lunedì 30 ottobre 2017

Il Fatto 30.10.17
La tv russa riabilita il demone Trockij
Il 7 novembre andrà in onda la serie tv dedicata al fondatore dell’Armata Rossa che sfidò Stalin, molto noto in Occidente ma assai meno in Patria
di Alessandro Piazza

Che di Lev Trockij, il fondatore dell’Armata Rossa, si sappia e si parli poco in Russia è un fatto noto. Un dato per tutti: Yandex, il motore di ricerca più consultato, l’equivalente di Google, gli dedica non più di 100 pagine, contro le 5.000 destinate a Lenin e le oltre 10.000 a Stalin. Anche il dibattito storico è poco sviluppato se non in elitari ambienti accademici più preoccupati della ricerca dei finanziatori della Rivoluzione che dell’elaborazione dei fatti. Anche l’immaginario collettivo russo non va oltre il folclore: il sanguinario, il demone rivoluzionario, l’ebreo saccente e noioso sono gli epiteti più usati per commentare il personaggio storico. Per i media un convitato di pietra, per la politica un fantasma nonostante il perdono di Gorbacev nel 1986.
A fronte di questo sonnolento panorama appare controcorrente la decisione di trasmettere la serie tv Trockij che andrà in onda sul Primo Canale russo a partire dal 7 novembre, data che coincide con l’esplosione dei moti rivoluzionari dell’Ottobre (la Russia zarista usava il calendario giuliano) in occasione del centenario. Sono otto episodi che ripercorrono gli eventi salienti della vita di Lev Davidovic Bronštejn Trockij: la giovinezza, la formazione culturale e politica, la presa del Palazzo d’Inverno, il suo ruolo come presidente del Consiglio Rivoluzionario di Guerra, i contrasti con Stalin, l’esilio in Messico e il suo assassinio.
Non banale l’impianto narrativo. Maggio del 1940, dopo essere scampato a un attacco di comunisti messicani, Trockij consapevole che non può sfuggire alla battaglia contro Stalin decide di affidarsi alle parole e rilascia una serie di interviste a Frank Jackson, giornalista canadese filostalinista, fino a comporre il suo testamento. Da lì si snoda la trama attraverso flashback e flashforward che coprono tutta la sua esistenza. Emozionanti sono le scene dell’infanzia del leader a Odessa, oggi Ucraina, i suoi amori, l’ambiente ebraico e la sottolineatura delle capacità carismatiche del rivoluzionario oratore.
Anche l’ambientazione, tra Russia e Messico, è rigorosa: sono stati minuziosamente riprodotti i vestiti e la mobilia dell’epoca, si è ricorsi ad antiquari per rendere tutto verosimile. Il cast non è da meno, Kostantin Khabensky nel ruolo del protagonista, parte che aveva già recitato in una miniserie dedicata al poeta Esenin, ce l’ha messa tutta al punto da alterare la voce per parlare come il leader negli ultimi anni quando era stanco ma non meno determinato. Fin qui nulla da eccepire nel quadro del corretto postsovietico. Per usare le (non molto spontanee) parole del produttore Konstantin Ernst: “Questa è la prima fiction televisiva drammatica sulla storia della Russia e Trockij fu il vero protagonista dell’Ottobre”.
Eppure, a giudicare dal trailer e dalle dichiarazioni dei protagonisti della fiction, ci sono elementi che fanno discutere. Primo, la caratterizzazione del personaggio: a tratti brillante oratore, ma in molti momenti un invasato e retorico sermonista (“Devo farla finita di essere me stesso nel nome di un’idea suprema”) che ricorda alcune serie tv italiane Anni Settanta. La connotazione satanica torna spesso, per esempio nella scena in cui l’esule messicano, mentre macella un coniglio, parla di rivoluzione e strategie attraverso un’affabulazione mistica. Va ricordato, a proposito, che nel periodo precedente all’ottobre, Trockij aveva seguito corsi universitari di psicanalisi freudiana a Vienna e non bisogna neppure dimenticare che era un raffinato lettore e autore di saggi (Letteratura e Rivoluzione). Il macchiettismo, nemico numero uno delle riproduzioni televisive e cinematografiche di epoche e personaggi del passato, la vince troppe volte nello sceneggiato (“Sono pronto a sacrificare i miei figli per la rivoluzione”).
Non ci siamo con l’analisi storica e psicologica dell’uomo la cui ambivalenza attoriale emerge dalle parole stesse del regista Alexander Kott: “Pochi in questo Paese sanno chi sia Trockij, lo conoscono meglio in Occidente e in Centro America ma è stato l’artefice della rivoluzione, quello che ha offerto le masse a Lenin su un piatto d’argento. Ma fu anche il genio diabolico di quegli anni, non ha trovato il suo posto negli anni successivi al 1917, non poteva fare a meno di continuare il percorso rivoluzionario, solo una piccozza per il ghiaccio lo fermò”. Accusato dal giornalista di usare gli stessi metodi di Stalin il protagonista risponde: “Non sono come Koba – nomignolo per Stalin – io agisco al servizio delle idee, lui della violenza bruta”. Non ci si aspettava una dotta dissertazione sui concetti di rivoluzione permanente e deriva burocratica dell’Unione dei Soviet, ma nemmeno un alterco con la nuvoletta dei fotoromanzi.
In sintonia con il regista le dichiarazioni dell’attore Khabensky: “Non è stato per niente piacevole interpretare il ruolo di un uomo che non mi attrae affatto. Abbiamo fatto un’operazione fantascientifica sul personaggio proprio perché volevamo renderne la diabolicità, il cappotto di pelle nera, le scene del treno blindato, il protagonista che spara a freddo contro un’anziana signora in un cimitero sono funzionali al quadro demoniaco”.
Poco convince anche l’ossessione erotica primitiva del profeta armato televisivo – “Le rivoluzioni sono come le donne, bisogna inseminarle” – e le scene con Frida Kahlo poco aggiungono all’aneddotica corrente. Viene da sospettare che siano immagini dedicate a un pubblico anglosassone, il format molto probabilmente sarà venduto anche negli Stati Uniti, piuttosto che russo che generalmente è poco curioso degli intrighi del talamo.
Giudicare prima un prodotto culturale senza conoscerne l’interezza è reato di arroganza intellettuale, ma Trockij presenta molti lati oscuri. È il primo passo dopo l’indulgenza dell’1986.