenbreestraat, la Strada Larga degli Ebrei. Steven Nadler, lo storico e filosofo, famoso per i suoi studi su Baruch Spinoza, invita a ripercorrerla, con il libro Gli ebrei di Rembrandt (Einaudi), in un affascinante viaggio che ricostruisce la cultura e la vita di quella «nuova Gerusalemme», come Amsterdam fu chiamata all’inizio del Seicento. La città aveva accolto migliaia e migliaia di ebrei e conversos , nuovi cristiani in fuga dall’Inquisizione; per quella generosa ospitalità, su una terra strappata all’acqua, ricevette in cambio un’imprevista età dell’oro e diventò una metropoli cosmopolita. Prosperarono i commerci, si moltiplicarono gli scambi, fiorirono le arti.
Il viaggio di Nadler ha inizio dalla casa di Rembrandt al numero 4 della Breestraat, dove il pittore abitò a lungo, dal 1639 al 1658. I suoi vicini non avevano nomi olandesi. Si chiamavano Isaac de Pinto, Salvatore Rodriguez, Ephraim Bueno, Abraham Aboab. Erano mercanti, medici, rabbini, membri orgogliosi della Naçao , la nazione ebraica in esilio; parlavano portoghese, leggevano la letteratura spagnola, sapevano l’ebraico. «Benedetto tu, o Signore, che ci hai mostrato la tua meravigliosa misericordia nella città di Amsterdam, degna di lode», recitava una berachà , una benedizione dell’epoca. In Olanda gli ebrei sefarditi avevano trovato libertà di culto. E alla metà del secolo erano considerati l’élite ebraica d’Europa.
Sull’isola di Vlooienburg, però, i viali alberati, dove si affacciavano gli eleganti palazzi di mattoni scuri, erano attraversati da vicoli stretti nei quali piccole case di legno si accalcavano l’una sull’altra. Non si parlava portoghese, bensì yiddish. Gli ebrei ashkenaziti, poveri e trasandati, erano sfuggiti alle persecuzioni e ai massacri che si erano ripetuti soprattutto in Polonia e in Lituania. Tra le due comunità i rapporti erano tesi; prevalevano il sospetto e l’estraneità. Gli ebrei ashkenaziti, forti di una continuità che agli altri mancava, conoscevano bene la halachà , la legge ebraica, erano maestri nel Talmud, vantavano un’osservanza più rigorosa e una più fervente spiritualità. Inconfondibili, con i loro caftani neri e la barba non rasata, si distinguevano già a prima vista dai portoghesi che vestivano invece alla moda, dai cappelli fino agli stivali. I raffinati hidalgos , lontani dalla tradizione, cresciuti ed educati come cristiani, guardavano dall’alto in basso quei tudescos che vivevano in mezzo a loro.
Nei suoi dipinti e nelle sue acqueforti Rembrandt raffigurò sia gli uni che gli altri. Con una predilezione, forse, per i sefarditi. Non è difficile scorgere nei personaggi che animano i suoi quadri, imperniati su temi tratti dall’Antico Testamento, volti, caratteri e fattezze degli ebrei che incontrava sull’uscio di casa. Rembrandt li immortalò nella sua pittura. E fu anche grazie a quell’assidua frequentazione che non si limitò, come altri, a illustrare la Bibbia; piuttosto dipinse le Scritture ebraiche. Non di rado fu accusato — come era accaduto a Caravaggio — di involgarire l’arte, a dispetto dei temi elevati, umiliandola al livello della strada.
Ma qual è stato davvero il rapporto di Rembrandt con gli ebrei e con l’ebraismo? Questa è la domanda intorno a cui ruota il libro di Nadler. Merito degli artisti operanti allora ad Amsterdam — da Romeyn de Hooghe a Jacob van Ruisdael — fu di aver documentato un mondo che altrimenti sarebbe rimasto inaccessibile. A parte le celebri incisioni degli esterni, de Hooghe rappresentò gli ebrei in preghiera e al lavoro, nella gioia e nel pianto; li ritrasse negli interni o in contesti di intimità, nelle scuole, dinnanzi al mikveh , il bagno rituale, in fila davanti alla sinagoga, o lungo il canale, mentre si avviavano verso il cimitero di Ouderkerk. Splendida è la Cerimonia di circoncisione in una famiglia sefardita , databile intorno al 1665. Ma se de Hooghe documentò quel mondo ebraico, Rembrandt lo ricreò con il suo tocco inconfondibile. E lo esaltò. Secondo celebri studiosi, quali Moses Gans e Franz Landsberger, un secolo prima dell’Illuminismo in quei quadri va riconosciuta la prima emancipazione degli ebrei.
Si deve presumere, tuttavia, che la questione sia più complicata. Rembrandt viveva tra gli ebrei, in un rapporto tale di quotidiana familiarità, che le liti erano frequenti. Ma non si deve trascurare il suo coinvolgimento diretto nell’ebraismo. Se comprese quel popolo come nessun altro artista europeo, fu perché collaborò con i rabbini della comunità. Non si spiegherebbero altrimenti quei dettagli, nelle sue opere, che può conoscere solo chi studia la tradizione ebraica. E c’è di più: il suo enorme interesse per il messianismo.
Alla luce di questo interesse assume un’inedita centralità la figura di Menasseh Ben Israel, il «rabbino infelice», come lo chiama Nadler. Infelice perché proveniva da una famiglia di nuovi cristiani, originari di Madeira, che non senza sospetto erano stati accolti nella comunità di Amsterdam. Intellettuale cosmopolita, talento poliedrico, filosofo, traduttore, erudito, forse «l’ebreo più famoso d’Europa», fu a lungo osteggiato dagli altri rabbini, in particolare da Saul Levi Mortera. Se questo era un grande talmudista, Menasseh era versato invece nella Kabbalah , la mistica ebraica. Forse è proprio lui — ipotizza Nadler — a essere ritratto nell’acquaforte di Rembrandt intitolata Filosofo nello studio del 1652. Ma non manca anche un vero e proprio ritratto che risale al 1639.
Ecco allora la novità: l’amicizia intellettuale con il «rabbino infelice» ispirò Rembrandt. Questi «due spiriti affini», malgrado le differenti prospettive religiose, erano accomunati da una visione teologico-politica improntata al messianismo. Menasseh pubblicò nel 1650 la sua grande opera, in spagnolo e in latino, Speranza di Israele , che scosse profondamente ebrei messianisti e millenaristi cristiani. Notizie decisive arrivavano dal Nuovo Mondo. Tornato nel 1642 dalle Americhe, Antonio de Montezinos (alias Aaron Levi) sosteneva di essersi imbattuto in indiani che recitavano lo shemà , la preghiera ebraica. Dovevano essere discendenti della tribù di Ruben. Era la prova tanto attesa: la diaspora ebraica aveva toccato ogni angolo del mondo. Segno della venuta del Messia. Menasseh non poteva dire quando quella redenzione, che sarebbe stata anche un rivolgimento politico, si sarebbe compiuta; ma era certo che quell’evento fosse prossimo. Prima venuta del Messia per gli ebrei, seconda per i cristiani.
Rembrandt fu attratto — come in seguito Spinoza — dal messianismo di Menasseh e anche in seguito, quando nel 1655 venne pubblicata la sua Piedra gloriosa , scritta con l’intento di delineare in chiave messianica la storia del popolo ebraico, collaborò con lui offrendo quattro acqueforti. Non dimenticò Menasseh alla sua morte, nel 1657. Così Nadler immagina che in quel freddo mattino di novembre, quando finalmente la comunità di Amsterdam accorse al cimitero di Ouderkerk per tributare l’ultimo omaggio a Menasseh, in vita così osteggiato, oltre all’arcigno Mortera, tra loro ci fosse anche il grande maestro.

