martedì 3 ottobre 2017

Il Fatto 2.10.17
I profughi assistono i malati psichici
di Chiara Daina

Una pillola non salva mai nessuno dai mostri. Quello che conta di più nel percorso di recupero di una persona affetta da disturbi mentali è la relazione, con gli altri e con se stessi. Da tre anni a Trento funziona un modello di convivenza unico nel suo genere tra malati psichiatrici e profughi voluto dal Comune e dal Servizio di salute mentale. I numeri fanno ben sperare: 72 persone coinvolte nel 2015 tra accolti e accoglienti e 135 nel 2016.
Lo scopo è duplice: dare un tetto e un lavoro agli immigrati e garantire accoglienza e assistenza a pazienti difficili. Lo straniero non è che deve diventare un badante, può spendere soltanto qualche ora alla settimana con il paziente oppure abitarci assieme ma continuando a mantenere i suoi spazi di libertà. Deve seguire un corso di formazione di 60 ore e un tirocinio di due mesi. E il compenso che riceve varia dai 250 ai 750 euro al mese. L’asl alla fine ci risparmia: il costo del paziente all’anno si riduce a 8mila euro contro i 48mila della comunità e i 125mila del ricovero in ospedale.

Il Fatto 2.10.17
Hanno distrutto i nostri valori
Futuro della sinistra. Insieme o contro il Pd?
di Tomaso Montanari

Antonio Padellaro scrive che se la sinistra non sarà rappresentata nel prossimo Parlamento, i responsabili faranno “bene a espatriare”. Sono d’accordo: è per questo che, il 18 giugno scorso, ho lanciato – al Teatro Brancaccio, con Anna Falcone e quasi duemila persone – un appello per “una sola lista a sinistra”.
Ma non parliamo della stessa “sinistra”. Padellaro è convinto che il Partito democratico ne faccia parte, e che le divisioni dentro e fuori quel partito siano tutte imputabili alle “inimicizie personali” di Matteo Renzi e ai simmetrici personalismi dei troppi leader che si contendono il “comando”. Ma se c’è una cosa che appare chiara proprio leggendo il Fatto Quotidiano è che il Pd è un partito che da tempo non ha nulla a che fare con la sinistra: esso ha invece preso il posto della vecchia Democrazia cristiana, senza averne tuttavia la cultura né una sinistra interna altrettanto efficace e preparata. È il partito del potere: perché ha inteso il potere come un fine. L’unico.
L’Italia così com’è (segnata dalla massima crescita europea della diseguaglianza, Regno Unito escluso) è un prodotto del Pd, che – insieme ai partiti di cui è erede, nella formula del centrosinistra – ha governato più a lungo di Berlusconi. Lo smontaggio dello Stato, la distruzione del pubblico e la negazione sistematica di pressoché tutti i principi fondamentali della Costituzione sono da imputare al Pd almeno quanto a Forza Italia.
Arrivati a Renzi, il problema non è stato il “personalismo” (pure odiosamente pervasivo): ma la definitiva distruzione dei diritti dei lavoratori (Jobs act), la spallata finale alla scuola pubblica (la Buona scuola), la mazzata inflitta all’ambiente (lo Sblocca Italia di Maurizio Lupi), la mercificazione completa del patrimonio culturale e la fine della tutela (la “riforma” Franceschini) e via elencando. Con Minniti, poi, siamo arrivati all’eradicazione dell’articolo 10 dalla Costituzione e a una politica securitaria per la quale i militanti di Fratelli d’Italia e Lega si spellano le mani. Un partito che blocca lo Ius soli mentre approva un maxi-condono per l’abusivismo edilizio: è questo il Pd.
A “espatriare” farebbe bene una sinistra pronta a sostenere e prolungare tutto ciò. Votare Pd per fermare la destra vuol dire ripetere l’errore di chi era convinto che la visione di Sanders fosse utopica e minoritaria e ha imposto la Clinton in nome del “realismo”: sappiamo com’è finita. Fermare la destra facendo la politica della destra serve solo a rinviare lo schianto finale, rendendolo ancora più devastante.
In tutta Europa sono nati movimenti radicali di sinistra (che usino o meno questa parola nel loro nome), che contestano alla radice lo stato delle cose e le politiche di centrosinistra degli ultimi vent’anni, rigettano il dominio della finanza sulla politica e rivendicano il diritto di governare puntando al “pieno sviluppo della persona umana” e non obbedendo al mercato. Tutti partiti meno “a sinistra” di papa Francesco, sia chiaro: tanto per dire quanto sia insensato parlare oggi di “centrosinistra” sul piano culturale.
Manca quasi solo l’Italia, e spero che il percorso del Brancaccio possa – con il tempo che ci vorrà – generare qualcosa di simile. Ma un simile progetto non può certo iniziare sostenendo gli alfieri dello stato delle cose. Alle prossime elezioni ci saranno tre, diverse, destre: quella padrona del marchio, i 5stelle di Di Maio e il Pd di Renzi. Una sinistra che voglia rovesciare il tavolo dello stato delle cose non può allearsi con nessuna delle tre.
E i numeri? Si può decidere di rivolgersi solo al 50% che vota, o decidersi finalmente a parlare all’altra metà del Paese, con un linguaggio nuovo e radicale. È la metà riemersa il 4 dicembre, determinando la vittoria del No: laddove i flussi elettorali dimostrano che l’85% dei votanti Pd ha scelto il Sì.
Siamo, dunque, a una scelta di campo. L’oracolare Giuliano Pisapia ha infine detto che sarà al fianco del Pd, mentre MdP deve ancora decidere: tutti gli altri vogliono un quarto polo. Non so come finirà: ma se ci si divide tra chi vuole lasciare tutto così com’è, e chi vuole invertire la rotta non è uno scandalo, è onestà intellettuale. Lo scandalo è non averlo fatto prima: oggi saremmo al 20 per cento. O al governo.

Corriere 2.10.17
Al posto di «dopo cristo» mettere «era comune»? una miope provocazione
di Pierluigi Battista

Negli Stati Uniti la Corte Suprema sta per deliberare su complesse questioni che riguardano la parità delle religioni e l’incidenza sulla sfera pubblica di comportamenti e costumi che derivano da credenze religiose plurali e talvolta confliggenti tra loro. In Gran Bretagna si rischia di procedere con molta più brutalità, onorando un codice del politicamente corretto che fa della battaglia sulle sigle, sulle parole, sui modi di dire, sui calendari, sulle festività, sui programmi scolastici altrettanti campi di esercitazione di una guerra infinita e soprattutto senza limiti.
Ora per esempio le autorità scolastiche del Sussex stanno decidendo di cassare la sigla BC che tradizionalmente organizza il calendario a partire dalla nascita di Gesù Cristo per sostituirla con un più neutro, incolore, indeterminato BCE. E cioè nei libri di scuola non dovrebbe più apparire «prima di Cristo» che appunto viene indicata con la sigla BC, ma Prima dell’Era Comune (e direttamente Era Comune per designare il Dopo Cristo). E tutto questo per non «offendere» gli scolari che appartengono ad altre religioni, anzi in particolare a una: alla religione musulmana, perché le organizzazioni inglesi della comunità ebraica non intendono scatenare la guerra santa sulla suddivisione tradizionale del tempo del calendario.
Ovviamente la proposta scatenerà polemiche, discussioni, voglia di rappresaglie lessicali. Ancora più aspre delle polemiche sui presepi da allestire nelle scuole, sulla presenza dei crocefissi in classe, sulla celebrazione pubblica delle festività religiose e così via. Un copione già scritto. Una distorsione mentale già collaudata. In definitiva una provocazione che con il rispetto di tutte le religioni ha poco in comune, ma che invece esaspera gli animi, produce reazioni difensive smisurate. Una provocazione decisamente ridicola. Ma è già successo che dal ridicolo scaturiscano guerre e tragedie. Prima e dopo Cristo.

Il Fatto 2.10.17
Bersani baratta il Def col Rosatellum
Il messaggio - Mdp e Pisapia a Gentiloni: “Per far passare la nota devi venirci incontro”
di Tommaso Rodano

Pier Luigi Bersani stavolta non si affida a metafore, parla molto chiaramente: “Gentiloni non pensi di avere una maggioranza sulla legge di stabilità e un’altra sulla legge elettorale”. Il governo ha bisogno dei voti di Mdp-Articolo Uno per far passare la nota di aggiornamento al Def (domani) e la legge di bilancio (più avanti). I bersaniani vogliono vendere cara la pelle: il prezzo è la legge elettorale, quel Rosatellum che sembra scritto apposta per trasformare in deserto le praterie alla sinistra del Pd.
Ieri una delegazione di Mdp ha incontrato Gentiloni a Palazzo Chigi. La novità è che a guidarla c’era Giuliano Pisapia: un piccolo passo avanti nel lentissimo percorso unitario del nuovo centrosinistra.
L’ex sindaco ha consegnato al premier una serie di richieste comuni su lavoro e salute, ovvero le condizioni politiche per avere i voti di Mdp (e dei pochi soldati di Pisapia in Parlamento) sulla nota di aggiornamento del Def, che va in aula domani. I termini sono stati resi noti da Pisapia a margine dell’incontro, durato circa un’ora: “Abbiamo posto qualche priorità indispensabile: che la legge di bilancio non abbia più mance elettorali come già successo troppe volte in passato; che si intervenga con serietà e con investimenti importanti sul tema del diritto alla salute (per esempio con l’abolizione del superticket, ndr). E che ci si occupi di lavoro: ci devono essere nuove assunzioni e nuovi investimenti, ma anche tutela dei lavoratori”. A sinistra, al di là della disponibilità di massima mostrata da Gentiloni, non si aspettano grandi sorprese: la coperta dei conti è corta, i numeri del Def saranno spiegati oggi dal ministro dell’Economia Padoan in audizione al Senato.
Anche se non dovessero essere ascoltate le richieste di Pisapia e compagni, nessuno è ancora disposto a far saltare il banco. L’ha detto domenica Roberto Speranza a Napoli, l’ha ripetuto ieri lo stesso Bersani: “Non saremo noi a far arrivare la Troika, ci sono varie tecniche… (parlamentari per non mandare sotto l’esecutivo, ndr)”.
Al Senato gli ex Pd ne dovranno escogitare almeno due. Oltre al voto sul Def, dove non è necessaria la maggioranza assoluta, il governo chiederà l’autorizzazione a sforare la regola del pareggio di bilancio, nei termini concordati con Bruxelles (ovvero portare il deficit nel 2017 dall’1,2 all’ 1,6%).
In questa seconda votazione servirà la metà più uno degli eletti: 161 senatori; il comportamento dei 16 di Mdp sarà decisivo. Troveranno una “tecnica”, per dirla alla Bersani, per esprimere il proprio dissenso senza far naufragare la nave. E la trattativa con Gentiloni sulla legge elettorale si sposterà un po’ più in là.

