Il Fatto 6.10.17
Sinistra, il caos dei dirigenti che non diventano leader: da D’Alema il capotavola fino a Pisapia faro già spento
Il
Lìder Maximo impalla tutti, Speranza l'eterno futuro, Bersani
indispensabile che ha già fatto il suo: così l'ex sindaco di Milano ha
scoperto che non basta dire "uniamoci" per unire Pd e gli altri e da
possibile federatore è diventato punchin-ball. Per questo il sogno
proibito di Bersani sarebbe Grasso. Preferito perfino da Vendola
di Diego Pretini
Federatori
che non federano, nuovo che non avanza, leader di talento ingombranti
ma consunti dalla storia, assi nelle maniche abbottonate. A sinistra,
presto, a sinistra: ma la macchina pare inceppata. Ex comunisti con ex
socialisti, ex vendoliani con ex democristiani, scissionisti della prima
ora con scissionisti della seconda che si uniscono a quelli della
terza. Il campo della sinistra del centrosinistra che non c’è più è come
un’aia di campagna, dove ogni galletto va a beccare in un posto
diverso. Alt, avvertono tutti in coro nelle interviste, prima di tutto i
programmi. Ma ora che ci provano – il superticket, la povertà nella
legge di bilancio – si accapigliano parlando solo di matrimoni, divorzi,
coppie scoppiate. In comune hanno l’assillo della discontinuità con le
riforme di Renzi e più precisamente proprio con Renzi. Ma ciascuno ha un
joystick diverso. Per dire: lo sforzo per una cosa semplice come far
guidare a Pisapia la delegazione di Mdp a Palazzo Chigi dal presidente
del Consiglio Paolo Gentiloni è stato immane. Ma Tabacci, uno dei pochi
che può parlare a nome dell’ex sindaco, lo descrive come amareggiato
perché – dice – dentro Mdp vogliono confinarsi a una sinistra di
testimonianza con Fratoianni e “quelli del Brancaccio” (cioè Tomaso
Montanari e Anna Falcone, i reduci della vittoria del No), “bravissime
persone che però non c’entrano nulla con la prospettiva di un
centrosinistra in grado di competere”. Dall’altra parte rispondono che
il centrosinistra non esiste perché è morto sotto i molti colpi inferti
da Renzi: l’ultimo quando si è alleato con Alfano per sostenere Micari
alle Regionali in Sicilia. Così si affollano a sinistra dirigenti che
però non si sa dove dirigono, che restano a mezza altezza per motivi
diversi: da Bersani a D’Alema, da Speranza a Enrico Rossi, fino a Nicola
Fratoianni e Pippo Civati. Fino a Giuliano Pisapia, il cui ruolo è
ridotto al lumicino ogni volta che parla D’Alema, già da quella volta – a
inizio settembre – in cui lo definì “l’ineffabile avvocato”. E un po’
più in là, fino ai sogni che non sembrano solide realtà: Piero Grasso e
Emma Bonino. Di seguito i più in vista.
D’Alema, l’attaccapanni che precede tutti
“Finché
sarò vivo, Renzi non potrà stare sereno” disse a pochi mesi dal
referendum costituzionale. Per Aldo Cazzullo (Corriere di ieri) è il più
anti-renziano di tutti. Per Angelo Panebianco (Corriere di molti anni
fa), “i leader autentici sono sempre, in ogni Paese, e anche in Italia,
pochissimi. E D’Alema è uno di loro”. Per Renzi era il primo da
rottamare e invece ha fatto come l’alligatore: è rimasto sott’acqua
finché è servito, finché non ha capito che uscendo dall’acqua avrebbe
divorato la preda. Non solo Renzi, ma anche il nuovo partito che lui ha
annunciato per primo. I dalemiani sono rimasti di là, hanno indossato
nuove maschere: Anna Finocchiaro, Gianni Cuperlo, Nicola Latorre, Marco
Minniti, Matteo Orfini in ordine di crescente lealtà al nuovo capo. Lui
non soffre di solitudine, capotavola è dove si siede lui, disse una
volta. Dopo aver garantito che Speranza è un ottimo dirigente tra
l’altro più giovane di Renzi e che chi sarebbe stato il capo si sarebbe
deciso con le primarie, a luglio ha definito quella di Mdp una “gestione
confusa e poco efficace”.