Corriere La Lettura 8.10.17
L’infanzia del pittore uccisa dalla peste
di Massimo Ammaniti

Chi è quel giovane uomo seduto a un tavolo di una taverna con aria cupa, occhi e capelli neri, sulle spalle un mantello scuro e una spada legata alla vita? Questa è la domanda che si poteva fare un avventore che entrava nella taverna che si trovava nelle vicinanze di via della Scrofa, in una zona di Roma fra piazza del Popolo e piazza Navona, a fine Cinquecento. Si trattava probabilmente di Caravaggio, non ancora artista famoso, come sarebbe stato successivamente ritratto dal pittore romano Ottavio Leoni che dipinse (le opere sono conservate a Firenze) una serie di artisti. Ma forse la testimonianza più appropriata è quella del suo barbiere Luca, che lo aveva osservato da vicino: «Un giovane tarchiato, barba nera non troppo folta, sopracciglia spesse… tutto vestito di nero» (Sandro Corradini, Maurizio Marini, The earliest account of Caravaggio in Rome , «Burlington Magazine», volume 140, pagine 25-28, 1998).
Su Caravaggio sono state scritte innumerevoli biografie, negli anni successivi alla sua morte, come ad esempio quella di Giulio Mancini, un medico senese che incontrò e conobbe bene il pittore negli anni romani fra il 1595 e il 1600. Una seconda biografia fu pubblicata nel 1642 da Giovanni Baglione, un pittore rivale con cui c’era stato un rapporto tempestoso e che addirittura accusò Caravaggio di aver pagato dei sicari per ucciderlo (Sandro Corradini, Materiali per un processo, documento 110,2-4. Novembre, 1606 , Roma 1993 op. cit. in Caravaggio di Andrew Graham-Dixon, prima edizione Londra 2010). Forse nonostante alcune informazioni rilevanti nella sua biografia, Baglione era troppo coinvolto per fornire una storia attendibile del pittore lombardo. Dopo qualche decennio fu pubblicata una nuova biografia di un antiquario e storico dell’arte, Giovanni Pietro Bellori, che non aveva mai conosciuto Caravaggio, ma che fu sedotto dalla novità tecniche della sua pittura, ma allo stesso tempo atterrito dalle sue immagini crude che ritraevano la povertà quotidiana e la violenza, come si coglie ad esempio nei quadri dei martiri cristiani.
A queste biografie se ne è aggiunta una, scoperta recentemente, di Gaspare Celio, pubblicata pochi anni dopo la morte del pittore, che spiegherebbe il motivo, sempre sospettato, per il quale si era trasferito a Roma da Milano, ossia l’uccisione di un suo compagno.
Nonostante tutte queste biografie, la figura di Caravaggio continua a rimanere un enigma, fatto di luci e di oscurità come è appunto la sua pittura, e forse è questo uno dei motivi perché ne siamo così affascinati.
Il suo genio è sicuramente intrecciato ai suoi comportamenti sregolati: ribaldo, suscettibile fino all’esasperazione, pronto sempre a sguainare la spada quando si sentiva oltraggiato, ma anche fondamentalmente legato a un forte senso religioso, come dimostra l’episodio avvenuto in Sicilia quando in una chiesa non accettò di prendere l’acqua santa perché — disse lui stesso — i suoi peccati erano mortali.
In tutte le biografie si fa sempre riferimento al suo carattere irascibile e incontrollabile e addirittura si è fatto ricorso a diagnosi psichiatriche come la psicopatia o la schizofrenia paranoide, ammesso che sia possibile etichettare i suoi comportamenti riferiti a un contesto sociale e culturale molto lontano da noi. Valga un esempio: Caravaggio si ostinava a portare con sé la spada e per questo motivo veniva fermato a Roma dai gendarmi e portato in carcere. In realtà Caravaggio non voleva rinunciare a questo privilegio riconosciuto ai nobili, ai gentiluomini e ai cavalieri, a cui lui riteneva di appartenere perché la famiglia della madre era imparentata con una piccola aristocrazia lombarda.
Ma per spiegare il suo carattere sarebbe meglio scavare nella sua infanzia, infatti Michelangelo, questo era il suo nome, perse il padre all’età di 6 anni e nel giro di poco tempo anche il nonno, la nonna e lo zio, tutti colpiti dalla peste che aveva piagato la città di Milano. È la peste di San Carlo, come la chiama Alessandro Manzoni nei Promessi sposi , che «aveva desolato una buona parte d’Italia, e in specie il milanese» cinquantatré anni prima di quella successiva raccontata nel romanzo, di cui serbiamo un ricordo indelebile che risale alla scuola media. Si viveva in un clima da incubo in cui il contagio si diffondeva nella popolazione e la peste mieteva ogni giorno vittime e vittime, non una malattia ma una punizione divina, che imponeva, secondo la severa volontà dell’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, pratiche di espiazione e di sacrificio. Con la morte del padre la famiglia Merisi si trovò in ristrettezze economiche con debiti e cause legali per cercare di difendere la magra eredità e probabilmente il piccolo Michelangelo subì ripetuti traumi che lasciarono segni profondi nel suo carattere. Questi traumi, come la morte del padre e dei parenti durante l’epidemia della peste, probabilmente rappresentarono momenti di cesura che travolsero la continuità e il senso di sé della sua vita di bambino.
Forse queste esperienze dell’infanzia riemergono trasfigurate nei suoi quadri; prendiamo ad esempio la drammatica Cattura di Cristo in cui si vede il volto attonito e atterrito di Cristo nel momento del suo arresto oppure Il martirio di Sant’Orsola , nel quale viene rappresentato e fissato il trauma violento che irrompe travolgendo la vita dei protagonisti. Forse la presenza in entrambi i quadri della figura dello stesso Caravaggio conferma ulteriormente il suo stretto legame emotivo con la scena a cui lui stesso assiste.
Ma il trauma non è solo disorientamento e terrore, può anche sollecitare un’esperienza trasformativa che fa scoprire prospettive profondamente diverse, come si può vedere nel quadro che si trova nella chiesa di San Luigi dei Francesi La vocazione di San Matteo , nel quale la luce di Cristo, ossia la grazia, irrompe nella taverna illuminando la figura di Matteo che si converte. Forse la stessa pittura, a cui Michelangelo si dedicò fin dai primi anni dell’adolescenza, rappresentò per lui un’illuminazione con cui cercò di curare le proprie ferite infantili.