Il Fatto 2.10.17
C’è la Fedeli alla Festa Pd: gli studenti lavorano gratis in cambio di “crediti”
A Viterbo - Ecco l’alternanza scuola-lavoro ai tempi della ministra democratica
di Francesca Fornario

“Urgentissimo, mi servono dieci ragazzi disponibili e con la divisa completa da sala per una manifestazione importante a Viterbo con la presenza della ministra dell’Istruzione. Ci sarò anche io, la sera del 09 Settembre. Ricordatevi che passano come crediti formativi e potrebbe esserci anche un rimborso spese”. Così recitava il post scritto da Riccardo Minciotti, docente dell’Istituto Ipsea di Caprarola, sulla pagina Facebook della scuola. Omettendo un dato: la “manifestazione importante” è la festa del Pd. Alla vigilia dell’evento importante, il professore rincara la dose: “Domani sera cerco con estrema urgenza personale di sala, anche ragazzi di cucina che hanno la divisa di sala, è importante essere presenti. La dirigente chiede la partecipazione”.
Sollecitati da queste pressioni, allettati forse dal rimborso spese che poteva esserci e ovviamente non c’è stato, sei minorenni in divisa da cameriere vengono cooptati al ristorante della festa del Pd, al posto dei volontari che una volta mandavano avanti le feste dell’Unità e che oggi devono aver perso la volontà. Tanto che, anche a Genova, il partito aveva fatto ricorso agli studenti in alternanza scuola lavoro per servire ai tavoli dei ristoranti della festa Pd. Si allunga così la lista dei minorenni messi a lavorare gratis – “Sono attività formative!”, precisano ogni volta i docenti degli istituti – costretti a fare le fotocopie all’anagrafe di Campobasso, a raccogliere le cozze a Messina, a pulire i cessi a Ragusa, a portare i lettini ai clienti di una piscina-vip a Parma, a fare camerieri, in 2.700, nel vicentino e via, così per un milione e mezzo di studenti in alternanza scuola-lavoro ai quali la riforma renziana della scuola impone 200 ore obbligatorie – 400 per gli iscritti agli istituti tecnici e professionali – di “percorso formativo”.
La denuncia, questa volta, è partita dai “Partigiani della scuola pubblica”, un gruppo che raccoglie docenti sparsi in tutta Italia e che la sera dell’evento importante ha tentato di confrontarsi con la ministra Fedeli.
È tutto regolare, replica la dirigente scolastica Andreina Ottaviani: “Gli studenti dell’istituto partecipano da anni ad iniziative ed eventi, sempre gratis. Non hanno partecipato alla festa del Pd ma presenziato all’intervento istituzionale del Ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli”, incidentalmente del Pd, incidentalmente intervenuta alla festa Pd. “Un intervento istituzionale può legittimamente definirsi tale se avviene in contesto istituzionale, tale non è una festa di partito con pubblico accuratamente selezionato come quella in questione”, osservano però i Partigiani della scuola pubblica.
L’Italia è l’ultima in classifica tra i paesi europei che investono in istruzione: 4.300 euro l’anno per studente contro i 6.200 della Germania e i 21mila della Svezia. Dei milioni investiti dal governo, 100 vanno a finanziare l’alternanza scuola-lavoro. Paghiamo coi soldi pubblici la formazione dei docenti che spediscono gli studenti a lavorare gratis per enti e imprese private, sottraendo, nelle migliaia di casi emersi, posti di lavoro retribuito ad altrettanti lavoratori. Poi ci lamentiamo della disoccupazione e dell’analfabetismo funzionale che colpisce, secondo l’Ocse, 3 italiani su 4: persone che a scuola hanno imparato a leggere, ma non a comprendere il senso di quello che leggono, sia che si tratti dell’editoriale di un giornale che del libretto di istruzioni di un elettrodomestico. L’Italia è penultima in Europa e quartultima al mondo sui 33 paesi analizzati dall’Ocse, avanti solo a Indonesia, Turchia, Cile.
La ministra Fedeli ha rifiutato di avvicinarsi ai docenti-partigiani che protestavano a pochi metri dai cancelli della festa Pd e che le avevano chiesto un incontro. Si è fatta fotografare al fianco degli studenti vestiti da camerieri. Tra i temi al centro del dibattito della festa spicca il seguente: “Formazione e lavoro. La sfida dell’occupazione”.

La Stampa 2.10.17
Pisapia abbraccia Gentiloni e non ostacola la manovra
Primo vertice da leader. Mdp chiede una svolta sui ticket sanitari
di Fabio Martini

Entrando a metà mattina nello studio del presidente del Consiglio, Giuliano Pisapia ripropone un gesto per lui naturale: vede Paolo Gentiloni e lo abbraccia. Certo, i due condividono uno stile da gentleman, prerogativa rara nella politica domestica. Ma quell’affettuoso incipit «a fari spenti» corrisponde anche a un interesse reciproco. L’ex sindaco di Milano, per la prima volta in sette mesi da quando è stato chiamato a far da capofila dell’area alla sinistra del Pd, entra nel Palazzo come portavoce di tutta un’area. È il suo primo giorno da leader. E quanto al presidente del Consiglio, sa bene che cadere sulle legge di Stabilità - o portarla a compimento per il rotto della cuffia - ne appannerebbe l’immagine e le ambizioni future. Gentiloni ha bisogno dei voti dell’area di sinistra per la Finanziaria e soprattutto per l’aggiustamento di bilancio al voto domani al Senato, mentre Pisapia ha bisogno di portare a casa un qualche «scalpo» per impedire alla sua area di fare quel che l’ex sindaco ritiene intollerabile: far cadere il governo.
Da questo punto di vista l’incontro tra il presidente del Consiglio e l’area Pisapia-Mdp - preparato dagli sherpa - è andato bene. Non benissimo perché il voto dei parlamentari alla sinistra del Pd, a dicembre sulla manovra, non è affatto scontato e dipende dalla trattativa che si aprirà nei prossimi giorni. Ma il primo, palpabile effetto dell’incontro Gentiloni-Pisapia - la vera novità - si avrà domani: in Senato si voterà l’autorizzazione allo scostamento di medio termine dal deficit, che richiede la maggioranza assoluta (161 voti) e dunque senza i parlamentari di Mdp non passerebbe. Uscendo, Pisapia ha spiegato che il voto «lo decideranno i gruppi parlamentari dopo aver sentito il ministro Padoan». Ma nella sostanza il sì dei senatori di Mdp di fatto è acquisito. E se così sarà, per Gentiloni sarebbe il viatico verso l’approdo finale, visto che la legge di Stabilità può essere approvata a maggioranza semplice, anche senza i voti di Mdp.
Certo, con l’area di sinistra la trattativa è tutta da inventare e nell’incontro c’è stato uno scambio sulle generali, senza entrare nel merito. Certo, Pisapia e i due capigruppo parlamentari Mdp, Francesco Laforgia e Maria Cecilia Guerra, hanno dispiegato un ventaglio di proposte, a cominciare da quella più comprensibile in termini di immagine: «Milioni e milioni di persone non possono curarsi a causa del super ticket», ha spiegato l’ex sindaco. Una misura che - avevano preavvisato da palazzo Chigi - molto difficile da realizzare, visto che ha un costo di quasi 800 milioni. Una posta che finirebbe per mangiarsi quasi tutta la quota in uscita che invece il governo intende investire soprattutto nella decontribuzione per le assunzioni degli under 29.
Una trattativa che comprenderà indirettamente anche la legge elettorale. Su questo Pier Luigi Bersani, leader di Mdp, ha detto a Radio Radicale: «Pensate di avere una maggioranza sulla Finanziaria con noi e un’altra sulla legge elettorale con Silvio Berlusconi e la Lega?». Apparentemente un ultimatum, in realtà una rivendicazione logica, visto che Mdp, sia pure con un quotidiano mal di pancia, fa parte della maggioranza, mentre Forza Italia e Carroccio sono all’opposizione.

Il Fatto 2.10.17
I pm: “Woodcock e Sciarelli innocenti su fuga di notizie”
Chiesta l’archiviazione anche per “falso”. Erano accusati di aver rivelato l’indagine al vicedirettore del Fatto Lillo
di Valeria Pacelli

Non ci sono riscontri né per il reato di falso né per la rivelazione di segreto d’ufficio. Le accuse al pm Henry John Woodcock devono essere archiviate. E lo chiedono i magistrati romani Paolo Ielo e Mario Palazzi che, dopo aver fatto tutti gli accertamenti, ieri hanno depositato la richiesta di archiviazione per il filone dell’indagine Consip in cui era indagato Woodcock. Sarà il gip a decidere se condividere la tesi dei magistrati.
La ricerca della fonte
Sono due i reati che venivano contestati al magistrato partenopeo: il concorso in falso e la rivelazione di segreto d’ufficio per la fuga di notizie realizzata con l’articolo del Fatto che svelava l’inchiesta Consip il 21 dicembre 2016 a firma Marco Lillo. Nei due giorni seguenti è sempre Lillo a rivelare l’iscrizione del comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Tullio Del Sette, e poi anche quella del ministro dello Sport Luca Lotti, entrambi accusati di rivelazione di segreto.
Secondo l’iniziale impostazione della Procura, il pm napoletano avrebbe passato, attraverso la conduttrice di Chi l’ha visto? Federica Sciarelli (indagata anche lei per rivelazione di segreto), notizie a Lillo che ha sempre negato questa circostanza. Anche per la Sciarelli ieri è stata depositata la richiesta di archiviazione. In questo caso i pm avevano in mano due elementi. Il primo riguarda i cellulari di Lillo e di Sciarelli che il 20 dicembre agganciano la stessa cella telefonica nei pressi di piazza Mazzini a Roma. Circostanza dovuta al fatto che la sede lavorativa della Sciarelli e l’abitazione di Lillo sono nella stessa zona.
Altro elemento sono i contatti telefonici tra i due sempre del 20 dicembre. Quel giorno Lillo scrive il primo articolo sulle perquisizioni in Consip e sul ruolo di Tiziano Renzi nell’indagine (poi indagato a Roma per traffico di influenze) che verrà pubblicato sul Fatto il giorno dopo.
Come ha spiegato in un articolo, il vicedirettore del Fatto, dopo aver avuto la notizia per altri canali, chiama Federica Sciarelli solo per sapere dove si trovasse Woodcock, per avere un ulteriore riscontro della sua presenza a Roma. La giornalista richiama Lillo e gli dice che il pm le aveva detto che non era nella capitale. Interrogata, la Sciarelli nega di aver riferito cose diverse a Lillo e questa versione viene confermata anche dai messaggi ritrovati nel cellulare della giornalista, che è stato sequestrato.
Anche Woodcock durante l’interrogatorio del 7 luglio nega di essere la fonte di Lillo e ricostruisce davanti ai colleghi tutti gli spostamenti fatti il 20 dicembre. Quel giorno riceve una telefonata da Gianpaolo Scafarto e arriva a Roma solo alle nove di sera. Qui incontra il maggiore del Noe in un bar di piazza Irnerio. Viene a sapere così che l’ex ad di Consip Luigi Marroni aveva iniziato a parlare. Poco tempo dopo si recano alla sede del Noe e continuarono l’interrogatorio.
Quella sera Woodcock torna a Napoli, il giorno dopo indaga Del Sette e Lotti per rivelazione e rientra a Roma per consegnare personalmente gli atti ai colleghi, ai quali è arrivato il fascicolo per competenza. Non c’è quindi in questa ricostruzione un solo momento in cui il pm napoletano possa aver avuto contatti con Lillo. Dopo aver fatto i dovuti accertamenti anche la Procura di Roma ne è convinta. Lillo intanto continua a essere indagato per pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale.
La telefonata del maggiore
L’altro reato che veniva contestato al pm napoletano era il concorso in falso con Scafarto, intanto accusato di aver falsificato atti dell’inchiesta Consip ma anche di aver rivelato elementi dell’indagine a due ex colleghi al Noe, poi passati all’Aise, i servizi segreti esteri. L’innesco dell’iscrizione nel registro degli indagati è stata una telefonata del maggiore che tirava in ballo il pm.
Tra i falsi contestati a Scafarto c’era la parte dell’informativa depositata il 9 gennaio che riguardava i servizi segreti. In un capitolo parla dei sospetti su alcune persone presenti davanti agli uffici della Romeo Gestioni durante le attività del Noe. Gli accertamenti, però, smentiscono questa ipotesi. Nonostante ciò, nell’informativa Scafarto continua a parlare di 007. Al telefono con un collega nei mesi successivi il maggiore fa riferimento a questa vicenda, tirando in ballo Woodcock. Su questo elemento si basa l’iscrizione del pm. Che il 7 agosto spiega come sono andate le cose.
In sostanza dice di esser stato lui a suggerire di fare un capitolo apposito sui servizi segreti, ma non poteva sapere che gli accertamenti fatti avevano escluso la presenza di 007. Insomma è impossibile, ha spiegato Woodcock, verificare tutte le intercettazioni e gli atti della polizia giudiziaria. Si era fidato di quanto gli riferivano.
Se quindi si vede la fine di questa spiacevole vicenda giudiziaria, per il magistrato partenopeo resta la grana del Csm: la prima commissione ha aperto una pre-istruttoria che riguarda come sia stata condotta non solo l’indagine Consip, ma anche quella Cpl Concordia. Anche la richiesta di archiviazione di Woodcock è finita ora nel fascicolo al Consiglio superiore della magistratura.