Ha dato la possibilità a
Pisapia di sognare per un po’, di fare il federatore, sapendo già che
avrebbe fallito. I due non sono diversi solo perché uno è figlio del
partito e l’altro un borghese civico, come li ha descritti Cazzullo. Ma
anche perché l’ex sindaco continua a inseguire i sogni, mentre l’ex
presidente del Consiglio non ha mai cominciato, preferendo la
disillusione. Per primo D’Alema ha annunciato che ci sarebbe stata la
scissione dal Pd, per primo ha detto – andando ad ascoltare il discorso
“di insediamento” di Pisapia – che alle elezioni avrebbero corso da soli
e contro il Pd, per primo ha capito che una coalizione sarebbe stata
impossibile. Per primo ha detto che con l’alleanza tra Pd e Alfano in
Sicilia il centrosinistra era finito. Per primo ha chiesto a Pisapia
“maggiore coraggio” per accelerare la nascita della forza a sinistra del
Pd: un simbolo riconoscibile, temi ben chiari per segnare la
“discontinuità” con il lavoro fatto dal governo delle intese medie negli
ultimi 5 anni. In realtà non è mai chiaro se queste cose le dice per
primo perché le prevede o perché poi le fa andare così lui. Per questo a
Pisapia è partita la frizione chiedendogli di farsi da parte, subissato
di fischi dei dalemiani rimasti e dal silenzio glaciale del Lìder
Maximo.
Ha archiviato la terza via e il blairismo,
nelle interviste cita Podemos e la Linke, se non fosse ambiguo si
direbbe che si è radicalizzato. E’ una croce oltre che una delizia di un
pezzo di sinistra perché il suo passato pesa e contro D’Alema se la
prendono tutti, una specie di antistress: “E’ l’attaccapanni a cui
attaccano tutte le tattiche avverse – ha detto Bersani qualche giorno fa
– Ma lui è fatto così è una personalità ma le perplessità non si
possono nascondere sempre dietro D’Alema”. Ma l’impresa è sempre
spostarlo da davanti.
Bersani, quest’acqua qua
Lo
paragonano a Bertinotti. Lui con la stessa espressione piena di fatica,
di preoccupazione e di concentrazione che offrì da presidente
incaricato nel primo incontro in streaming con i capigruppo dei
Cinquestelle, nel 2013, oggi fa ancora scrosciare applausi negli studi
televisivi e – racconta uno dei suoi fedelissimi, Davide Zoggia – anche
nelle piazze in Sicilia. Avrebbe voluto essere Papa Roncalli, ha detto
una volta, ma sembra più Papa Montini: a volte un po’ in anticipo per
non rimanere schiacciato dal presente. Se avesse vinto, anziché “non
vinto”, come prima cosa da capo del governo – ha ricordato di recente –
avrebbe fatto lo Ius soli, su cui ora Renzi non ha nemmeno il coraggio
di mettere la fiducia. Come seconda, una “norma secca anticorruzione“.
Dalla corsa per il leader si è autoeliminato da tempo: la moglie ha
minacciato di cacciarlo da casa se si ricandiderà a premier, ma non c’è
rischio, tanto più che a questo giro il massimo del risultato può essere
il quarto posto.
Ma la sua assenza ha messo davanti
agli occhi dell’elettorato le alternative tipo Speranza e la platea ne è
uscita terrorizzata. Quindi “quel pezzo di Ditta qua”, che in realtà
crede che la Ditta sia stata scippata da un rapinatore, si aggrappa di
nuovo a lui, diventato finalmente leader dopo una vita politica da
gregario di lusso, competente, rasserenante. “L’eterno delfino che a 57
anni ha deciso di nuotare da solo – lo definì Fabio Martini sulla Stampa
prima del congresso che avrebbe incoronato Bersani, già tre volte
ministro – A forza di nascondersi, a forza di dire ‘Obbedisco’ al suo
amico Massimo D’Alema che in passato lo ha ripetutamente invitato a non
candidarsi, la rinuncia stava diventando la sua cifra politica. L’Amleto
di Bettola”. “Bersani è un uomo di governo capace ed è sempre stato
fuori dai conflitti personali all’interno del centrosinistra”: sembra la
definizione più adatta e l’unico sospetto nasce perché a pronunciarlo
fu proprio D’Alema.