Corriere La Lettura 8.10.17
Caravaggio dietro Caravaggio
di Arturo Carlo Quintavalle

Della Buona Ventura dei Musei Capitolini sappiamo tutto, o quasi: che Caravaggio l’ha dipinta fra il 1596 e il 1597 a Roma, che era di proprietà del suo mecenate, il cardinale Francesco Maria del Monte, che esiste un altro dipinto simile, conservato a Londra, segnato da una forte luce da sinistra che taglia ombre sul fondo. Dunque due originali? Ma allora come lavorava Caravaggio? Ecco, questo è il problema che trova piena risposta nella mostra, bella e importante, curata da Rossella Vodret al Palazzo Reale di Milano. E sono le letture a luce radente, le analisi ravvicinate, quasi una educazione al vedere, e le radiografie e le riflettografie agli infrarossi, che ci fanno scoprire che cosa c’è sotto la pellicola dipinta.
Osserviamo la radiografia: sotto La Buona Ventura scopriamo un altro quadro, posto in verticale, preparazione bruna, sulla quale è stata stesa la preparazione chiara del quadro che vediamo; del dipinto nascosto è evidente una Madonna, le mani in atto di preghiera, attribuita a Enzo Carli o anche al Cavalier d’Arpino anche se forse la struttura, forte e densa, potrebbe far pensare proprio a Caravaggio. Certo è che le indagini tecniche, la novità della mostra, ci rivelano il modo di lavorare, dunque lo stile del pittore. Così tracce di incisioni, fatte forse col legno del pennello sulla preparazione, impostano le masse e la loro distribuzione — sono segni, contorni che al pittore servono anche per ricollocare i modelli nella posizione originaria.
È questa infatti la scelta di Caravaggio: usare modelli dal vero, dipingerli in scala 1 a 1, cercare gente di strada, figure del quotidiano, per proporre un discorso opposto alla «maniera» del Cavalier d’Arpino e, prima, di Taddeo e Federico Zuccari e di tanti altri artisti del Cinquecento. Scrive nel 1604 Karel van Mander: «Questo Caravaggio dunque s’è già acquistato con le sue opere fama, onore e rinomanza. Egli dice che tutte le cose non sono altro che bagatelle, fanciullaggini o baggianate — chiunque le abbia dipinte — se esse non sono fatte dal vero, e che nulla vi può essere di buono o di meglio che seguire la natura».
Torniamo ora alle modalità di lavoro di Caravaggio. Nel San Francesco di Hartford la riflettografia fa scoprire correzioni nel profilo del volto del santo e nel braccio e nel volto dell’angelo; e il volto di Francesco mi sembra essere quello del Merisi, un autoritratto, scelta che torna molte volte nelle opere dell’artista. Altre scoperte? Nel San Giovanni Battista della Galleria Corsini (1604) la figura siede su una roccia; a sinistra la tazza e la croce, a destra un vuoto verso cui, stranamente, il santo guarda: ma la radiografia scopre un agnello che poi il pittore ha eliminato facendo pesare il tronco corroso a sinistra; anche qui tracce di incisioni sulla preparazione segnano la posizione del braccio e del volto, un memo per fissare lo schema della composizione. Troviamo analoghe grafie nella Madonna dei Pellegrini (1604-1605): sulla preparazione bruna le incisioni segnano la soglia, il capo della Madonna e il profilo del Bambino mentre la preparazione stessa affiora e fa da capigliatura ai due in ginocchio: così il fondo diviene ombra e, in parte, corpo delle figure. Confrontate i piedi sporchi dell’uomo in ginocchio e quello sollevato, chiarissimo della Madonna: ecco la povertà come segno della Grazia per la Chiesa della Riforma, quella che vuole tornare alle origini paleocristiane e, magari, alla iconografia di San Francesco. Siamo davanti a una scena buia, con una luce dall’alto. Lo capiva bene Giovanni Pietro Bellori che nel 1672, 62 anni dopo la morte del Merisi, scrive: «Egli... non faceva mai uscire all’aperto del Sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’aria d’una camera richiusa, pigliando un lume dall’alto, che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo e lasciando il rimanente in ombra a fine di recar forza con vehemenza di chiaro e oscuro».
Sappiamo dunque come lavorava il pittore, ma forse, alla comprensione, manca ancora uno strumento: ce lo mostra la Marta e Maria Maddalena di Detroit (1598). Qui il confronto è fra la virtù di Marta e il pentimento della peccatrice che poggia il braccio su uno specchio convesso: incisioni sulla superficie per disporre le figure, spazio del fondo retto da ombre. Ma lo specchio? Nel 1605 Caravaggio deve fuggire a Genova per aver ferito il notaio Pasqualoni, dunque non paga l’affitto dello studio e la proprietaria, Prudenzia Bruni, gli fa sequestrare quello che resta in casa; il tribunale stila un inventario il 26 agosto 1605: «Undeci pezzi de vetro, cioè bicchieri, carafe e fiasche de paglia… una brocca d’acqua, dui scabelli… un giuppone stracciati, una quitarra, una violina, un pugnale, un paro de pendenti… dui spade, dui pugnali… una cassaccia con certi stracci dentro… uno specchio grande… un scudo a specchio». Insomma tanti oggetti da usare per le nature morte e due specchi, uno a scudo, dunque convesso, quello del dipinto di Detroit, e un altro piano per portare la luce, quel raggio forte di luce dentro la stanza buia. Così le nuove tecniche di analisi ci fanno capire come lavorava Caravaggio.
È vero, della Madonna sotto La Buona Ventura , non sapremo mai con certezza l’autore ma quel riuso di un precedente dipinto ci fa capire come muta, dal sublime della impostazione verticale al dialogo orizzontale, il racconto umano del dipingere.