Corriere 2.10.17
I pm: niente prove sul segreto violato, archiviazione per Woodcock e Sciarelli
Inchiesta Consip, la richiesta della Procura di Roma per il magistrato e la giornalista
di Giovanni Bianconi

ROMA L’inchiesta a carico del pubblico ministero napoletano Henry John Woodcock e della giornalista Federica Sciarelli per la fuga di notizie sull’ affair e Consip avvenuta a dicembre scorso sulle pagine del quotidiano Il Fatto va archiviata perché «non ci sono elementi per ascrivere agli indagati la propalazione delle notizie coperte da segreto». La Procura di Roma è giunta a questa conclusione dopo sei mesi di accertamenti, e ha trasmesso la sua richiesta al giudice dell’indagine preliminare ma anche al Consiglio superiore della magistratura, alla Procura generale della Cassazione e al ministero della Giustizia. Per Woodcock cade anche l’accusa di falso in cui l’ha coinvolto l’ex capitano dei carabinieri del Noe Gianpaolo Scafarto, quando ha detto — intercettato — che denunciare il presunto interessamento dei Servizi segreti al loro lavoro era stata «una scelta investigativa condivisa» con il pm.
Il fascicolo su Woodcock era stato aperto dopo i primi controlli sul telefono del giornalista Marco Lillo, autore degli articoli in cui si svelava che il comandante dell’Arma dei carabinieri e il ministro Lotti erano inquisiti (insieme ad altri) per il sospetto di aver rivelato ai vertici Consip l’esistenza di un’inchiesta sugli appalti truccati. Una «rivelazione di segreto d’ufficio» consumata nelle stesse ore in cui i nomi degli indagati venivano iscritti sull’apposito registro e gli atti venivano trasmessi per competenza dalla Procura di Napoli a quella di Roma. Nello stesso lasso di tempo sono comparse le tracce delle telefonate tra Lillo e Sciarelli, e di contatti tra Sciarelli e Woodcock. Nessuno, però, tra Woodcock e Lillo, e dai tabulati non risultava che il pm e la sua amica fossero insieme mentre Lillo chiamava lei.

L’articolata richiesta di archiviazione serve anche a giustificare la inedita iniziativa della Procura di indagare il pm e sequestrare il telefono della Sciarelli, sul quale era necessario cercare eventuali messaggi con Lillo, nell’ipotesi di una «triangolazione» delle notizie uscite sul giornale. Ma sull’apparecchio non sono stati trovati contatti nel periodo d’interesse; prima e dopo sì, ma non nei giorni utili all’inchiesta, non si sa se cancellati o meno, né (eventualmente) quando. Nel suo interrogatorio Federica Sciarelli ha sostenuto che Lillo, il giorno in cui scrisse l’articolo, la chiamò per chiederle se avesse notizie sulla presenza di Woodcock a Roma; ha spiegato di non aver avuto alcun ruolo nella fuga di notizie, e di non aver nemmeno riferito al magistrato che il suo collega lo stesse cercando.
Ulteriori verifiche non hanno consentito di acquisire elementi che potessero provare il coinvolgimento del pm e della sua amica nella «soffiata» al Fatto , però sarebbero emersi elementi utili a proseguire l’indagine in altre direzioni. Quanto al falso, agli atti restano solo le telefonate intercettate in cui Scafarto diceva ai suoi interlocutori che sarebbe stato lo stesso Woodcock a condividere la scelta di non scrivere nel rapporto finale che gli accertamenti sull’interessamento dei servizi segreti all‘inchiesta Consip avevano dato esito negativo. Quando è stato chiamato a spiegarle l’ufficiale dell’Arma s’è rifiutato di rispondere, mentre Woodcock ha spiegato di non aver condiviso alcuna omissione. È vero che suggerì di fare un capitolo a parte sul presunto coinvolgimento dei Servizi, ma senza entrare nel merito di quello che bisognava scrivere o tacere; tantomeno ordinando di non inserire i riscontri negativi. Di qui la seconda richiesta di archiviazione.

Il Fatto 2.10.17
Ma non tutti sono come Renzi
di Antonio Padellaro

Sulla sinistra (ancora) possibile, Tomaso Montanari riesce a dire e a scrivere cose che restituiscono speranza. Poi però esiste la dura realtà quotidiana che la buona politica può certo trasformare, non prima però di aver compreso. Mi limito al dato citato a proposito del Referendum costituzionale: pur avendo la riforma imposta da Matteo Renzi “straperso” nel Paese, l’85% dei votanti Pd ha scelto il Sì.
Dunque la domanda è: assodato che per tutte le ragioni esposte da Montanari il renzismo è il degno erede del berlusconismo, come mai pur avendo perso per strada larghe fette di consenso quel Pd continua a ricevere i voti di tanti milioni di italiani? Eredi del berlusconismo anch’essi? Tutti democristiani di ritorno? Tutti che, come le famose scimmiette, preferiscono non vedere e non sentire pur di continuare a subire gli effetti delle diseguaglianze e della distruzione progressiva della cosa pubblica? Come cronista del Corriere della Sera, poi come direttore dell’Unità ho conosciuto quel mondo: anche se qualche anno è trascorso sono convinto che, al di là di un ceto politico spesso impresentabile, nella base di iscritti ed elettori esso resti una realtà largamente ancorata ai valori fondanti della sinistra. Paradossalmente anche a quelli che il renzismo non ha fatto altro che rinnegare. Allora perché diavolo restano nel Pd invece di procedere a quella “scelta di campo” che nel loro stesso interesse sembrerebbe inevitabile? Non lo fanno, caro Montanari, perché non si fidano. Né dei Cinque Stelle, per molte delle ragioni su cui sicuramente concordiamo. Ma neppure intendono dare ascolto a coloro che a nome della sinistra dicono di parlare dando tuttavia di quella stessa sinistra un’immagine fumosa, rissosa e alla fine politicamente ininfluente. E allora, in mancanza di meglio prendono quello che c’è. “Parlare all’altra metà del Paese con un linguaggio nuovo e radicale” è un progetto entusiasmante a cui auguro di cuore le migliori fortune.
Nel frattempo, per affrontare quella dura realtà quotidiana sempre più stretta tra il ritorno della destra e l’incognita pentastellata suggerirei di compattare “quello che c’è”. Magari dialogando con chi nel Pd pensa di rappresentare molte delle cose di sinistra di cui tu parli, per nulla rassegnato a lasciare le cose come stanno.
Non provarci, considerare il Pd un partito perduto alla causa, significa fare soltanto il gioco di Renzi. Ne vale davvero la pena?

Il Fatto 3.10.17
L’allenatore e la bambina: la violenza non è “amore”
Con la scusa del volley - Lui ha 66 anni, lei ne ha 12. Dopo l’arresto si giustifica: “Non potete capire, era in cerca di affetto”. E sui social trova chi lo sostiene
di Selvaggia Lucarelli

