Corriere 30.10.17
Liceali e laureati lasciano il Sud
Ora l’emigrazione è intellettuale
di Dario Di Vico
Volendo
catalogarla proviamo a definirla «nuova emigrazione intellettuale»,
nuova perché ha caratteristiche profondamente diverse dalle ondate del
passato che avevano ridisegnato l’Italia a partire dagli anni 60,
intellettuale perché riguarda per la stragrande maggioranza laureandi e
laureati. I flussi da Sud a Nord non sono certo una novità nella storia
patria ma i numeri che circolano giustificano un allarme che sarà
ribadito nei prossimi giorni dal Rapporto annuale della Svimez. Se
infatti già negli anni che corrono dal 2002 al 2015 il saldo migratorio
netto di laureati segnava -198 mila, la tendenza si va rafforzando e
coinvolge adesso anche i diplomati delle scuole medie superiori che
vanno ad immatricolarsi negli atenei del Centro Nord.
Conseguenze demografiche
Il
rischio è fin troppo evidente: un impoverimento culturale del
Mezzogiorno senza precedenti, un drenaggio di intelligenze, competenze e
talenti destinato a influenzare la vita civile, amministrativa e
politica. «Può sembrare sproporzionato e anacronistico, al tempo delle
grandi migrazioni dal Sud al Nord del mondo, focalizzarsi sulle
migrazioni interne — spiega Giuseppe Provenzano, vicedirettore della
Svimez — ma si tratta di un fenomeno rilevante che ha conseguenze
demografiche più generali e pressoché unico nei Paesi sviluppati».
L’accenno alle conseguenze demografiche allude a un’altra pericolosa
novità, il calo della fertilità. Il Sud non fa più figli come una volta e
perde i suoi talenti, si crea così una tenaglia pericolosissima.
Saltano le vecchie reti di subcultura che riproducevano tradizioni/ruoli
e in parallelo non si sviluppa di una società civile moderna, dinamica e
responsabile.
Chi studia il fenomeno delle vite mobili dei
giovani meridionali segmenta in tre comparti i nuovi flussi Sud-Nord: i
diplomati delle scuole medie superiori che scelgono di andare a studiare
altrove, i laureati delle università meridionali che appena presa la
pergamena volgono la prua nella stessa direzione e i pendolari a lungo
raggio, residenti nelle regioni del Sud (magari solo per pagare una
polizza auto più bassa) ma che di fatto vivono/lavorano al Nord.
Cominciano dai teen ager. La mobilità universitaria in Italia è
generalmente elevata, uno studente su cinque frequenta atenei che non
sono localizzati nella sua regione ma questi trasferimenti visti dal Sud
sono pressoché a senso unico. Secondo l’economista Gianfranco Viesti,
docente all’università di Bari, un quarto degli studenti meridionali
oggi si immatricola negli atenei del Centro-Nord. Nel 2015-16 Puglia e
Sicilia hanno perso 6 mila studenti guadagnati da Lazio, Emilia e
Lombardia e in totale oggi il 24% delle immatricolazioni (in valori
assoluti 25 mila persone) ogni anno si sposta verso Nord. Viesti cita
una ricerca della Fondazione Res che ha calcolato, tra l’altro, come
sommando le tasse universitarie, l’alloggio e il vitto si trasferisce
anche una spesa di 2,5 miliardi l’anno. «Se ne vanno gli studenti forti,
quelli con il voto di diploma più alto, quelli che vengono dai licei e
che hanno la famiglia con il miglior reddito».
Le università e il lavoro
Cosa
alimenta la diaspora? Viesti che sta conducendo una battaglia in merito
risponde e polemizza: «Non discuto il valore di quelle università ma
spesso il loro prestigio è costruito anche attraverso buone campagne sui
mezzi di comunicazione e robusti investimenti di marketing». A
determinare il tutto, secondo l’economista barese, concorrono più
fattori: l’ampiezza dell’offerta formativa, la maggiore qualità
percepita di alcune università del Nord ma soprattutto i canali che esse
offrono per incontrare la domanda di lavoro dei laureati. «Negli ultimi
anni c’è stato uno spostamento degli studenti più verso Milano e Torino
a danno del Lazio e della Toscana. Da cosa è dipeso? Da uno scadimento
delle università del Centro o dal fatto che gli sbocchi di lavoro sono
più forti al Nord? La risposta è facile». E un’ulteriore dimostrazione
secondo Viesti la si rintraccia esaminando i dati dei laureati del
triennio. Nel 2008-2014 l’11% dei meridionali e il 15% degli
universitari delle Isole aveva scelto di prendere la successiva laurea
magistrale al Nord, ora questi numeri sono saliti (e quasi raddoppiati)
al 19 e al 29%. La tesi finale è semplice: non è tanto la variazione
della qualità dell’insegnamento a spostare i numeri ma l’aumento delle
differenze nel mercato del lavoro.