Corriere La Lettura 8.10.17
Il vero miracolo di San Gennaro
di Goffredo Buccini

A sentire Dumas qualche motivo di sospetto pure ci sarebbe. Quando quel giacobino di Championnet entrò trionfatore a Napoli, alla testa delle truppe francesi che compivano la rivoluzione repubblicana di «donna Lionora» Pimentel, pare che il sacro sangue recalcitrasse alquanto a sciogliersi di fronte a tanti senzadio. Finché il generale napoleonico, che prescindeva tranquillamente dal Padreterno e dai suoi santi ma assai meno dal consenso popolare, non... sollecitò il miracolo con la minaccia di fucilare qualche prete. Quasi all’istante il fluido rosso ribollì docile, forse rivelando un imbroglio secolare o forse la secolare potenza della misericordia, chissà.
San Gennaro (ma a Napoli è una parola sola pronunciata in un sol fiato di speranza: «Sangenna’») e il suo sangue sono da allora amorevolmente «sollecitati» da nuovi e vecchi potenti in cerca di consacrazione o di conferma. Finanche dal comunista Bassolino. O, ultima contaminazione tra corona e altare, dal grillino Di Maio, nuovo lord protettore dei pentastellati e tuttavia (o forse appunto per questo) chino come un devoto chierichetto sull’ampolla sorretta dal cardinale Sepe.
Poiché in Italia si vota assai spesso e il sangue dovrebbe sciogliersi canonicamente tre volte l’anno (a maggio e a dicembre, oltre che il 19 settembre per la ricorrenza del martirio del santo) quest’incrocio di sacro e profano è destinato a ripetersi con frequenza (a primavera voteremo per il Parlamento nazionale). E, del resto, i politici non fanno nulla di diverso da ciò che fa il napoletano comune quando invoca «Sangenna’» non per bisogni spirituali ma per materiali e terrene esigenze: un posto di lavoro infine da trovare, una figlia sciagurata da maritare, una cura, una vincita, un tale miscuglio carnale di confidenze e aspettative che qualsiasi altro santo scambierebbe per blasfemia. «Faccia ’ngialluta» (così lo chiamano le popolane per provocarlo quando il miracolo tarda) no. Non s’adonta d’essere trattato come il vicino di basso con cui dividere una confidenza e un mestolo di pasta e fagioli. Sándor Márai, che Napoli l’ha conosciuta e amata, nel suo Sangue di San Gennaro la racconta, questa umanità dolente di volti e mestieri, guaglioni famelici e adulti maestri dell’arrangiarsi, insomma questo popolo di «professionisti dell’attesa»: attesa di un piccolo o grande prodigio di cui il santo si fa garante col proprio miracolo.
Certo, può lasciare sbalorditi che decine di migliaia di menti raziocinanti credano a un impossibile che da secoli si avvera tre volte l’anno e quando non si ripete provoca terremoti ed eruzioni, pubblici disastri e private iatture. Ma quanto sia misero (e inutile) indagare sul mistero delle ampolle, sull’«ipotesi ketchup» o sulle teorie tissotropiche si capisce meglio fuori dal Duomo, lontano dalla teca e dalla cripta, dalle «parenti» del santo e dalla Deputazione dei nobili devoti, insomma nella Napoli che non è San Gennaro. Per esempio al cimitero delle «Capuzzelle»: tra quei teschi sconosciuti, «adottati» ciascuno da un napoletano che in cambio di un lumino e qualche fiore impetra protezione e grazia creandosi un corridoio privato con l’Aldilà. E ciò che all’occhio forestiero potrebbe apparire un rapporto mercantile, perfino mercenario, tra i napoletani e il mondo dei più, lo svela infine nella sua vera dimensione di scarnificata tenerezza quell’enciclopedia della napoletanità in tre atti che è Questi fantasmi! .
Nell’intero arco della commedia noi ci domandiamo se Pasquale Lojacono sappia e finga di non sapere (Napoli è pur sempre la città del «munaciello», visitatore misterioso di talami nuziali) o se davvero possa credere che un «fantasma buono» gli faccia trovare mazzette di danaro nella tasca del pigiama; se sia insomma un sordido marito cornuto e contento o un povero stolto accecato dalle leggende che girano attorno alla sua casa e dalle manovre di Alfredo che gira attorno a sua moglie. Ma rispondere a questa domanda equivale a farsi risucchiare nella teoria del «ketchup»; insomma a ridurre «ad unum», a una unità razionalmente teleologica, il caleidoscopio di ambiguità che sta sulla scena eduardiana e nelle strade da cui De Filippo ha attinto linfa e ispirazione sin dall’infanzia.
Il punto, semplicemente, non è quello, e chi non lo capisce si dedichi allo studio dei Celti o alle ricette del pudding. Il prodigio che cambia la vita a Pasquale Lojacono è che qualcuno, fantasma o umano, si occupi di lui, che infine lo ascolti, ed è lo stesso prodigio collettivo di carne e popolo che si compie da secoli attorno all’ampolla nel Duomo di Napoli, lasciando a chimici, scienziati e scettici l’arido primato del loro buonsenso. «Con un altro uomo, con un uomo vivo come me, non ne avrei mai parlato, ma con te sì, tu sei un’altra cosa. Tu sei al disopra di tutti i sentimenti che ci condannano a non aprire i nostri cuori l’uno con l’altro: orgoglio, invidia, superiorità, finzione, egoismo, doppiezza...», mormora il personaggio di Eduardo a quel rivale ormai trasfigurato dalla propria disperazione in spirito domestico. «Parlando con te mi sento più vicino a Dio e mi sento piccolo, piccolo... mi sento una nullità... e mi fa piacere sentirmi una nullità, così posso liberarmi del peso del mio essere che mi opprime!», sussurra ancora. San Gennaro non c’è mai. Ma è come se stesse lì sul balcone.

Repubblica 8.10.17
Spirito dei tempi
La rabbia non ci salverà
“È un sentimento distruttivo: può servire per reagire alle ingiustizie, ma va subito purificato”. Martha Nussbaum parla del suo ultimo libro. E spiega perché critica anche il perdono
di Simonetta Fiori

Un bollore intorno al cuore. La migliore definizione della rabbia si deve ad Aristotele, ma c’è anche chi sente un grande battito nelle tempie o un dolore dietro il collo. La rabbia può essere un’emozione pubblica o privata, può riguardare una comunità intera o una relazione personale. Se dovessimo affidarci al celebre marziano di Eric J. Hobsbawm che annusa per la prima volta l’aria del nostro pianeta, potremmo ricavarne che la nostra è l’età della rabbia. Come spiegargli altrimenti Trump alla Casa Bianca, la scelta dirompente di Brexit, l’infuriare dei venti populisti in Europa? E gli attentati, lo scontro di civiltà, la Terza guerra mondiale stigmatizzata da papa Francesco? Non è un caso che proprio nella rabbia si sia imbattuta la più grande esploratrice morale delle emozioni, Martha Nussbaum, che le ha dedicato il libro Anger and Forgiveness, ora tradotto dal Mulino ( Rabbia e perdono). Un saggio che attraversa la politica e i codici più intimi, toccando anche la “sfera di mezzo”, i contatti con le persone estranee. E come accade con i libri della Nussbaum — settant’anni, professoressa di Law and Ethics all’Università di Chicago — ogni pagina comporta un dilemma morale, e dunque una sorta di autoanalisi da cui si esce più ricchi e con qualche certezza in meno.
Professoressa Nussbaum, il suo saggio è stato messo in cantiere quattro anni fa ma sembra scritto oggi. Qual è stata la spinta iniziale?
«Sì, ora il mio libro sembra ancora più attuale. La politica della rabbia ha alterato il corso della storia di tante nazioni, inclusi gli Stati Uniti. E anche il futuro dell’Europa dipenderà dal richiamo della rabbia o dal prevalere di altri sentimenti. Io ho cominciato a riflettervi anni fa, quando cercavo un buon tema per le John Locke Lectures a Oxford. Fino a quel momento avevo scritto libri sull’amore, sul dolore, sulla compassione e sulla vergogna. L’idea mi è venuta dopo aver consegnato all’Indian Express un commento sul massacro dei musulmani avvenuto a Gujarat nel 2002. Non potevo sapere allora quale sarebbe stato l’approdo della mia ricerca, ossia che la rabbia è sempre un sentimento velenoso e controproducente».
Dai suoi studi emerge che la rabbia oltre a essere pulsione istintiva è il risultato di una costruzione culturale. Lei fa l’esempio delle civiltà greca e romana dove questo sentimento veniva accettato solo nelle creature ritenute inferiori, donne e bambini. In questi anni la rabbia ha acquisito una sorta di legittimazione culturale. Come è stato possibile?
«Tutte le civiltà incubano tantissima rabbia. Probabilmente si tratta di un fenomeno universale che ha radici nell’evoluzione. Quel che distingue greci e romani è che la consideravano un problema, i cui effetti dovevano essere contenuti. Perché le culture moderne sono così diverse? Penso che questo abbia a che fare con i modi in cui la mascolinità è stata interpretata. L’immagine dell’America è quella dei pionieri in lotta contro forze nemiche. Anche se alcuni dei nostri eroi letterari più amati oggi incarnano compassione più che rabbia, come l’avvocato Finch ne Il buio oltre la siepe.
Nella vostra cultura Verdi è il compositore che più ha colto il senso di questo sentimento».
In che modo?
«Mostrandone gli aspetti distruttivi. Rigoletto uccide sua figlia, Iago annienta sia Otello che Desdemona. Un momento interessante nel Rigoletto è il duetto “ Sì, vendetta, tremenda vendetta” che il protagonista e Gilda intonano dopo che lei viene portata via dal Duca. La musica è felice: mia figlia a tre anni la voleva ascoltare di continuo perché le dava allegria. Rigoletto crede di aver tro- vato il segreto della gioia. Ma ha trovato solo distruzione: di sé stesso e della figlia».
Potrebbe essere la colonna sonora del suo libro. Lei sostiene che la rabbia può essere uno strumento utile quanto pericoloso nella sfera morale.
«La rabbia può servire come segnale che qualcosa non va. E può scuotere le persone dall’inerzia verso le cose sbagliate. Martin Luther King intravide nella rabbia una motivazione essenziale al lavoro di correzione di un’ingiustizia sociale. Ma ne rintracciava anche un aspetto pericoloso nel desiderio di rivalsa: non appena la rabbia spinge il popolo a muoversi — diceva King — il sentimento deve essere “purificato”, così il popolo conserva la protesta ma senza anelito a rivalse».
Lei la definisce “rabbia di transizione”, ossia un’emozione rivolta a un bene futuro.
« La rabbia di transizione è quella che ti induce a esclamare: “ È terribile: non deve succedere più!”. Si denuncia una ingiustizia, ma concentrandosi sul futuro, non sulla rivalsa. Non è certo facile costruire su queste basi un movimento di massa, ma abbiamo esempi storici fortunati come quello di Gandhi, di Mandela e dello stesso King. Anche il movimento delle donne per larga parte si è tenuto su questi binari. E lo stesso potrei dire per il movimento dei diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender, che impostano le loro campagne sul potere dell’amore».
Un aspetto interessante del suo lavoro riguarda l’inutilità del perdono, che presuppone sempre una gerarchia morale. E questo non aiuta a ricomporre i rapporti.
«Nella cultura cristiana ed ebraica i racconti del perdono sono esplicitamente gerarchici: i peccatori devono umiliarsi e chiedere perdono a un superiore. Anche il perdono incondizionato spesso assume una sgradevole sfumatura di superiorità morale. San Paolo dice che devi perdonare i tuoi nemici perché così facendo “ammasserai carboni ardenti sui loro capi”. Io preferisco l’amore generoso esemplificato nella parabola del figliol prodigo. E nella carriera di Nelson Mandela».
Posso chiederle quanto conta il suo personale vissuto nelle sue riflessioni filosofiche?
«Cerco sempre un riscontro nella mia vita, e nella vita di molte persone. Soprattutto leggo libri di letteratura e di storia, seguo l’attualità. So bene di non essere una persona rappresentativa per molti motivi: ho una vita felice, un lavoro ideale, amici fantastici e una figlia meravigliosa».
Ma lei non si arrabbia mai?
«Non mi arrabbio mai con le persone che amo, mentre tendo a farlo nella “sfera di mezzo”, con commessi maleducati e tecnici incompetenti. Ora non sopporto chi ha atteggiamenti discriminatori verso il genere e l’età. Detesto quell’omone che afferra la mia valigia senza chiedermi il permesso e la spinge nella cappelliera dell’aereo. Anche perché godo di ottima forma fisica».
Nel libro lei accenna a comportamenti provocatori che gli uomini assumono verso le donne intellettuali. A cosa si riferisce?
«Gli uomini hanno l’abitudine di interrompere le donne, come se fossero sempre capaci di spiegare le cose meglio. Nella lingua inglese si dice mansplaining, ed è già una conquista che ci sia un nome. Il mio migliore amico una volta ha osservato che tutte le donne autorevoli di sua conoscenza parlano con un tono di voce piuttosto alto. Pensava che dipendesse dalla loro esperienza di donne che non erano state ascoltate. A me piace essere la prima a fare una domanda in un seminario: sento che altrimenti non prenderei la parola. Come dice Catharine MacKinnon: “Togli il tuo piede dalle nostre gole e allora potrai sentire con quale voce le donne parlano”».
Nella sua vita personale è riuscita a trasformare la rabbia in un sentimento positivo?
« Essere rifiutata da Harvard è per me qualcosa di molto personale, fonte di grande rabbia. È accaduto nel 1993: si trattava di un’ingiustizia provocata da un atteggiamento sessista. Sedici anni più tardi avrei ricevuto l’offerta di un incarico da parte di quella università. C’erano ancora alcuni dei vecchi professori del Dipartimento di studi classici che avevano votato contro di me. E uno in particolare, Albert Henrichs, mi disse che l’esclusione era stata un’ingiustizia. Non ho accettato l’offerta, ma sono rimasta colpita dalla sua grandezza d’animo. Albert è morto quest’anno, poco prima che tenessi una lecture che ho voluto dedicargli pubblicamente. Alla fine di ottobre andrò a Boston per commemorarlo. È tutto quello che posso dire sul superamento della rabbia». ?