“Come potevo non essere tranquilla sapendo che mia figlia andava in palestra?”. È questa la domanda che toglie il sonno e il respiro a L., una mamma della Valdinievole, che il 13 settembre ha avuto la conferma dei suoi dubbi più spaventosi: la sua bambina di 12 anni aveva una storia con l’allenatore di volley, 66 anni. Anzi, “una relazione sessuale sfociata nella consumazione di rapporti sessuali”, secondo la questura. Che poi, con il rispetto dovuto a chi ha condotto le indagini, è un modo per edulcorare una verità che fa male a questa mamma, soprattutto, ma fa male anche a tutti noi che affidiamo i nostri figli a ragazzi e uomini che non hanno solo un fischietto e una tuta da ginnastica. Hanno la nostra fiducia. E poi ascendente, fascino, carisma, per i nostri bambini.
“Voi non potete capire, era in cerca di affetto”, si è giustificato lui, dopo l’arresto. Come a dire che altrove lei non ne riceveva abbastanza. Come a voler mascherare le sue pulsioni per una bambina da atto misericordioso. Della serie: in casa sono freddi, io le dono affetto abbassandole le mutandine. “Sui giornali è stato lasciato spazio alle affermazioni di un pedofilo che parla di una ‘relazione’ e di ‘amore’ con una bimba che di anni ne ha 12 e che li ha compiuti da qualche mese. Prima erano solo 11. Come si fa?”, si domanda legittimamente sua mamma, continuando a ripetere che per lei e suo marito l’allenatore era una persona di fiducia. Al punto che, quando hanno notato che la bimba e il suo allenatore mantenevano una corrispondenza fuori dalla palestra, non è scattato alcun allarme. Poi, col tempo, la bambina ha iniziato a diventare più ombrosa. A litigare, a chiudersi.
L. si è allora rivolta a una psicoterapeuta. Voleva capire se quella corrispondenza tra la sua bambina e l’allenatore fosse sana, normale. “No che non è normale”, le ha risposto la psicoterapeuta. “Anche se innocente, è qualcosa di squilibrato. Voi dovete essere i mediatori tra lei e il suo allenatore”.
A quel punto L. e suo marito cominciano a fare quello che i genitori hanno il dovere di fare quando i figli sono ancora troppo piccoli per difendersi dal mondo, per possedere dei codici per decifrarlo, per filtrare gli accadimenti con la giusta maturità emotiva: controllano. Passano al setaccio telefono, computer, diari. Non trovano le prove schiaccianti dei loro sospetti, ma notano un’ambiguità in qualche passaggio. Sentono che qualcosa non torna. Che l’accesa conflittualità della loro bambina non è solo un sintomo della pre-adolescenza. Decidono di andare da un avvocato, che ascolta la vicenda e li spinge a dare il via a investigazioni più approfondite sul pc e sul telefono della dodicenne. E le paure più drammatiche dei due genitori trovano atroci conferme. Lui non era l’allenatore. Non era il suo punto fermo fuori casa. Non era l’uomo in tuta che la sgridava perché il bagher era impreciso o la lodava per una schiacciata potente. Era “il lupo”. Così lo definisce L. quando parla di lui in una dolorosa lettera che ha inviato ai giornali.
Nella chat sul telefono della bambina c’era il sunto di questa triste vicenda. Di questa “relazione sentimentale sfociata in relazione sessuale”, come dice il questore. Ma L. non accetta questa lettura dei fatti: “Ha plagiato e manipolato la mia bimba fino a farle credere che solo il suo fosse amore. Noi genitori non eravamo abbastanza, la sorella nemmeno, le amiche fuori dalle balle, troppo rischioso”. Ecco il perché di quei conflitti improvvisi, di quei silenzi, di quelle ombre. Ecco perché di fronte alle parole di chi la definisce “relazione sentimentale” o dell’allenatore che parla di “affetto”, lei diventa una furia: “Come può esserci parità di sviluppo cognitivo e sessuale fra una bambina di 11/12 anni e un sessantaseienne? Per di più nel ruolo di educatore? Si è lasciato spazio sui giornali, alle dichiarazioni di un pedofilo, leggo commenti su Facebook di chi lo difende, di chi lo giustifica, di chi dice che se si amano non c’è violenza!”.
Perché sì, su Facebook, i commenti di chi coglie una sfumatura romantica nella vicenda ci sono eccome. Il mito della Lolita è più affascinante e più assolutorio della favola del lupo cattivo. In fondo, se chissà, magari, erano consenzienti le due americane a Firenze, potrebbe esserlo anche questa bambina che a undici anni forse era un po’ più sveglia delle coetanee. Chissà con che pantaloncini si presentava in campo. Chissà come ammiccava, pure lei, sulla chat. Perché questi, diciamolo ad alta voce, sono i pensieri sottintesi di chi scrive che tra una undicenne e un sessantaseienne poteva essere amore. Che poi i rapporti sessuali tra una dodicenne e un uomo di 54 anni più vecchio di lei siano vietati dalla legge e considerati a tutti gli effetti pedofilia, per molti trogloditi conta poco. Era una storia di abuso tra un anziano signore e una bambina, altro che amore, sentimenti, cuoricini. Altro che amor platonico. A un certo punto, come emerso dalla lettura delle chat e dalle successive intercettazioni telefoniche e ambientali, c’era perfino il timore che lei fosse incinta. “Non era lei ad aver paura di essere incinta, ma lui. Perché, mentre lei stava ferma immobile, lui la toccava dopo essersi toccato. È la mia bambina! Nessuno ha pensato alla paura e alla vergogna?”, dice L., con la disperazione di chi oltre al dolore deve subire la solita gogna delle insinuazioni sulla presunta complicità della vittima. Pure se la vittima ha 12 anni. Pure se è ancora nell’età delle Barbie e dei videogame. Pure se il carnefice potrebbe essere suo nonno.
“Non potete capire…”, ha dichiarato l’allenatore a chi lo ha interrogato. È vero, non possiamo capire. E non solo il fatto di aver privato una ragazzina della sua infanzia, di aver sfogato su di lei le pulsioni schifose di un uomo coi capelli bianchi. Non capiamo, soprattutto, come abbia potuto, questo essere ignobile, scomodare la parola “amore”.

il manifesto 3.10.17
I costituzionalisti contro Rosatellum e sistema attuale
Legge elettorale. Ieri l'assemblea del coordinamento per la democrazia costituzionale ha chiesto un sistema finalmente legittimo e ha bocciato la nuova proposta di riforma che comincia oggi il suo percorso alla camera. Dove però prevale lo scetticismo per via dei tenti voti segreti. Resta il problema delle due leggi oggi in vigore
di Andrea Fabozzi

Il Rosatellum-bis, l’ultima versione di legge elettorale proposta dal Pd e appoggiata da Forza Italia, Lega e centristi, comincia questa mattina il suo percorso in commissione alla camera circondata dallo scetticismo. Tant’è che l’assemblea del coordinamento per la democrazia costituzionale che si è riunita ieri a Roma, e che tiene assieme i comitati che hanno vinto contro la riforma costituzionale – nel referendum – e contro l’Italicum – in Corte costituzionale – ha espresso preoccupazione per la delicatezza del passaggio. Preoccupazione, cioè, che proprio quando nessuno se lo aspetta (più), il parlamento possa riuscire a superare trappole e voti segreti e ad approvare una legge elettorale anche peggiore, si sostiene, delle precedenti e naufragate proposte. È difficile.
Difficile perché anche tra i partiti che sostengono questo sistema che rovescia le percentuali del Mattarellum tra seggi assegnati nei collegi uninominali (adesso il 63%) e nel proporzionale con le liste bloccate (37%), ma vieta il voto disgiunto, non si contano le prese di distanza. Non ufficiali e legate a convenienze più che a convinzioni (è evidentemente una legge che favorisce Berlusconi e la Lega), dunque fatte apposta per venire fuori nei voti segreti. Che in aula alla camera saranno la maggioranza. Oggi comincia l’esame degli emendamenti in commissione, ma il momento della verità arriverà a partire dalla prossima settimana, quando la proposta passerà all’assemblea. I partiti apertamente contrari – M5S, Mdp, Sinistra italiana – hanno presentato in commissione e confermeranno in aula emendamenti studiati per un appoggio trasversale, dal ritorno delle preferenze al voto disgiunto, dall’abolizione delle pluricandidature al rafforzamento delle coalizioni.
Nell’assemblea di ieri, i professori Zagrebelsky, Villone, Pace, Carlassare, Calvano hanno a lungo spiegato perché il Rosatellum-bis potrebbe essere un’altra legge incostituzionale (la terza di seguito, nel caso). Insistendo molto sull’eccesso di parlamentari «nominati» dai capi partito grazie alle liste bloccate e alle pluricandidature. Fino all’80% di «nominati», secondo i calcoli del senatore Fornaro di Mdp. Mentre l’avvocato Besostri, al termine di un incontro tra gli avvocati che hanno portato in Corte costituzionale l’Italicum, ha detto che si possono ancora sottoporre alla Consulta sia l’attuale disomogeneità tra i sistemi elettorali di camera e senato che alcune norme che il Rosatellum-bis eredita dall’Italicum, addirittura prima delle prossime elezioni politiche. Pare un azzardo, intanto tra la metà e la fine di ottobre quattro tribunali dovrebbero decidere se accogliere o meno i ricorsi e dunque i sospetti di incostituzionalità.
L’assemblea del coordinamento ha ribadito la richiesta – già avanzata con una petizione popolare presentata in parlamento – di una legge elettorale finalmente costituzionale. Ma il problema, a ridosso della fine della legislatura, resta. Perché se pure si riuscirà a fermare il Rosatellum-bis (e il documento finale approvato ieri contiene un appello alla mobilitazione dei cittadini, anche se a questo punto è più agevole confidare nei franchi tiratori) resterà in piedi il sistema disomogeneo tra camera e senato che viene fuori dalle due sentenze della Corte su Porcellum e Italicum. Come dire che scansata la brace resta la padella.
In conclusione, nel documento dell’assemblea sono entrati alcuni punti propositivi – si chiede una legge senza premi di maggioranza, senza capilista bloccati e pluricandidature, a impianto «sostanzialmente proporzionale». Qualcosa in meno delle proposte avanzate nel dibattito da Pertici, che immagina sette correzioni all’impianto attuale (niente premio alla camera, niente coalizioni al senato, un’unica soglia al 4%, via i capilista bloccati e le pluricandidature, preferenze di genere e collegi più piccoli al senato). O da Azzariti, che più prudentemente si limita a proporre il minimo indispensabile: l’allargamento anche al senato dell’Italicum senza il premio di maggioranza.

il manifesto 3.10.17
Ius soli, insegnanti e parlamentari digiunano per la legge
Diritti. Parte oggi la staffetta di 800 docenti per l’approvazione del ddl sulla cittadinanza. Il presidente del Senato:«Si può fare»
di C. L.

ROMA «Per lo ius soli i giochi non sono finiti, c’è ancora la possibilità di approvare la legge». A dirsi convinto che non tutto sia perduto per la riforma della cittadinanza sono il presidente del Senato Pietro Grasso e un nutrito gruppo di senatori e deputati che sperano in questo modo di riuscire a far sì che il provvedimento possa vedere la luce entro il mese di ottobre. «Certamente ci sono due priorità come la legge di stabilità e la legge elettorale», ha spiegato ieri Grasso da Lampedusa, dove si trova per le celebrazioni del quarto anniversario della strage che il 3 ottobre del 2013 costò la vita a 368 migranti. «Nel contempo però – ha proseguito – possiamo trovare delle finestre nell’ambito dei calendari per poter affrontare questo problema».
E’ una corsa contro il tempo, e non solo. Sono molti infatti i senatori contrari alla legge e i dubbi serpeggiano in abbondanza anche nelle file del Pd. Nel caso palazzo Chigi dovesse rompere gli indugi e porre finalmente la fiducia sul provvedimento, vista la dichiarata opposizione di Ap i voti necessari per superarla andrebbero cercati uno per uno.
Per provare a smuovere la situazione sperando così di spingere anche molti senatori a un atto di coraggio e di civiltà, oggi 800 insegnanti entreranno in classe con una coccarda tricolore sulla giacca e annunceranno ai proprio studenti l’inizio di uno sciopero della fame a staffetta per chiedere l’approvazione di una legge che consentirebbe a circa 800 mila ragazzi nati nel nostro paese da genitori immigranti di diventare cittadini italiani. Ragazzi con i quali gli insegnanti hanno a che fare tutti giorni, avendoli in classe, e che vedono nel mancato riconoscimento della cittadinanza un’ingiustizia nei loro confronti.
L’idea dello sciopero della fame – al quale ieri ha aderito anche l’Arci – è nata due settimane fa con un appello sottoscritto da insegnanti ed educatori. «Abbiamo in classe cittadini che non saranno mai cittadini, ed è arrivato il momento di schierarsi», ha spiegato il maestro Franco Lorenzoni presentando l’iniziativa a Senato insieme al presidente della Commissione Diritti umani Luigi Manconi.
Proprio a Manconi e al senatore del Mdp si deve l’idea di chiedere ai parlamentari di unirsi agli insegnanti partecipando alla staffetta di digiuno. Anche in questo caso dietro l’iniziativa c’è la consapevolezza di non poter restare fermi a guardare mentre un diritto viene calpesto per puri interessi elettorali. Sono più di venti i parlamentari che finora hanno aderito all’appello lanciato da Manconi e Corsini, tra i quali i senatori dem Tocci, Ferrara e Lo Giudice, Palermo delle Autonomie e i deputati Piras di Mdp, Zampa e Monaco del Pd e Marazziti di Scelta civica. La possibile «finestra» di cui parla il presidente del Senato Grasso per i parlamentari potrebbe aprirsi già a partire da domani, dopo il voto sulla nota di variazione di bilancio Def, per prolungarsi fino al 20, forse 25 ottobre, giorni nei quali è previsto l’arrivo al Senato della legge di stabilità. Il che significa che ci sono due settimane di tempo per trovare i voti necessari ad approvare la legge, sempre che da palazzo Chigi arrivi la decisione di porre al fiducia. Allo sciopero della fame a staffetta aderiscono anche i Radicali italiani. che proprio entro ottobre concluderanno al campagna «Ero straniero» con la relativa raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata al superamento della Bossi-Fini.
Intanto anche i diretti interessati si mobilitano. Per il 13 ottobre, giorno in cui saranno passati due anni dall’approvazione alla Camera del ddl sulla cittadinanza, i ragazzi aderenti al cartello «Italiani senza cittadinanza» hanno indetto un «Cittadinanza day» sotto Montecitorio sfidando i parlamentari contrari alla legge a confrontarsi con loro.
Bisognerà vedere chi accetterà il confronto. Intanto però la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni si prepara a dare battaglia nel caso la legge venisse approvata. «Secondo me non hanno i numeri, ma ci proveranno fino alla fine», ha detto ieri Meloni. «Io comunque sto raccogliendo le firme, e quindi nel caso presenteremo un referendum abrogativo».