Un ruolo decisivo
nell’influenzare le scelte dei giovani liceali lo giocano anche la
possibilità di spostamento e la disponibilità di reti di trasporto. I
collegamenti Nord-Sud sono aumentati di numero e calati di prezzo grazie
ai voli low cost mentre rimangono del tutto carenti i servizi di
trasporto dentro il Mezzogiorno. «Un siciliano può raggiungere con
relativa facilità e a costi contenuti un ateneo del Centro-Nord mentre
gli è impossibile raggiungere una facoltà della Calabria o della
Puglia». E i numeri confermano: Trapani in virtù del servizio Ryanair
vede i suoi giovani lasciare la città con una quota-record del 60%
contro un modesto 6% dei teenager napoletani. «Le università del Sud
però non sono del tutto innocenti — obietta Andrea Toma, ricercatore del
Censis e autore di uno studio condotto per Confcooperative —. La
relazione che hanno saputo costruire con il sistema delle imprese in
molti casi è debole». E così si finisce per creare «un circolo vizioso»:
più immatricolati fuori, minori introiti per gli atenei, servizi meno
curati e reputazione compromessa. «Non dimentichiamo poi — aggiunge Toma
— che per i genitori del Sud spesso avere un figlio che studia al Nord è
addirittura un elemento di status».
Dai teenager passiamo ai
giovani meridionali che continuano a laurearsi nelle università del Sud
ma che una volta finito il ciclo di studi si rivolgono immediatamente al
mercato del lavoro settentrionale. Per rintracciare le loro scelte
nelle statistiche le possibilità sono due: a) li si ritrova nelle
cancellazioni — in aumento dall’anagrafe —: nel 2015 sono stati 30.700 i
laureati che si sono trasferiti, erano 13 mila nel 2002 e 21.600 nel
2008; b) oppure vanno a ingrossare le fila dei pendolari di lungo raggio
residenti nel Mezzogiorno che lavorano stabilmente al Centro-Nord. È
questo il terzo segmento dei nostri emigrati intellettuali e nel 2016
contava ben 137 mila unità. Di cui ben 46 mila sono laureati,
all’incirca un terzo. Quindici mila vengono dalla Campania, 12 mila sono
siciliani, 6 mila calabresi e 5 mila pugliesi. È interessante annotare
come Roma sia la calamita principale di questi laureati più del Nord
Ovest e del Nord Est: nel 2016 hanno pendolato con la Capitale 22 mila
laureati contro i 16 mila del Nord Ovest. La condizione transitoria di
pendolare corrisponde a un progetto di vita incompiuto e non elaborato
pienamente, in fondo non hanno ancora deciso se restare, andare
all’estero o tornare nel Mezzogiorno. Un limbo causato anche da un
mercato del lavoro diventato più precario e frammentato. È comunque la
strutturale carenza di occasioni di occupazione qualificata nel Sud a
rappresentare, secondo gli analisti, la causa prima negli anni 2000 di
questi flussi di pendolarismo. «Si sono ristretti gli spazi
occupazionali nella pubblica amministrazione alle prese con problemi di
budget e risulta del tutto insufficiente la presenza di imprese di
medio-grande dimensione e dei servizi avanzati in grado di assumere
personale di livello elevato. Manca la domanda» sostiene Provenzano. La
perdita di tali professionalità diventa doppiamente penalizzante,
determina il fallimento economico dell’investimento formativo (i costi) e
il venir meno di energie e di competenze necessarie per far partire nel
Sud un processo di sviluppo stabile e adeguato alle dimensioni
demografiche dell’area. «Il calcolo del costo della formazione persa è
presto fatto: se prendiamo il saldo negativo di 200 mila laureati
accumulato dal 2002 al 2015 e lo moltiplichiamo per la media Ocse delle
risorse necessarie per formare un giovane fino alla laurea, viene fuori
una cifra-monstre di 30 miliardi» chiude Provenzano.
La riforma
È
chiaro che si parla di dinamiche di lungo periodo ma può essere utile
capire cosa ne pensa il governo in carica che ha ripristinato il
ministero per il Mezzogiorno affidandolo a Claudio De Vincenti. Il
ministro non è pessimista sulla tenuta del sistema universitario
meridionale. «Le università che hanno saputo realizzare un alto livello
di docenza e hanno gettato le reti per una collaborazione con le imprese
riescono ad essere attrattive. E non è vero che un sistema di
premialità penalizzi necessariamente il Sud». Il governo Gentiloni ha
varato una riforma del fondo di finanziamento ordinario «per tener conto
degli elementi di oggettivo svantaggio, come reddito pro-capite e
accessibilità territoriale, che penalizzano le università del Sud, ma
abbiamo lasciato la premialità perché costituisce un incentivo a
migliorarsi». Sia chiaro, sottolinea De Vincenti, che il Mezzogiorno per
poter ripartire veramente avrebbe bisogno di un ciclo di ripresa
economica «lungo e strutturale». Quanto agli sbocchi di occupazione
qualificata che la pubblica amministrazione potrebbe tornare a fornire
De Vincenti precisa: «L’amministrazione deve partire dalle sue esigenze
di innovazione e solo come conseguenza determinare le sue politiche di
reclutamento, se invertiamo questo processo finiamo per utilizzare lo
Stato come ammortizzatore sociale e non va bene».