Il Sole Domenica 8.10.17
Pollock, l’Icona dell’incertezza
Il pittore americano «diventava una sola cosa con le sue opere, mentre le costruiva», seguendo «regole e caso» come accade nella vita reale
di Armando Massarenti

Nei quadri di Pollock le sgocciolature si susseguono con un margine di casualità, ma poi il risultato finale «non poteva che essere quello». Nella vita delle persone il caso via via si riduce, se guardiamo la vita a posteriori, quando siamo diventati vecchi e ci sembra che la nostra vita «doveva» essere quella. Questo è l’effetto che Robert Musil, lo scrittore del romanzo-saggio L’uomo senza qualità, chiama «carta moschicida»: «le persone adottano la persona che è venuta loro, la cui vita s’è incorporata alla loro vita, giudicano le sue vicende ed esperienze ormai come le espressioni delle loro qualità, e il suo destino diventa merito o disgrazia loro. Qualcosa ha agito nei loro confronti come la carta moschicida nei confronti di una mosca: qui ha imprigionato un peluzzo, là ha bloccato un movimento, e a poco a poco li ha avviluppati, finché sono sepolti in un involucro spesso che corrisponde solo vagamente alla loro forma originale».
Analogo effetto si può ritrovare in un quadro di Pollock con una semplice prova che ho ripetuto più volte con la Foresta incantata. Se vi avvicinate molto al quadro, circa dieci centimetri, potete perdere la visione d’insieme e seguire la traiettoria di una sola sgocciolatura nera. Essa si presenta come un segno autonomo, con il suo destino. Se vi allontanate gradualmente, essa subisce l’effetto «carta moschicida» perché interseca molte altre linee ed è intersecata creando un effetto di destino comune, ben noto in percezione. Così, alla fine, quella porzione di quadro è vincolata, non c’è più nessuna casualità. Non poteva essere in altro modo, perché ogni linea ha incontrato le altre che hanno innescato, appunto, il destino comune.
La realtà emerge dal caos delle possibilità, le possibilità che Pollock ha fatto sue, come nel montaggio di un film, dove quel che si scarta, prima della scelta, aveva la possibilità di far parte della storia tanto quanto quel che è diventato, alla fine, il film. Terminato il montaggio, tutte le altre possibilità scompaiono e ogni traccia di casualità è scomparsa.
I quadri di Pollock, gesto dopo gesto, sono come un film di cui non si è visto il montaggio, sono l’unica realtà. E tuttavia, se esiste il senso immediato di questa nuova realtà, come dice Musil nell’Uomo senza qualità, deve esistere anche il senso della possibilità, dove regna la volontà di costruire: «Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso delle possibilità [...]. Un’esperienza possibile o una possibile verità non equivalgono a un’esperienza reale e a una verità reale meno la loro realtà, ma hanno, almeno secondo i loro devoti, qualcosa di divino in sé, un fuoco, uno slancio, una volontà di costruire, un consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione».
I quadri di Pollock costruiti con il dripping ci mostrano l’intreccio tra la realtà finale del quadro e le possibilità via via scelte nella costruzione, l’effetto di un consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà perché ne crea una nuova. I gesti del dripping circoscrivono lo spazio delle possibilità, secondo l’effetto «carta moschicida».
Se c’era stata incertezza, questa non c’è più nell’opera terminata. C’è solo forza, emozione. È la stessa forza con cui noi affrontiamo gli altri e la vita. In certi momenti questa forza si coagula, si concentra, e illumina un pezzo della realtà che assorbe le nostre emozioni. Allora il nostro mondo si espande, il nostro io evapora, scompaiono i nostri gesti, non ci sono più scelte personali, scelte decise da noi. Siamo catturati da «chiamate», e quello che «chiama» lo abbiamo incontrato nel mondo: un quadro, una persona, un libro. Tutte le nostre risorse cognitive ed emotive sono assorbite da quel punto nello spazio, fuori dal tempo. Dobbiamo immergerci in quel pezzo di mondo che ci comanda con un ordine definitivo, finale, ineludibile, impellente.
Non siamo noi ad avergli rivolto l’attenzione, è il mondo che l’ha richiesta. La cultura dominante presuppone una dicotomia tra la testa che risolve, bene o male, i problemi preesistenti e la descrizione delle «chiamate», delegata a teologi o a letterati. Soltanto lì trovate un abbozzo di «teoria delle chiamate». Alcune s’inverano all’istante come nel racconto Feuille d’Album di Katherine Mansfield. Si narra del pittore Ian, sereno e solo: «Ian fissava il palazzo dall’altra parte della strada [...]e all’improvviso, come in risposta al suo sguardo, i due battenti di una finestra si aprirono e una ragazza uscì sul minuscolo balcone [...]il cuore di Ian cadde giù dalla finestra del suo studio, e finì sul balcone 19 del palazzo di fronte». Ecco una chiamata improvvisa e la simultanea risposta. Altre volte una chiamata resta sospesa per tutta la vita nel cuore della protagonista del racconto.
Alice Munro termina così Ortiche: «Un amore non utilizzabile, che sapeva stare al suo posto [...]un amore che non rischia niente, ma che si mantiene vivo come una goccia di miele, una risorsa sotterranea». Altre volte, infine, costretti dalle circostanze e dal mondo a cui apparteniamo, abbandoniamo la chiamata. Un esempio di questo tipo di storia è in Le nostre anime di notte di Kent Haruf. Il protagonista lascia l’amante Tamara. Torna al suo mondo: «Ma penso di avere più rimorsi per il male che ho fatto a Tamara che non a mia moglie. Ho tradito la mia natura, o qualcosa del genere. È come se non avessi risposto a una chiamata, a essere qualcosa di più di un mediocre insegnante di inglese in una cittadina polverosa».
L’unico abbozzo di teoria psicologica delle «chiamate» parte dalla nozione di «invito» usata per spiegare situazioni in cui gli oggetti della quotidianità «chiedono» di eseguire un’operazione con essi. Per esempio, un nuovo tipo di schiaccianoci, mai visto prima, «chiede» di essere preso per i manici; un sasso tondeggiante e piatto chiede di diventare un sedile, e così via. Anche gli oggetti d’arte possono invitare: nel giardino della Collezione Peggy Guggenheim, a Venezia, c’è una sorta di trono antico che invita ogni bambina o bambino a sedersi per trasformarsi, per un istante, in una regina o un re. Quello che fanno i quadri di Pollock, in questa prospettiva, è un invito alle nostre emozioni «pure», prive di funzioni strumentali, come avviene quando una nuova realtà, incontrata per la prima volta, chiama.