il manifesto 3.10.17
Spagna, il fallimento di due tigri di carta
di Norma Rangeri

Sorprendentemente, i risultati diffusi dai promotori del referendum dicono che è andato a votare circa il 40 per cento dei cittadini catalani. Significa che il 60 per cento è rimasto a casa, non ha accettato la forzatura secessionista del governo di Puigdemont, non ha aderito a una battaglia elettorale che puzzava di propaganda. Oltretutto qualcuno sarà andato al seggio anche per reazione alla mano dura di Madrid e magari avrà anche votato no.
Il dato politico del risultato è evidente: chi non è riuscito a convincere nemmeno la maggioranza dei catalani dovrebbe innanzitutto prenderne atto e prepararsi a dichiarare fallimento, anziché l’indipendenza.
Naturalmente la repressione non ha favorito la partecipazione, le cariche della polizia ai seggi di un paese europeo, la violenza contro persone inermi sicuramente non depongono a favore di Rajoy.
Di cui sarebbero sacrosante le dimissioni per aver portato il paese, lui ne è principalmente responsabile, a questo punto di rottura.
Dopo aver acceso la miccia e soffiato sul fuoco, adesso spegnere l’incendio è complicato.
L’Europa ci prova e interviene a posteriori, auspicando il dialogo. Ma gli interlocutori sono Puigdemont e Rajoy, due tigri di carta che la lunga crisi ha incattivito, con i tagli al welfare toccati anche alla ricca Catalogna, alla base della volontà di separarsi non solo da Madrid ma anche dagli spagnoli – i lavoratori e le classi subalterne – più colpiti dalla crisi.
Da questo punto di vista i referendum del Lombardo-Veneto sono molto somiglianti a quello apparecchiato da Puigdemont. Simili perché la richiesta di maggiore autonomia è un cuore che batte in sintonia con il Pil, del nordest come della Catalogna.
«Il Pil della Catalogna cresce il triplo rispetto al deficit. Non ci sono molte altre economie che possano mostrare risultati simili». Sono parole di Oriol Junqueras, leader di un partito di sinistra che rivendica con orgoglio la secessione. Viceversa, è proprio quella sinistra che si batte per l’uguaglianza a doversi interrogare sulla contraddizione di ritrovarsi dentro lo schieramento indipendentista. E a doversi chiedere perché i due maggiori sindacati non hanno aderito al proclamato sciopero generale.
L’impressione è che sulla scena politica spagnola si siano affrontati, in una battaglia di potere, due leadership di destra ben mimetizzate dietro la maschera del conflitto tra unità del paese e secessione, bandiere usate per coprire con la retorica nazionalista, maggioranze traballanti, a Madrid come a Barcellona.
Se la costituzione spagnola non funziona, se quel patto va cambiato, la democrazia costituzionale insegna come farlo. Pur nella diversità dei contesti, di natura storica e istituzionale, l’esperienza italiana insegna.
Anche in Italia c’era chi la costituzione la voleva cambiare e chi invece la difendeva. Siamo arrivati, faticosamente, dopo molto tempo, a un referendum che ha coinvolto l’intero paese. L’abbiamo fatto e l’abbiamo anche stravinto.
In fondo non è una lezione banale.

il manifesto 3.10.17
L’indipendenza può ancora attendere, ora «bisogna mediare»
Referendum catalogna. Resta alta la tensione, il Sì ha vinto ma il presidente catalano Puigdemont prende tempo e non proclama l’addio alla Spagna. E oggi sciopero generale, ma i due maggiori sindacati, Ccoo e Ugt, si smarcano
di Luca Tancredi Barone

BARCELLONA Dopo la tempesta di domenica, ieri la tensione in Catalogna è rimasta alta. Ma arrivano timidi segnali di pace. Il governo catalano, che fino a domenica sera era sembrato intenzionato a procedere direttamente con la dichiarazione unilaterale di indipendenza, dopo una riunione dei suoi ministri ha lanciato un segnale: «C’è bisogno di mediare». Il presidente catalano Carles Puigdemont ha chiarito che «né io né il governo catalano stiamo dichiarando l’indipendenza», e che chiede la «mediazione reale e sincera» fra governo spagnolo e governo catalano da parte di mediatori internazionali. E ha concluso chiedendo che gli agenti della Policia nacional e della Guardia civil lascino la Catalogna.
Catalan President Carles Puigdemont (C) is flanked by Barcelona mayor Ada Colau and Vice President Oriol Junqueras as they stand with people in Plaza Sant Jaume during a protest called by pro-independence groups for citizens to gather at noon in front of city halls throughout Catalonia, in Barcelona, Spain October 2, 2017. REUTERS/Juan Medina
UN MODO PER PRENDERE tempo davanti a chi vorrebbe che nella sessione di domani il Parlament catalano dichiarasse già l’indipendenza come, in teoria, previsto dalla legge annullata dal Tribunale Costituzionale spagnolo. I risultati quasi definitivi – sempre che possano essere affidabili, date le condizioni precarie in cui si è votato domenica – li ha dati il governo catalano: 2 milioni 262mila persone avrebbero votato, i Sì il 90% circa, i no 7.8%, bianchi e nulli quasi il 3%. Secondo il governo catalano, non è chiaro basandosi esattamente su quali dati, 770mila persone non avrebbero potuto votare per la repressione della polizia.
Girona è stata la città con la partecipazione più alta, al 53% (e anche con la maggiore percentuale di Sì, 94.86%) poco sopra al 52.83% di Lleida; a Tarragona invece la percentuale più bassa di votanti, 40.62%, poco sotto Barcellona dove si è recato ai seggi il 40.78% degli aventi diritto, qui i Sì hanno incassato l’88.57%.
Sia come sia, i dati sono interessanti, se li diamo per buoni. Vuol dire che, nonostante tutto quello che è successo negli ultimi anni, il numero di indipendentisti è rimasto più o meno costante dal 2014: 2 milioni di persone, sui 5 e mezzo di votanti. Una percentuale molto importante, ma certamente non maggioritaria.
Il governo catalano ha anche quantificato i danni al materiale scolastico dovuto all’intervento degli agenti mandati dal governo spagnolo: circa 300mila euro. Se il numero dei feriti civili arriva quasi a 900, curiosamente ieri il ministero degli interni spagnolo aveva decuplicato il numero di agenti feriti. Domenica erano 39, e ieri più di 400.
IN GIORNATA, ci sono state proteste spontanee nei luoghi di lavoro: alle 12, molti lavoratori sono usciti per mostrare il loro rifiuto della violenza e l’appoggio all’indipendenza. Per oggi gli indipendentisti hanno dichiarato uno sciopero generale di protesta, insieme alla Cgt e ad altre tre sigle dei sindacati minori: curioso, in un certo senso, perché fomentato dal governo e da molte istituzioni pubbliche, che infatti hanno chiesto ai lavoratori di rimanere a casa, ma senza togliergli lo stipendio. Per questo i due grandi sindacati Ugt (l’Unión General de Trabajadores) e Ccoo (Comisiones Obreras) pur condividendo le mobilitazioni contro «gli eccessi» della polizia, si smarcano dallo sciopero di oggi perché «in nessun caso appoggeremo posizioni che avallino la dichiarazione unilaterale di indipendenza». Una posizione indubbiamente coraggiosa dato il clima che si registra: lo sciopero di oggi potrebbe avere un successo elevatissimo, con gli animi ancora caldi dopo i fatti di domenica.
LA SINDACA DI BARCELLONA Ada Colau ha chiarito che la dichiarazione unilaterale di indipendenza sarebbe «un grave errore» – stessa posizione di Podemos, che ha chiarito non è stato «un referendum legale e con garanzie e non se ne possono trarre conclusioni per la Catalogna». Il comune ha chiesto la collaborazione cittadina per denunciare violazioni dei diritti umani e si è messo a disposizione per denunciare le violenze più gravi come i casi di aggressione sessuale che sono avvenuti dopo le cariche.
A MADRID invece le cose vanno più lente. Il Congresso non ascolterà Rajoy (che lo ha chiesto) fino al 10 ottobre. Rajoy intanto ha sondato gli altri partiti: ha parlato con Albert Rivera (Ciutadanos) che chiede direttamente l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione per togliere le competenze alla Catalogna, e con il socialista Pedro Sánchez, che pur criticando le cariche della polizia e annunciandogli che chiederà spiegazioni e responsabilità, ha mantenuto l’appoggio al governo chiedendogli di aprire «un negoziato immediato». Rajoy non ha parlato né con il segretario di Podemos Pablo Iglesias, né con Alberto Garzón di Izquierda Unida.
Oltre alla dichiarazione della Commissione europea, che sottolinea che la questione catalana è una vicenda interna, e che il referendum non era costituzionale, ma stigmatizza l’uso della violenza («che non può essere uno strumento in politica»), notevoli sono state le prese di posizione del Commissario per i diritti umani dell’Onu e della stessa Amnesty International che hanno criticato il governo spagnolo e chiedono un’inchiesta imparziale sulla violenza della polizia. L’Eurocamera mercoledì, su richiesta di Verdi e Sinistra, discuterà di Catalogna.

il manifesto 3.10.17
Patriottismo e saluti fascisti, ritorno al passato con l’ultra destra
Nazionalismo. Bandiere con l’aquila di San Juan, l’inno falangista «Cara al Sol» e perfino quello della Legione che combatté al fianco dei nazisti: riesumati i vecchi simboli
di Guido Caldiron