Da solo, senza D’Alema, è quello
che ha combattuto di più le politiche di Renzi, rottamatrici delle idee
più che delle persone. Non c’è riuscito quasi mai anche perché, appunto,
ha criticato troppo presto quello che altri nel partito hanno
contrastato più tardi, a tempo scaduto, tipo Orlando. Come D’Alema,
però, Bersani si porta il fardello di chi dice cose già dette e vede
cose già viste: gli elettori di sinistra sono da tempo un po’
suscettibili, diversi da quelli di Forza Italia che vedono solo
Berlusconi. Lo prendono in giro, ma Bersani insiste a credere di parlare
la lingua del popolo così le metafore non sono mai uscite dal suo
breviario. L’ultima l’altro giorno, con gli animali: “Se anche in Italia
si tira la volata alla destra scimmiottandoli, balbettando in modo più
politicamente corretto le stesse ricette, ad esempio su fisco e
immigrati, la sinistra rischia di fare la fine del coniglio davanti al
leone”. La penultima alcuni giorni prima, quella dell’acqua: “Renzi ha
governato tre anni con i voti che ho preso io, ed ha ribaltato quasi del
tutto le cose che avevo promesso agli elettori. Se questo porterà
avanti il centrosinistra e metterà sotto destra e 5 stelle, avrà avuto
ragione lui; altrimenti dovrà far due conti di quello che è successo. Di
noi non si preoccupi: noi porteremo acqua al centrosinistra”.
Pisapia, il punching-ball arancione
“Giuliano
Pisapia, convinto di essere un leader decisivo e destinato a saldare le
varie sinistre di sorta, non sa che D’Alema non prevede per lui alcun
ruolo, salvo quello di bella statuina”. Sembrava una cattiveria quella
di Andrea Marcenaro sul Foglio di inizio estate. Quasi quattro mesi il
basamento della statuina è quasi completato. Pisapia è stato posizionato
sull’asta del gonfalone della sinistra che rimpiange Prodi e l’Ulivo,
ma in realtà si ritrova a capo della Sinistra Arcobaleno. E forse
nemmeno così a capo. Quando Bianca Berlinguer ha chiesto a D’Alema se è
Pisapia il leader lui ha risposto: “Abbiamo detto di sì, il leader è
lui”. Abbiamo detto di sì, noi, all’ineffabile avvocato, come l’ha
chiamato una volta.
Altro che enzima che unisce tutto
il centrosinistra, dai democristiani a Fratoianni. Piuttosto il
punching-ball del luna park. A nulla è servita la lunga preparazione di
Pisapia, iniziata con la scomparsa dalla scena politica alla Fanfani
subito dopo aver la sciato Palazzo Marino. Credeva che tutti
aspettassero qualcuno come lui che a Milano ha guidato la vittoria
“arancione” e in Italia ne era il simbolo, senza accorgersi che
quell’avventura è finita già da un pezzo, con lui, Zedda, De Magistris e
Orlando in ordine sparso. A Milano aveva vinto perché è una persona per
bene, carattere che rischia di diventare un handicap quando sei in un
ambientino pieno di tigri dai denti a sciabola. Credeva che bastasse un
paciere, scoprendo che servirebbe un miracolo: l’euforia iniziale che ha
unito al suo fianco l’ex rifondato Ciccio Ferrara e l’ex dc Tabacci
senza i marxisti – e ha fatto aleggiare i padri nobili Enrico Letta e
Prodi – è diventata ora una bell’arietta emo.
Prende
schiaffi da tutti, come una comparsa di Altrimenti ci arrabbiamo.
“Pisapia cambia posizione abbastanza spesso – ha detto Orfini alcune
settimane fa – Perché quando ha fatto la riunione con Mdp ha firmato un
documento in cui si definiva alternativo al Pd – e immagino non ci si
voglia alleare con forze alternative – poi ha lanciato le primarie”.