Il Sole Domenica 8.10.17
Nezami di Ganja (1141-1209)
L’amore che incantò la Persia
La storia di Khosrow e Širin è una delle più romantiche e intense della letteratura dei Paesi islamici
di Giuliano Boccali

Una delle più romantiche e intense storie d’amore della letteratura dei Paesi islamici, e non solamente, ci è offerta ora da Ariele in edizione integrale nella prima traduzione italiana: Khosrow e Širin, dal nome dei protagonisti, tradotta da Daniela Meneghini rendendo con eleganza un testo tanto eccezionale quanto complesso e impervio; il che spiega fra l’altro l’assenza di precedenti versioni, anche antologiche... e sollecita il plauso alla curatrice e all’editore.
Non di poco conto è la constatazione che l’autore, Nezami di Ganja (1141-1209), che compone il poema in neopersiano nella zona nord-occidentale dell’impero selgiuchide, abbia scelto come protagonisti della vicenda due personaggi che islamici non sono affatto: Khosrow, cioè Cosroe II Parviz (storicamente 590-628) ultimo sovrano della dinastia sasanide, di fede zoroastriana, e Širin, principessa armena di quasi certa identificazione storica e quasi certamente cristiana. E questa scelta, che riplasma storie e personaggi molto amati negli ambienti sia cortesi sia popolari coevi all’autore, è assai eloquente circa la tolleranza religiosa, l’apertura culturale, la fantasia creatrice di Nezami e dell’ambiente letterario dell’Islam persiano alla sua epoca.
Come spesso accade nella narrativa, non solo iranica ma per esempio anche indiana, Khosrow si innamora di Širin non al vederla, ma udendone la descrizione a lui fatta dall’amico Šapur, grande pittore e suo consigliere saggio quando sarà re: «… una fanciulla bella come una fata, anzi di più, come la luna! … lo Zefiro, soffiando sui suoi riccioli, a volte rivela il bianco ermellino del suo volto o, a volte, lo copre coi suoi capelli color castoro… I suoi seni sono due melagrane d’argento sulle quali la rosa del giardino sparge le dracme dei suoi petali…»
Risalta in questi versi lo stile di Nezami, molto libero – è già un poeta affermato –, innovativo e al tempo stesso intonato alla grande tradizione iranica che mira sovente a costruire il testo poetico con immagini - si direbbe - archetipiche: la luna, due melagrane d’argento, la rosa del giardino, le dracme, quasi rappresentando sulla terra un mondo trascendente dove ogni parvenza è unica e perfetta. La stessa idea poetica (e forse in ultima istanza metafisica) ispira le mirabili descrizioni naturali in cui l’autore eccelle, come quelle assai frequenti di albe e tramonti del sole o della luna. Risaltano così incipit straordinari ai capitoli: «Quando l’alba, tesoriere di Cina, mise il lucchetto d’oro allo scrigno di perle…»; è un esordio folgorante: lo scrigno di perle è il cielo che contiene le stelle e, chiuso dal lucchetto dell’alba, le cela durante la giornata.
Analogamente emblematico è il senso profondo della storia d’amore dei due protagonisti, che la curatrice mette in luce con molta sensibilità nell’introduzione al volume ricca di elementi culturali e interpretativi: Nezami, infatti, rielabora «una trama avvincente… per esprimere la sua idea di che cosa sia l’Amore, ovvero il principio che egli individua come origine e come scopo di ogni esistenza». Così la vicenda, che si dipana per oltre seimila distici nei cento capitoli del poema, acquisisce la dimensione di un itinerario spirituale: dalla vita edonistica e dispersiva del giovane Khosrow, che ripetutamente propone a Širin l’unione al di fuori di ogni vincolo, all’assunzione consapevole delle responsabilità di sovrano e infine alla dedizione «alla conoscenza e all’acquisizione della saggezza». Al tempo stesso, la narrazione principale rappresenta la storia cornice che contiene altri racconti, brevi ma non secondari, per esempio quello di Farhad «lo spacca-montagne».
A innescare e favorire il processo del suo diletto, e più tardi finalmente sposo, è Širin che lo accompagna «dall’ignoranza alla conoscenza, dalla superficialità alla profondità»: un’alchimia d’amore per lei tutt’altro che distaccata o gratuita, perché la protagonista paga la propria fedeltà e la propria opera con il pianto infiammato della lontananza, con le maledizioni al proprio cuore incatenato e alla sorte, con la battaglia contro i demoni oscuri della solitudine. Con il superamento della delusione più atroce: Khosrow, infatti, per opportunità politica sposa in prime nozze la principessa bizantina Maryam, accettando per di più il vincolo della monogamia. A ferire crudelmente Širin, quasi «calice di vetro che andava verso la pietraia del dolore», più che la gelosia è il risentimento per non essere stata trattata secondo il proprio rango, per essere stata ingannata con promesse non mantenute, non ultima certo quella d’amore. Il destino interviene con la morte prematura di Maryam; dopo un breve periodo di (saggia) sospensione, «il cuore di Širin riprese a coltivare il seme della sua passione», passione d’altronde corrisposta e in realtà mai sopita nel cuore del re dei re, nemmeno durante l’epoca delle sue nozze. E sarà finalmente l’unione anche matrimoniale con l’amata, annunciata da Khosrow con incontenibile gioia e con grande fasto; e preceduta da una settimana straordinaria di giochi d’amore sottili e sensuali fra i due promessi senza che l’integrità di Širin sia intaccata prima della celebrazione ufficiale che avviene in un’atmosfera di ebbrezza clamorosa.
Oltre e dentro al significato profondo della storia dei due sovrani innamorati, il lettore è avvinto al testo dal linguaggio sfarzoso e scintillante di Nezami, dalla sua inventiva metaforica inesauribile, dall’immaginario smaltato come una successione senza fine di miniature. E ad affascinare, sul piano letterario,contribuisce la struttura dialogica del poema scelta dall’autore e sfruttata in ogni possibile declinazione, dagli scambi di missive ai colloqui diretti fra i protagonisti, a quelli fra i menestrelli ineguagliabili che cantano i loro sentimenti, a quelli dove nel colloquio interiore con se stesso ciascuno sa dare voce anche al compagno.
Nezami, Khosrow e Širin. Amore e saggezza nella Persia antica , a cura di Daniela Meneghini, Edizione Ariele, Milano, pagg. 326, € 24