Se nello scontro con i catalani il governo spagnolo intendeva cercare consenso attraverso un bagno di folla, non deve essere rimasto particolarmente soddisfatto. Perché dalle manifestazioni organizzate giusto alla vigilia del tanto contestato voto per l’indipendenza di Barcellona, sono uscite piuttosto, e con una sinistra enfasi, tutte le ombre che ancora gravano sul nazionalismo spagnolo. Di oppositori, la strada intrapresa dalla Generalitat de Catalunya, sembra contarne molti nell’intero paese, ma quelli che hanno deciso di metterci la faccia non sembrano né i più presentabili né quelli meglio intenzonati. Le immagini delle piazze contro il referendum raccontano infatti soprattutto di una destra che fatica a scrollarsi di dosso i pesanti fantasmi del passato.
Così a Madrid, dove la partecipazione è stata più consistente, secondo alcune fonti fino a 10mila persone si sono notate molte bandiere «pre-costituzionali», come in Spagna sono definiti i simboli che si rifanno al regime franchista.
Nella piazza di Cibeles, di fronte al municipio madrileno, la folla ha scandito slogan contro gli indipendentisti catalani ma anche contro il presunto immobilismo del premier Mariano Rajoy.
Altri, sventolando le bandiere con l’aquila di San Juan, simbolo della dittatura rimosso dopo il 1975, si sono spinti fino a intonare Cara al Sol, l’inno falangista, e perfino quello della Legione che combatté al fianco dei nazisti. Tra i simboli del passato e i cori di «Viva España», «Puigdemont in prigione» e «Viva la Guardia Civil», a un certo punto ha fatto la sua comparsa anche Esperanza Aguirre, la ex presidente della regione di Madrid e figura di rilievo del Partido Popular locale.
Perché, per quanto lanciato dalla Fondazione Denaes, per la Difesa della Nazione Spagnola, una sigla dietro cui si celano diverse componenti dell’estrema destra iberica, l’appello alle piazze nazionaliste contro i progetti di secessione rimanda a un’immaginario che contraddistingue anche lo stesso partito di governo. La linea dura esibita oggi da Rajoy si inserisce in questo senso in continuità con quella del suo mentore Aznar che oltre vent’anni fa aveva immaginato di liquidare le diverse spinte indipendentiste con un rilancio del nazionalismo spagnolo. Il tutto alimentando, come ha continuato a fare Rajoy, una notevole ambiguità del proprio partito rispetto al passato franchista, con esponenti di primo piano del Pp che ancora siedono nella Fundación Francisco Franco che gestisce la «memoria» ufficiale del dittatore e diversi eletti locali che si oppongono, a partire dalla Galizia da cui proviene lo stesso premier, alla rimozione dei monumenti e della toponomastica ancora ispirati alla dittatura.
Il ritorno della retorica patriottica ha però favorito anche l’attivismo della destra radicale, priva di energie anche per questa evidente concorrenza da parte del Pp, che ha fatto da tempo della lotta ai movimenti indipendentisti una delle proprie principali caratteristiche.
Così, se nella manifestazione di Madrid la componente dell’elettorato del Pp, per lo più famiglie e persone di mezza età, costeggiava i giovani radicali di destra, altrove gli estremisti erano ancora più visibili. Come nella stessa Barcellona dove all’appello di Denaes, il cui portavoce Santiago Abascal è anche presidente del partito ultranazionalista Vox (che nelle elezioni amministrative del 2015 ha eletto una ventina di consiglieri comunali tra Ceuta, Madrid e i piccoli centri della Castiglia e negli ultimi 40 giorni ha guadagnato un 20% di affiliati), hanno risposto anche i neofalangisti di España 2000 e i neonazisti di Democracia Nacional.

il manifesto 3.10.17
Portogallo, alle amministrative vincono i socialisti
Controcorrente. Mentre in tutta Europa la sinistra è in crisi, all'indomani del voto locale a Lisbona ci si interroga sull'unità del fronte progressista: con il partito comunista e il bloco de esquerda
di Goffredo Adinolfi

LISBONA Dicono che i sondaggi valgono quello che valgono, meglio fidarsi di dati reali, e così il governo Costa ha affrontato domenica il suo primo vero test: le elezioni per il rinnovo di province, comuni e municipi.
Tutti si affrettano a dire che non è corretto mischiare il livello locale con quello nazionale, quantomeno a livello teorico, perché poi in pratica nessuno si nega il piacere di cercare di capire se, pallottoliere alla mano, l’unità a sinistra sia più o meno solida dopo il voto.
Ma procediamo con ordine: in realtà, da raccontare, c’è poco, sono i paradossi di un paese dove, per il momento, le cose sembrano andare bene.
Dei tre partiti della coalizione, l’unico a perdere è il Partido Comunista Português (Pcp), poco meno di due punti percentuali, ma è quel che basta per rimetterci la guida di numerose città in favore dei socialisti, i grandi vincitori di questa tornata.
Unico neo in quella che è stata l’affermazione migliore di sempre, l’aver mancato di un soffio la maggioranza assoluta a Lisbona.
Questa potrebbe essere la migliore notizia della giornata, ma dipende da quello che succederà in futuro e se il Partido Socialista vorrà fare nella capitale quello che ha fatto a livello nazionale: un accordo con Be (Bloco de Esquerda) e Pcp.
Ce ne sarebbe proprio un gran bisogno, perché da un paio di anni, tra airbnb e defiscalizzazioni per gli stranieri che trasferiscono in Portogallo la residenza, il prezzo delle case è schizzato alle stelle.
Si parla di quartieri dove si arriva a pagare 10-12 mila euro al metro quadro. Per non parlare poi dell’assenza totale di un mercato degli affitti accessibile ai comuni mortali che, in media, hanno un reddito di 7-800 euro.
Di fronte a una devastazione di proporzioni bibliche – c’è chi considera Lisbona il nuovo principato di Monaco – occorrerebbero misure urgenti. Ci sono tantissimi soldi in ballo e su queste cose è sempre difficile tornare indietro.
Dicevamo dello stato di salute dell’esecutivo. Sibillinamente si può dire che senza cabala è difficile dare una risposta netta.
Qualche contrasto all’orizzonte c’è, ma dopotutto stiamo pur sempre parlando di una coalizione, e come potrebbe essere altrimenti. E poi, in fondo, al Bloco de Esquerda, che passa da 157 mila voti presi alle autarquicas (amministrative) del 2013 a 215 mila, è andata benissimo.
Quindi, in sostanza, perché rompere un’alleanza che, esclusi i comunisti, sembra premiare? Già perché il patto tra Ps, Be e Pcp è un po’ come una prigione, chi lo fa(rà) saltare dovrà assumersene la responsabilità e tutto lascia pensare che gli elettori potrebbero essere parecchio severi.
E poi, come si vede dai risultati che arrivano dalla capitale, ai portoghesi l’unità delle sinistre non sembra dispiacere più di tanto.

il manifesto 3.10.17
L’immaginario stragista dell’«americano tranquillo» e la regolarità agghiacciante dei «mass shooting»
American Psycho. Trump ha elogiato la polizia e compianto l’atto di «pura malvagità». Non una parola sul «gun control»
di Luca Celada

LOS ANGELES Gli ultimi casinò sulla strip, prima che Las Vegas boulevard diventi l’autostrada per Los Angeles, sono il Mandalay e il Luxor con la sua piramide di vetro brunito e la sfinge di gesso. Di fronte a quest’ultimo albergo a tema antico egizio c’è lo spiazzo scelto dall’ultimo cecchino per compiere la sua strage.
I PRIMI BOLLETTINI della polizia sono rimbalzati poco dopo mezzanotte, ora del Pacifico, e sono continuati nella notte fino a registrare «la peggior strage nella moderna storia degli Stati uniti». Il lugubre record sorpassa quello precedente, appena dello scorso giugno, quando sono state ammazzate 49 persone in un locale notturno gay a Orlando, in Florida.
Uno stillicidio luttuoso di statistiche che torna a sottolineare come i mass shooting ricorrano con un’agghiacciante regolarità che torna a porre l’esasperante questione delle cause di una autoctona psicopatologia sociale. Nella fenomenologia degli omicidi di massa il cui catalogo ogni anno si arricchisce di tetre statistiche, nel mirino finiscono vittime innocenti  colpite in scuole, locali pubblici, mezzi di trasporto, chiese.
L’ASSURDA tassonomia delle mortifere violenze di massa prevede di solito il nichilismo di un «lupo solitario» che armato fino ai denti spara metodicamente sulla moltitudine indifesa. Nella classifica rientrano i «semplici» omicidi plurimi e le stragi di massa che ricalcano ogni volta modalità prevedibili: una delle prime stragi moderne avveniva quando 5 anni fa un cecchino si asseragliava in un campanile sul campus dell’università del Texas ad Austin uccidendo 15 passanti sottostanti, la stessa dinamica di domenica.
IN QUASI OGNI CASO l’autore (sempre maschio) non offre spunti che segnalino in precedenza i suoi propositi. Un altro elemento canonico delle stragi americane sono le interviste del giorno dopo ad amici e vicini che esprimono lo stupore e sottolineano la consueta normalità dell’assassino.
Anche Stephen Paddock, 64 anni, era il solito «uomo tranquillo». Ma in ultimo questo film dal tragico epilogo sul Vegas Strip c’è qualcosa di più – scene di altri immaginari americani. Dillinger: il padre di Paddock era un rapinatore seriale di banche, condannato a vent’anni e finito sulla lista dei most wanted Fbi in seguito ad una fuga dal penitenziario.
E C’È UN PIZZICO di Truman Show: Paddock ritiratosi a vita privata dopo una carriera da ragioniere alla Lockheed Martin, abitava  a Mesquite, sul confine fra Nevada e Arizona.
Si tratta di una retirement community come ce ne sono a migliaia sparse negli hinterland brulli del sudovest americano. «Comunità pianificate» per pensionati  vietate  agli under 55 e ai bambini, grappoli di villini prefabbricati e climatizzati  circondati da surreali aiuole verdi lambite dal deserto con doppio garage e accesso al campo da golf d’ordinanza
PADDOCK RIENTRA quindi apparentemente nella «categoria di normale strage suburbana» come ha precisato lo sceriffo di Las Vegas  annunciando che l’evento non aveva «matrici terroriste» (leggi: l’autore non era musulmano). Un distinzione di discutibile  interesse per le vittime e i loro famigliari ma di grande importanza per alcuni, compreso l’attuale presidente americano.
Per Trump che ha costruito la propria ascesa anche sulla denuncia del «terrorismo radicale islamico» e l’uso rituale della frase come grimaldello contro il «buonismo» degli avversari la distinzione è cruciale. Il suo briefing del mattino dopo è stato lapidario e lontano dalla bellicosità esibita in modo consueto dopo casi di attentati islamici anche lontani (Londra, Nizza) quando suole tuonare su pugno di ferro e scontro di civiltà. Su Las Vegas  ha solo invocato col tono sobrio del predicatore, la solidarietà con le vittime, elogiato le forze dell’ordine e compianto l’atto di «pura malvagità».
MOLTI ALTRI POLITICI hanno addotto il lutto per evitare commenti specifici ma è certo che gli uffici stampa della National Rifle Association stiano già lavorando per anticipare ogni possibile appello per limitare la marea di armi da fuoco in cui è sommerso il paese che detiene l’assoluto primato mondiale delle violenze.
Oltre che efficientissima lobby per l’industria delle armi, la Nra è partito politico ombra allineato su posizioni  trumpiste (come la polemica contro la contestazione degli atleti: il sito ufficiale attualmente apre con un appello a «stare in piedi per la bandiera»). In otto anni Barack Obama venne ripetutamente chiamato a esprimere il cordoglio post-stragi. Il culmine fu la sparatoria alla scuola elementare di Sandy Hook a Newtown Connecticut.
L’UCCISIONE di venti bambini spinse Obama e il congresso a tentare di passare norme lievemente più severe. Non servì a nulla e per molti quel fallimento è conferma che nulla potrà mai cambiare, tantomeno con l’attuale governo.
Rimane solo inevitabile l’ultima, solita considerazione in questo paese che registra ad oggi, solo nel 2017, 11.572 morti per arma da fuoco (il 10% di questi per mano della polizia).
Come diceva Michael Moore in Bowling for Columbine – parafrasando proprio un slogan della Nra: «Non sono le pistole ad uccidere ma gli americani che le impugnano».