Nicola Fratoianni, capo di Sinistra Italiana, si dice “non interessato
alle smentite di Pisapia” e che “il tempo è scaduto”. Irrita Roberto
Speranza: “Noi stiamo aprendo le porte nella maniera più convinta
possibile a Giuliano Pisapia. Dopodiché a me non convince un
ragionamento in cui tutto si riduce a un gioco di personalità”. Fa
sdubbiare perfino Bersani: “Nessuno qui vuol dei partitini. Vogliamo
tutti un partitone. Non è quello”. Litiga di brutto con Nichi Vendola:
“Ha ragione Pisapia: D’Alema è divisivo, divide la sinistra dalla
destra. Per Pisapia è sufficiente dividere la sinistra” dice l’ex
presidente della Puglia. “Si può cambiare idea, ma non dimenticare: hai
governato la Puglia in variegata compagnia. A Milano non c’era destra in
giunta” risponde l’ex sindaco.
Nonostante l’abbraccio a
Maria Elena Boschi davanti al quale Mdp reagì come se avesse
commemorato Farinacci, è stato quasi ignorato dal Pd che parla di lui
solo nei retroscena, “da Calenda a Pisapia”, o nei sogni di Rosato, “da
Alfano a Pisapia”. Per restare attaccato almeno a Mdp, i suoi comunicati
stampa sono esercizi di acrobazia. Fa fatica a farsi ascoltare perfino
dai senatori che si autoproclamano esponenti di Campo Progressista:
parlano a titolo personale, dice un portavoce di Pisapia. “No – ha
risposto uno di loro – io parlo a nome di Campo Progressista Sardegna”.
Mettete da parte i personalismi, ripete da mesi a due poco interessati
ai personalismi come Renzi e D’Alema. Lui si è già messo da parte per
esempio in Sicilia dove non sostiene né Micari col Pd né Fava con la
sinistra.
Speranza, l’eterno futuro
L’eterno
delfino, l’eterno futuro, l’eterno dialogante. Per Vauro “un
giovane-vecchio”. A Roberto Speranza quasi tutti riconoscono che è
serio, timido, mediatore, coerente, grande ascoltatore, persona perbene,
che ha studiato, che ha fatto la gavetta. Più o meno così lo descriveva
la Stampa già 4 anni fa, quando già lo indicavano come “futuro leader”.
Nel frattempo risulta ancora difficile trovare chi lo consideri uno che
riempie le piazze e le urne. Bersani se n’è dovuto andare per un po’ e
poi è tornato e Speranza sempre lì è rimasto: sotto la sua ala
protettiva. E’ lì sotto dal 2012 quando Speranza era uno dei
coordinatori del comitato di Bersani alle primarie per le Politiche.
Spesso
si sforza di essere incisivo: “Avevamo promesso più lavoro e stabilità e
ci siamo ritrovati il boom dei voucher; avevamo promesso green economy e
ci siamo ritrovati le trivelle e il ‘ciaone’; avevamo promesso equità
fiscale e abbiamo tolto l’Imu anche ai miliardari”. Ma non se ne accorge
nessuno. Fa cose di rottura, coraggiose: si dimise quando la Boschi
pose la fiducia sull’Italicum che lui considerava incostituzionale (come
poi confermò la Consulta). Ma non se lo ricorda nessuno.
Gli
capita di prendere sberle a gratis anche quando non fa niente di che.
“Hai la faccia come il culo” gli comunicò Roberto Giachetti quando a
Speranza gli venne di proporre il Mattarellum. Mani tra i capelli di
Renzi, grida in pé della senatrice Ricchiuti, via alla scissione. Un
mesetto prima un tizio gli lanciò addosso un iPad durante la
presentazione di un libro a Potenza: “Il Pd vende armi all’Isis!”.
L’episodio più doloroso resta quando Repubblica chiese a Bersani se
Speranza era l’anti-Renzi: “Lo stimo, non è un segreto. Ma al di là dei
nomi serve un segretario che si occupi del partito sdoppiandolo dalla
figura del premier e non escludiamo a priori di pescare da campi che non
sono del tutto sovrapponibili alla politica. Qualcuno può escludere che
in giro ci sia un giovane Prodi?”. Boom, Roberto, sei stato
friendzonato. Sembra sempre il suo momento e il suo momento non arriva
mai. Mesi fa aveva finalmente l’occasione per misurarsi (cioè
schiantarsi) contro Renzi. Zampettava sui giornali e sulle televisioni
dopo la vittoria del No al referendum, in quei giorni figlia del mondo
intero. “Arriverà presto il congresso Pd e io ci sarò, mi batterò.