Il Sole Domenica 8.10.17
Fisica del nulla
Com’è pieno lo spazio vuoto
di Mauro Dorato

Da Leibniz a Heidegger al filosofo recentemente scomparso Nozick, «Perché esiste qualcosa invece che il nulla?» è stata considerata la fondamentale domanda della metafisica. Una domanda del genere, se si riferisce alla creazione del mondo ex nihilo, ha ovviamente una presupposizione teologica, come se Dio scegliesse tra uno stato di nulla e uno di essere e considerasse quest’ultimo come preferibile al primo. Ma se Dio stesso è una qualche forma di essere, nemmeno l’idea della creazione può fornire una risposta alla domanda.
In filosofia si parla di vuoto almeno dai tempi di Democrito. Tuttavia, in un saggio accessibile anche al lettore colto, il brillante fisico-matematico e filosofo americano James Weatherall chiarisce appropriatamente che il «nulla» o meglio il «vuoto» di cui parla la fisica non è il nulla assoluto, ma è qualcosa di molto più interessante. Il messaggio fondamentale della ricostruzione storico-critica di Weatherall, che inizia da Newton e termina con la fisica contemporanea, è che il «nulla» di cui parla la fisica non va inteso nel senso pre-teorico che «nulla» ha nel linguaggio ordinario. Partendo da uno dei due pilastri della fisica del secolo scorso, la meccanica quantistica, sappiamo che il cosiddetto vuoto quantistico è lo stato fondamentale dell’universo fisico.
A differenza del vuoto democriteo – il vero e proprio nulla in cui si volteggiava l’essere degli atomi – il vuoto quantistico però non è affatto completa assenza di essere, visto che è comunque «pieno» di eventi interessanti, quali per esempio fluttuazioni del campo e fulminee creazioni e annichilazioni di coppie di particelle.
Analogamente, Weatherall spiega come, seguendo la lezione dell’altro pilastro della fisica, la relatività generale, una regione dello spazio tempo «vuota» di materia contiene onde gravitazionali «capaci di mettere in vibrazione una molla»: anche in questa fondamentale teoria l’assenza di materia non equivale affatto a un nulla assoluto.
Il nulla fisico è rilevante anche nei tentativi di unificare relatività generale e meccanica quantistica, il compito della fisica di questo secolo. Sebbene il grande fisico americano Feynman dicesse nel 1988 che una delle principali linee di ricerca della gravità quantistica, la teoria delle stringhe, «non produce nulla ed è sempre in cerca di scuse», dal punto di vista della «fisica del nulla» essa è comunque rilevante, dato che moltiplica il numero dei vuoti fino all’inverosimile cifra di dieci seguito da 500 zeri! Ciò che più conta per noi è però il fatto che, indipendentemente dalla teoria delle stringhe, già solo la differenza tra il vuoto quantistico e quello della relatività generale basta a concludere che, almeno per il momento, in fisica esiste più di un «nulla» .
Le tappe storiche fondamentali ripercorse dal libro anche grazie a gustosi dettagli biografici sono presentate in modo sintetico ma sempre informativo e preciso, fatto quest’ultimo reso possibile dalla grande padronanza tecnica del suo autore. Il viaggio inizia con la famosa disputa tra Newton e Leibniz sullo realtà dello spazio assoluto: mentre per Newton lo spazio è uno scatolone vuoto nel quale i corpuscoli si muovono, per Leibniz è un insieme di relazioni possibili tra eventi: Weatherall mette in luce ciò che i due condividevano sulla sua struttura geometrica (più di quanto in genere si pensi) e ciò che invece li separava, ovvero il rapporto tra spazio e tempo.
Ci viene poi raccontata l’immissione nella fisica dell’Ottocento di un’entità fisica ma priva di massa, il campo elettromagnetico, una ragnatela che pervade lo spazio e che permette ai nostri cellulari di dialogare. Per il fisico dell’Ottocento James Maxwell tale campo si poteva trasmettere solo grazie a una sostanza vibrante (l’etere). Ma con l’estensione all’elettromagnetismo del principio di relatività di Galilei operata dalla relatività speciale si comprende che un’onda elettromagnetica si può propagare nel vuoto. Immaginiamo una stanza prossima a una sorgente di onde elettromagnetiche e gravitazionali dalla quale rimuoviamo ogni oggetto e anche l’invisibile aria: al suo interno troviamo comunque sia il campo elettromagnetico sia quello gravitazionale.
Con la relatività generale Einstein scopre che quest’ultimo campo può essere identificato con uno spazio (tempo) curvo, fluttuante e dinamico. L’ultima tappa del libro descrive in maggior dettaglio il «nulla» fisico fondamentale, ovvero il vuoto della teoria quantistica dei campi che come già visto, è in realtà un differente stato della materia. Weatherall, che ha un vero talento esplicativo grazie alla facilità con cui trova metafore, lo paragona «a un mare che ribolle di attività».
Una delle due lezioni di questo bellissimo testo è che la fisica si appropria di concetti fondamentali del linguaggio ordinario, come spazio, tempo, materia e li trasforma all’interno delle sue teorie rendendoli più precisi ma mutandone radicalmente il significato. Ne segue un conflitto con il senso comune, sul quale la scienza comunque parte.
Questo è accaduto anche per il concetto di vuoto, ed è proprio grazie a questi mutamenti concettuali che una storia della fisica ricostruita a «partire dal nulla» è piena di interesse. L’altra lezione è che una vera comprensione dei concetti fondamentali della scienza non può che passare attraverso una loro ricostruzione storico-critica.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
James Weatherall,La fisica del nulla. La strana storia dello spazio vuoto , Bollati, Torino, pagg.186, € 22