American gun: il “dio” proiettile tra Jfk e Las Vegas
Nel Paese in cui avere un’arma in casa è un diritto più forte del sangue: l’altra storia del sogno stelle e strisce
di Stefano Pistolini

Oltreoceano i media distinguono: ci sono stragi di serie A e di serie B. Nel primo caso – che include gli eventi classificati “terroristici” – si mobilitano massicciamente, fermano palinsesti e rotative e danno fondo al resoconto spossante dell’accaduto finché, quando le acque si sono quietate, sbaraccano e archiviano la vicenda. Nei casi “minori” – allorché un uomo-qualsiasi s’improvvisa killer e uccide per sedare i propri demoni – la storia viene tenuta in profilo basso, quello riservato agli accadimenti che rasentano la fatalità, effetto d’una causa con cui gli americani hanno familiarità: le cose non sono andate all’inferno. L’odio o la frustrazione hanno preso il sopravvento. Invece, ciò che è successo a Vegas nella notte di domenica, rientra trionfalmente nel primo elenco: la più sanguinosa strage della storia nazionale, provocata peraltro da un solo killer.
Il delirio da prima pagina
A prima vista niente terrorismo, niente Allah è grande, anche se dall’Isis arriva una rivendicazione che parla del responsabile come di un nuovo adepto. Ma i primi lineamenti della storia non collimano con quel quadro: il 64enne Stephen Paddock (“Dev’essere successo qualcosa: era un tipo normale” garantisce il fratello), residente a Mesquite, tranquilla cittadina per pensionati a 130 chilometri da Vegas con slot machine e campi di golf, ha fatto poca strada per eseguire il suo disegno: ha preso una stanza al Mandalay Bay Resort, uno degli alberghi grandi come portaerei che nella città del divertimento forzato s’affacciano sullo Strip, si è portato un arsenale di armi automatiche (Una decina: collezione che avrà accumulato in anni di gun show), ha atteso che i 40 mila spettatori si assiepassero 300 metri più in là, nella radura confinante con l’MGM Hotel, per l’ultima serata del “Route 91 Harvest Festival” (slogan: “Il Pigiama Party al Neon”) e, durante il concerto di Jason Aldean, ha preso a sparare. Ha usato mitra e molti caricatori e ha esploso centinaia di proiettili per diversi minuti, producendo una carneficina di oltre 50 morti e 400 feriti. Quando una squadra speciale ha fatto irruzione nella sua stanza, l’ha trovato già morto. Secondo copione, aveva provveduto da solo, con le sue armi. Comunque le indagini riveleranno cosa ci sia all’origine di quest’altro maledetto delirio da prima pagina, come nel giugno 2016 quando il vigilante Omar Mateen uccise 49 persone al Pulse, discoteca gay di Orlando, o come il 17 giugno 2015 quando il 21enne Dylan Roof massacrò nove membri della chiesa afroamericana di Charleston, o come, nel 2012, quando il 20enne Adam Lanza sterminò 20 bambini e 6 adulti in una scuola di a Newton, Connecticut. In ogni caso, queste carneficine sono il rintocco a morto che oggi risuona nella società americana. Ricordano a tutti, a chi vuole sentire e a chi si rifiuta, che questo è un paese fatto di armi, disseminate in ogni casa perché è considerato inalienabile il diritto all’autodifesa, lo stesso che in una mente malata equivale al lasciapassare per raddrizzare – sparando – qualsiasi ingiustizia o intolleranza. Il proprio “No” inciso su un proiettile.
Le finestre degli States e la canna di fucile
In America, la maggioranza, incluso l’attuale presidente, (che ha espresso sobrio cordoglio per i fatti di Vegas) considerano “sparare” un gesto espressivo della volontà individuale, celebrato non solo dal cinema, ma da un intero universo rappresentativo. C’era un cecchino dietro la finestra, quella mattina a Dallas, quando, si disse, la nazione perse la propria innocenza, insieme a Jfk, il presidente innovativo. E 55 anni più tardi, le finestre d’America sono ancora fessure in cui infilare la canna del fucile. L’elaborazione del lutto transiterà poi attraverso la ricostruzione di una qualche biografia devastata. Ma mai e poi mai, si metterà fine al principio che preserva i diritti dell’individualità fino a questo assurdo grado. Se sei americano, puoi sparare. I Padri fondatori vollero una nuova civiltà, per garantire delle opportunità del genere. Dunque, se davvero hai il sangue agli occhi e l’apocalisse nel cervello, può succedere che spari. Non sei il primo, e non sarai l’ultimo. Fino a qui, te lo garantisce la Costituzione.

Corriere 3.10.17
«Dal presidente un discorso vuoto sulle Scritture per nascondere l’omertà sulle armi»
di Viviana Mazza

Luce: nella strage niente che tocchi il suo ego
« Un cecchino solitario non musulmano non corrisponde a nessuna delle narrazioni di Trump. Se si fosse trattato di un attentato islamico o di un uragano che colpisce la popolazione ispanica, avrebbe avuto una linea, ma in questo caso non c’è nulla che possa nutrire il suo ego politico. Questo discorso vuoto sulle Scritture è la misura del fatto che Trump non ha nient’altro da dire».
Edward Luce spiegava una settimana fa sul Financial Times che la tendenza del presidente degli Stati Uniti ad alimentare le divisioni (razziali) è una vera e propria strategia da lui spesso usata per attirarsi simpatie conservatrici e per distrarre l’opinione pubblica dai suoi fallimenti. E ora l’editorialista del Financial Times e autore del libro «The Retreat of Western Liberalism» ( La ritirata del liberalismo occidentale ) ci dice al telefono da Washington D.C. di non credere minimamente che l’appello di Trump all’unità del Paese, dopo la strage di Las Vegas, possa essere efficace.
Non è un discorso da leader?
«Trump aveva l’opportunità di affrontare il problema delle armi. Il fatto che abbia dimenticato di parlarne — o scelto di non dire una parola — non unisce le persone: è una grave omissione. Quella di Las Vegas è la sparatoria peggiore della storia moderna: la maggior parte sono avvenute negli ultimi vent’anni dopo Columbine, accompagnate da appelli della polizia a limitare l’accesso delle persone mentalmente instabili ai fucili d’assalto e ad aumentare i controlli di background. Oggi la stragrande maggioranza degli americani, l’85%, è favorevole a controlli minimi su chi acquista armi».
Il discorso di Las Vegas piacerà alla base di Trump, ai suoi sostenitori duri e puri (e quanti sono oggi)?
«Non penso che questa strage avrà un impatto politico. Infiammerà comprensibilmente la sinistra perché non c’è controllo sulle armi. Ma non credo che la sua base sarà influenzata in alcun senso. Lo abbiamo visto in tutti i casi precedenti di sparatorie di massa: vengono registrati per un giorno o due, e poi non succede niente, sono trattati come disastri naturali. Sulle dimensioni della base di Trump ci sono stime diverse, dal 15% al 35% del Paese, e dipende anche da cosa intendiamo per “base”. Martedì scorso in Alabama (alle primarie repubblicane ndr ) la base ha votato per il candidato che correva contro l’uomo del presidente. Ora non è più la base a seguire Trump ma Trump che segue la base, e colui che detta le decisioni, il nuovo stratega capo, è il vecchio Steve Bannon, più influente fuori di quanto non lo fosse dentro la Casa Bianca».
Trump è sempre rapido nel definire «terrorismo» le stragi commesse da musulmani. Potrebbe mai farlo in un caso come Las Vegas?
«Il problema è che se definisse terrorismo la sparatoria di Las Vegas, il suo intero programma politico dovrebbe cambiare, e la sua base lo rifiuterebbe. Ci saranno sempre dibattiti su cosa sia il terrorismo, la definizione standard dice: “l’uso della violenza per scopi politici”. Nel caso di Dylan Roof che ammazzò degli afroamericani in South Carolina, quello è chiaramente terrorismo, e ci sono molti casi che avrebbero dovuto essere definiti tali e non lo sono stati, inclusa l’uccisione di un poliziotto l’anno scorso a Dallas per mano di un attivista di Black Lives Matter. Non sappiamo ancora se il killer di Las Vegas avesse motivazioni politiche; ma se è un pazzo isolato chiamarlo terrorista è una semplificazione ».

il manifesto 3.10.17
Il terrorismo delle armi
America. Aggiungere un’etichetta «ideologica» all’ennesima strage non cambia il problema di fondo, che non è costituito dal terrorismo internazionale. È costituito da un terrorismo diffuso e incontrollato che è l’accesso illimitato - anzi promosso con fondi ricchissimi dalla lobby dei produttori di armi - a fucili d’ogni genere, proiettili, mitragliatrici e bazooka
di Guido Moltedo

Google News Italia «apriva ieri», per alcune ore, con la notizia secondo cui lo stragista di Las Vegas era un affiliato dell’Isis. Eppure lo stesso Fbi aveva già smentito una simile connessione.
Tant’è che il medesimo aggregatore di notizie, nella versione americana, nelle stesse ore non menzionava neppure nel suo menu la possibile matrice terroristica. Perfino il presidente Donald Trump non vi ha fatto cenno nella sua dichiarazione dopo l’eccidio.
Collegare ogni strage al terrorismo islamista è una sorta di tic, perfino comprensibile di questi tempi, in Italia, e può darsi anche che un qualche nesso con l’Isis verrà fuori. Sì, si può capire questo tentativo, per quanto scontato, di dare un senso a una «tragedia insensata» come l’ha definita papa Bergoglio o «senseless tragedy», per usare le parole dei coniugi Obama.
In realtà, la tragedia di domenica notte ha un senso, eccome, e il senso non bisogna cercarlo in remote piste mediorientali, come fanno i media nostrani, con irresponsabile leggerezza ed evidente scarsa conoscenza dell’America.
Bill Clinton dice che sparatorie del genere «dovrebbero essere inimmaginabili» negli Stati uniti. Già, il punto è questo. Dovrebbero esserlo, ma non lo sono né possono esserlo in un paese dove girano trecento milioni di armi da fuoco.
Un paese dove, dal 1970 in poi, sono morti più americani per colpi di armi da fuoco di quanti ne siano morti in tutte le guerre, andando indietro fino alla Rivoluzione americana. La strage è quotidiana: muoiono ogni giorno in America 92 persone colpite da armi da fuoco. È l’opinionista Nicholas Kristoff a ricordarlo sul New York Times, citando lo studio di David Hemeway di Harvard.
Aggiungere un’etichetta «ideologica» all’ennesima strage, dovesse anche trovare alla fine fondamento, non cambia il problema di fondo, che non è costituito dal terrorismo internazionale.
È costituito da un terrorismo diffuso e incontrollato che è l’accesso illimitato – anzi promosso con fondi ricchissimi dalla lobby dei produttori di armi – a fucili d’ogni genere, proiettili, perfino ordigni e mitragliatrici e bazooka.
Senza muoverci da Las Vegas, l’«horror show», come l’ha definito una superstite, è preceduto da un episodio del 26 marzo scorso, quando un uomo su un bus a due piani sulla Las Vegas Strip uccise una persona, ferendone un’altra, dalla vicenda del dicembre 2015, di una donna che si lanciò «volontariamente» a bordo della sua auto contro la folla a Las Vegas uccidendo una persona e ferendone almeno 37, da una sparatoria, l’anno prima, con cinque persone uccise tra cui due poliziotti. Senza contare la catena delle sparatorie quotidiane.
È di questi giorni la discussione alla camera dei rappresentanti di un disegno di legge – fortemente sostenuta dalla Nfr, la lobby delle armi – per agevolare la vendita dei silenziatori per le armi da fuoco.
E, tanto per capire subito una delle conseguenze della liberalizzazione della vendita dei silenziatori, è stato fatto notare che Stephen Paddock, li avesse applicati alle sue armi omicide, non sarebbe stato neppure individuato dopo la sparatoria.
D’altra parte in quella stessa camera dei deputati, è stato accolto da applausi commossi il rientro del congressman Scalise, finito sul ciglio della morte dopo essere stato preso a fucilate mentre giocava a baseball.
Scalise ha avuto un A+ dalla National Rifle Association, il voto già alto che la lobby delle armi dà ai politici che la sostengono al congresso.
Come stupirsi che lo stesso Scalise non abbia detto una sol parola sul meccanismo mostruoso di cui lui stesso è stato vittima?
E che dopo l’accoglienza calorosa dei colleghi al suo ritorno si sia passati subito al disegno di legge sui silenziatori?
L’America che si ribella al far west è consistente ma resta minoritaria. Durante la presidenza Obama ci sono state stragi a Dallas, Columbia e Newtown e, un anno fa, a Orlando, morivano 49 persone, trucidate nel Pulse, un locale frequentato da gay, ed è stata la prima sparatoria di massa dell’era Trump, la seconda per numero di vittime nella storia americana. Dopo quella di Las Vegas.
Finiti nel nulla i tentativi di regolare un minimo il commercio e la diffusione di fucili e pistole portati avanti da Obama, con Trump l’escalation s’intensifica.
Tanto che la stessa pretesa dell’Isis d’intestarsi stragi che non ha organizzato ha perfino un senso in un paese che non ha nulla da invidiare al Medio Oriente in guerra, in termini di caduti per colpi d’arma da fuoco.