Accetto la sfida e sono ottimista perché non sono solo”. E invece un
attimo prima gli hanno tolto il partito, nel senso che i suoi tutori
hanno deciso di andarsene a fare Mdp. Cos’è ora Speranza?, si chiedono
ogni tanto l’un l’altro nelle redazioni. Capogruppo? Possiamo dire
leader? No dai, leader no. Forse tipo coordinatore. Provate voi a
coordinare ex vendoliani, ex bersaniani, pisapiani e D’Alema.
Grasso, che una mattina si svegliò “Metodo”
Una
volta, raccontò, si addormentò Pietro e si svegliò “metodo”. Il “metodo
Grasso” di cui parlarono i giornali all’indomani della sua elezione era
quello che aveva fatto diventare lui presidente del Senato (spaccando
il gruppo M5s alla prima votazione) e Laura Boldrini presidente della
Camera. Il metodo lo inventò Pierluigi Bersani al quale nel 2013 venne
l’idea di proporre a Grasso l’inizio della carriera politica dopo una
vita nella lotta a Cosa Nostra. Ora può accadere di nuovo. A Napoli,
alla festa di Mdp, Bersani aveva gli occhi a cuoricino mentre sentiva la
seconda carica dello Stato raccontare che si sente ancora “ragazzo di
sinistra” e come tale chiede “alla sinistra di non fare passi indietro
sui principi”.
C’è quella bazzecola da superare che si
chiama presidenza del Senato che lo terrà ingessato fino a primavera, ma
Grasso per la terza volta potrebbe essere la soluzione ai problemi di
Bersani. Grasso ha le sembianze quei tiri di carambola di certi circoli
del biliardo con cui la biglia butta giù i birilli, sponda dopo sponda.
Autorevole per curriculum, dialogante per carattere, è legalitario, ma
non securitario, la giustizia sociale accanto a quella dei tribunali.
Dice cose di sinistra, pronuncia spesso parole di verità, gli piace il
genere antifà. Negli ultimi dieci giorni ha detto che: lo Ius soli va
votato, il codice antimafia deve rimanere così perché era nel programma
(del Pd), la sinistra non deve fare passi indietro sui suoi principi,
che la prima regola della politica è l’etica (bisogna saper scegliere i
candidati prima che arrivino le condanne). Ha detto che i partiti devono
smetterla di scrivere le leggi elettorali solo per convenienza e ha
fatto incazzare Orfini. Ha detto che dobbiamo dare l’asilo anche ai
migranti economici perché lo dice la Costituzione e ha fatto incazzare
la Lega Nord. Fa incazzare spesso il Pd, come quando si mise seduto in
Aula tutto sorridente e decise per conto suo di far votare la richiesta
d’arresto di Antonio Caridi, primo parlamentare accusato di associazione
mafiosa (il Pd voleva trastullarselo fino a dopo il ddl editoria).
Non
si contano le volte che ha fatto incazzare il M5s: i senatori grillini
perdono la testa soprattutto quando loro si agitano rossi in volto –
come per abitudine – e lui gli risponde col tono di un bonzo tibetano,
con lo sguardo disincantato. La spalla preferita è il senatore Lello
Ciampolillo. Una volta segnalò dei “pianisti”, quelli di Forza Italia
cominciarono a tirargli palline di carta. Grasso lo rassicurò sulla sua
incolumità: “Senatore Ciampolillo, la presidenza ha visto tutto. Ha
visto anche che non l’ha colpito”. Stimato da destra, Vendola lo
preferisce a Pisapia. “Grasso è una grande personalità – dice D’Alema –
E’ stato un giovane militante di sinistra, l’abbiamo candidato e eletto
presidente del Senato. Non è certo una new entry”. Un ineffabile
presidente, in altre parole.