Il Sole Domenica 8.10.17
Johannes Kepler (1571-1630)
Mia madre non è una strega
L’astronomo confutò con l’accuratezza del metodo scientifico le accuse che avrebbero potuto comportare la pena di morte
di Massimo Bucciantini

È il 9 novembre 1619 quando per Katharina hanno inizio i giorni più cupi. Alle otto del mattino nella sala del consiglio municipale di Leonberg prende il via il processo contro la madre di uno dei maggiori astronomi della modernità, il luterano e matematico dell'imperatore Johannes Kepler.
Ad accusarla di eresia e malefici erano numerosi testimoni, ben ventiquattro cittadini del piccolo villaggio con poco più di mille abitanti (tutti di fede luterana), dove l’anziana madre risiedeva. Cinque tra loro erano donne, tra cui la moglie di un sarto, di un barbiere, di un carpentiere e di un vetraio, e del gruppo faceva parte anche Lukas Einhorn, il governatore del ducato di Württemberg, e il maestro del paese. Quest’ultimo aveva raccontato che un giorno Katharina lo aveva fermato per strada mentre si recava in chiesa e gli aveva offerto del vino. «Non appena assaggiato il vino, le gambe avevano cominciato a dolergli. Nel giro di qualche giorno il dolore era diventato così intenso da costringerlo a camminare aiutandosi con due bastoni. Poco dopo si era ritrovato completamente paralizzato». Ma non fu solo questo episodio a gettare un’ombra di sospetto e di riprovazione contro la vecchia vedova, colpevole di possedere dei poteri magici capaci di provocare sventure e disgrazie nella vita delle persone vicine.
I capi d’imputazione erano pesantissimi. La si accusava di aver invitato a casa sua il governatore e Ursula Reinbold, la moglie di un vetraio di Leonberg, e di averle fatto bere uno strano intruglio che all’istante le aveva rovinato la salute. Di aver appreso la stregoneria frequentando una zia che abitava nella vicina Weil der Stadt, successivamente messa al rogo. Di aver tentato di condurre una ragazza a partecipare al rituale del sabba, e poi di avere cercato di insegnarle i segreti di quell’arte demoniaca. «Non ti piacerebbe diventare una strega?», così le parole di Katharina riportate nella testimonianza della ragazza. Assicurandole, di contro a una vita priva di piaceri, «gioia e dissolutezza oltre misura».
Tutto era cominciato alla fine di dicembre del 1615, quando Keplero, che si trovava con la famiglia a Linz, ricevette una lettera dalla sorella in cui lo informava che la madre era stata accusata di stregoneria e che lei, a sua volta, aveva citato in giudizio i suoi detrattori per calunnia. Da quel momento, e per oltre sei anni, l’astronomo lottò con tutte le sue forze in difesa dell’anziana madre. In un crescendo di ansia e timori per la concreta possibilità che potesse essere sottoposta a tortura e condannata a morte.
Keplero aveva quarantaquattro anni ed era nel pieno della sua attività creativa. Stava lavorando senza un attimo di tregua a una delle opere più importanti, gli Harmonices Mundi libri V, che pubblicò nel 1619 e che contengono la sua famosa terza legge, in base alla quale i quadrati dei tempi periodici dei pianeti sono proporzionali ai cubi delle loro distanze medie dal Sole. Proprio nel momento in cui aveva più bisogno di serenità per portare a termine la sua impresa, quella notizia lo sconvolse, anche per le conseguenze che avrebbe potuto avere sulla sua reputazione di matematico imperiale, per il rischio di essere additato come il figlio di una strega.
Il libro di Ulinka Rublack è la ricostruzione attenta e approfondita di questo rapporto madre-figlio all’interno di un contesto in cui il fenomeno della caccia alle streghe assunse una dimensione sociale rilevantissima. Tra Cinque e Seicento si stima che all’incirca 73.000 persone furono processate per stregoneria, e di queste 40.000-50.000 furono mandate a morte. «Dal 1560 alla fine delle persecuzioni, tra le 22.000 e le 25.000 persone furono giustiziate all’interno dei confini dell’odierna Germania, dove peraltro il 75 per cento degli accusati erano donne».
L’affaire Katharina è uno dei processi per stregoneria meglio conosciuti della storia tedesca. La sua ricca documentazione archivistica consente di poter seguire da vicino ogni momento dell’intera vicenda. E il giudizio finale della Rublack è che siamo di fronte a una donna che non fu «né l’eroica vittima di un’epoca oscura né una vecchia fattucchiera superstiziosa e ignorante».
Era appena trascorso un anno dalla pubblicazione degli Harmonices quando, all’alba del 7 agosto 1620, Katharina venne avvertita dalla figlia che gli uomini del governatore sarebbero di lì a poco venuti per arrestarla e condurla in prigione. Le guardie trovarono la settantatreenne Katharina nascosta dentro una cassapanca «completamente nuda eccetto per le lenzuola che ancora l’avvolgevano». A seguito di questo tragico avvenimento Johannes decise di assumere in prima persona la difesa legale della madre nel tentativo di salvarla dal rogo e, al tempo stesso, di proteggere l’onore della sua famiglia. E lo fece utilizzando le tecniche e i principi che lo avevano guidato nel suo lavoro di astronomo e di filosofo naturale.
Nel settembre del 1620 si trasferì nel Württemberg e la sua vita venne come sospesa. D’un tratto i suoi progetti passarono in secondo piano. Inscatolò persino i suoi libri e gli strumenti scientifici che aveva a Linz. Niente aveva più valore per lui della liberazione della madre e del suo proscioglimento da ogni accusa.
Ma per presentare una difesa persuasiva Keplero doveva confutare ogni singolo testimone con argomenti giuridici. E riuscì a farlo perché la solida formazione scientifica, storica e filologica lo aveva abituato allo studio dei dettagli. Anche dei più insignificanti. Nessun verbale di interrogatorio lo avrebbe annoiato o, peggio, costretto alla resa. Lui, abituato da sempre a cercare gli errori più impossibili nei calcoli e nelle tavole astronomiche di Tolomeo, Tycho Brahe e Copernico, capace come pochi di sceverare enigmi, simbologie nascoste e intricate similitudini, sarebbe riuscito a dimostrare l’inattendibilità di quelle testimonianze. «Keplero non scendeva dall’empireo regno della mente ad affrontare i vili dettagli di un caso criminale: i molti anni in cui aveva argomentato le sue posizioni nella scienza lo avevano preparato a costruire una difesa eccezionalmente efficace».
Partendo da una conoscenza ineccepibile del codice penale imperiale, riuscì a convincere la corte che Katharina era una pia cittadina che aveva messo a frutto le competenze mediche che le erano state tramandate. E lo fece usando tutte le armi possibili, retoriche e non, addentrandosi anche in minuziose argomentazioni scientifiche per dimostrare come misteriose malattie magiche, erroneamente attribuite a immaginari influssi, potessero invece essere spiegate attraverso la scienza medica e il senso comune. Quel castello di accuse venne completamente frantumato: non esisteva alcuna prova giuridica che sua madre fosse una strega.
E in questa appassionata e impeccabile difesa la sua voce si levò alta e chiara contro la pratica della tortura alla quale erano sottoposte le moltissime donne sospettate di stregoneria. «Tutto quello che sapevano su se stesse così come sugli altri è stato loro estorto con intollerabile dolore e sofferenza».
Ulinka Rublack, L’astronomo
e la strega. La battaglia di Keplero
per salvare sua madre dal rogo , traduzione di Francesco Barreca, Hoepli, Milano, pagg. XXVIII, 356,
€ 29.90