il manifesto 3.10.17
La sicurezza a Gaza è il nodo della riconciliazione tra Anp e Hamas
Palestinesi. Il premier Rami Hamdallah ha fatto ritorno ieri nella Striscia dopo quasi tre anni. Anp e Hamas sono più vicini ma è ancora da sciogliere il nodo del futuro di "Ezzedin al Qassam" la potente milizia del movimento islamico
di Michele Giorgio

Khaled Fawzi, capo dell’intelligence egiziana, ieri ha incontrato il presidente dell’Anp Abu Mazen prima di andare nella Striscia di Gaza e di partecipare al processo di riconciliazione in atto tra il movimento islamico Hamas e l’Anp a Ramallah. Non sorprende l’arrivo di Fawzi. Perché la ricomposizione di questa frattura che dura da oltre dieci anni, passa per un accordo sulla sicurezza e il ruolo degli apparati militari palestinesi. Non certo per il ritorno ieri a Gaza del premier dell’Anp Rami Hamdallah alla testa di una delegazione di 120 persone. «Senza l’unità geografica tra Gaza e Cisgiordania non ci potrà essere uno Stato palestinese» ha detto Hamdallah al suo arrivo a Gaza, aggiungendo che «il primo obiettivo del governo di riconciliazione nazionale sarà quello di alleviare le sofferenze della popolazione palestinese». Il premier però sa bene che la riunione del suo governo oggi a Gaza resterà simbolica se non ci sarà un’intesa su chi gestirà la sicurezza nella Striscia e sul ruolo delle Brigate “Ezzedin al Qassam”, il braccio militare di Hamas. Senza un accordo su quei punti, Gaza sarà di nuovo sotto l’autorità del “Comitato di amministrazione” creato dal movimento islamista a inizio anno e dissolto nei giorni scorsi in accoglimento di una delle richieste presentate da Abu Mazen.
Più di quello di Hamdallah è fondamentale il ritorno a Gaza di Majdi Faraj, il potente capo dell’intelligence dell’Anp. Faraj ieri sera doveva incontrare, alla presenza di Khaled Fawzi, il capo di Hamas a Gaza Yahya Sinwar che, prima di essere un leader politico, è uno dei fondatori e comandanti militari di “Ezzedin al Qassam”. Un faccia a faccia decisivo per discutere non dei 40mila “dipendenti pubblici” di Hamas a Gaza che Abu Mazen non intende assorbire nell’Anp – alla fine una via d’uscita si troverà se l’obiettivo è la riconciliazione – ma capire quale dovrà essere il futuro del braccio armato del movimento islamista. L’Anp in passato ha chiesto più volte lo scioglimento di questa milizia – ben armata ed addestrata – ma è chiaro a tutti che ciò non avverrà mai, come ha perentoriamente ribadito qualche giorno fa Musa Abu Marzouq, numero due dell’ufficio politico di Hamas.
Tra le ipotesi che sono circolate in questi giorni c’è il riconoscimento di “Ezzedin al Qassam” come una sorta di “guardia scelta” a difesa di Gaza, assorbita nella struttura di sicurezza dell’Anp ma agli ordini dei leader di Hamas e non di Abu Mazen. Una soluzione difficile da digerire per il presidente palestinese che però in cambio otterrebbe l’estensione della sua autorità su Gaza e il dispiegamento lungo il confine tra la Striscia e il Sinai egiziano della sua guardia presidenziale. Dovesse accettare questo compromesso Abu Mazen guadagnerebbe anche il sostegno dei leader di Hamas alla creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est accanto a Israele come peraltro prevede lo Statuto del movimento islamico approvato prima dell’estate.

il manifesto 3.10.17
István Mészáros, la critica radicale al capitalismo
Addii. Scompare il filosofo marxista allievo di Lukács, autore di «Socialismo o barbarie». La sua ricezione in America latina, Chavez lo insignì del premio «Libertador»
István Mészáros
di Antonino Infranca

La morte, avvenuta il primo ottobre, di István Mészáros, priva la cultura marxista mondiale di una delle figure più rilevanti.
Autore di decine di libri, di cui solo alcuni sono stati tradotti e pubblicati in italiano, era particolarmente conosciuto in America latina.
Mészáros, nacque il 12 dicembre 1930 a Budapest e fu allevato dalla sola madre, operaia in una fabbrica di motori aerei. A dodici anni, falsificando la sua data di nascita, riuscì a farsi assumere dalla stessa fabbrica in cui lavorava la madre, così da migliorare le condizioni economiche della piccola famiglia.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’instaurazione del regime comunista in Ungheria, poté frequentare l’università e diventare prima allievo e poi assistente di Lukács, nella cattedra di Estetica. Fece parte di quella che si può definire la Prima Scuola di Budapest, insieme a Agnés Heller, Ferenc Feher, István Hermann, Dénes Zoltai, Miklos Almasi.
A causa del «Dibattito Lukács», che costrinse il vecchio filosofo ad abbandonare la vita pubblica e, quindi, anche l’insegnamento, subentrò nella cattedra del maestro. Rimase sempre legato affettivamente a Lukács e non lo abbandonò, nonostante il regime stalinista di Rakosi, lo considerasse «persona non gradita».
La Rivoluzione del 1956 e la sua partecipazione nelle file anti-staliniste, lo costrinsero a lasciare l’Ungheria.
LA SCELTA DELL’ESILIO cadde sull’Italia, soprattutto potendo usufruire dell’aiuto pratico di Cesare Cases e dell’aiuto economico di Lukács, che gli mise a disposizione i fondi dei suoi diritti d’autore, infine Norberto Bobbio riuscì a fargli avere una cattedra di Letteratura Ungherese all’Università di Torino.
In quegli anni pubblicò il suo primo libro in italiano, Attila Jozséf e l’arte moderna, seguito da La rivolta degli intellettuali in Ungheria, dove poté esporre sia la sua personale esperienza che quella del suo maestro Lukács durante i concitati giorni della Rivoluzione del ‘56.
E sempre in Italia conobbe l’amatissima moglie, Donatella.
PURTROPPO L’UNIVERSITÀ italiana non seppe offrirgli le condizioni adatte, affinché rimanesse nel nostro paese.
Fu così costretto a trasferirsi in Scozia, prima presso l’Università di St. Andrew, poi in Canada presso l’Università di York e infine in Inghilterra presso l’Università del Sussex, di cui era professore emerito dal 1991, quando ha lasciato l’insegnamento.
I suoi legami con la cultura italiana sono sempre rimasti stabili, pubblicando diversi libri nella nostra lingua, quali La teoria dell’alienazione in Marx, Socialismo o barbarie, Alternative alla società del capitale, Letteratura, storia, coscienza di classe, dedicato al suo maestro Lukács.
Infine l’anno scorso la casa editrice Punto Rosso ha pubblicato la sua grande opera: Oltre il capitale (recensita qui).
Sfortunatamente in italiano non sono state tradotte altre opere fondamentali di Mészáros, soprattutto i volumi sull’ideologia, sull’educazione, sulla coscienza di classe e la struttura sociale e una grande monografia su Sartre.
Aveva iniziato a scrivere una critica allo Stato, di cui aveva pubblicato un primo volume in portoghese, opera che rimane incompiuta.
IN AMERICA LATINA, e in particolare in Brasile, aveva trovato una vasta ricezione, come è diventato consueto in questi decenni a proposito della diffusione del pensiero marxista.
Chavez lo aveva insignito del premio «Libertador» per il pensiero critico, facendone un punto di riferimento della sua rivoluzione politica.
A differenza degli altri membri della Scuola di Budapest, che hanno abbandonato il pensiero di Lukács, Mészáros ha mantenuto sempre un legame speciale con il suo maestro, criticandone alcune concezioni man mano che andava assumendo una propria fisionomia intellettuale, eppure rimanendo sempre sia dentro l’universo teorico del marxismo, sia riferendosi costantemente al pensiero di Lukács.
Con lui conservò rapporti affettivi e umani che andavano oltre le critiche, dando la dimostrazione di essere umano intero, con un proprio pensiero sempre più originale, ma anche cosciente che il suo stesso pensiero aveva, a sua volta, un’origine, il pensiero di Lukács.
A chi lo ha conosciuto personalmente, dava la netta sensazione di avere appreso dal maestro la caratteristica più importante per un pensatore: essere un uomo buono.
MÉSZÁROS è stato un critico radicale del capitalismo, riuscendo a sviluppare una critica non eurocentrica, ma aperta alle tematiche della neo-colonizzazione, dello sfruttamento del Terzo Mondo usato, a sua volta, come strumento di sfruttamento anche del Primo Mondo.
Si è schierato per una sempre maggiore democratizzazione dei sistemi sociali ed economici, spingendo verso un crescente controllo sociale sulla produzione economica, cercando, quindi, di superare la logica del profitto.
Nella sua opera magna, Oltre il capitale, ha sviluppato anche una critica al socialismo realizzato nei paesi dell’Est Europa, considerandolo come un capitalismo di Stato, asservito alla logica del profitto.
In questa opera ha ritenuto insufficiente la critica del suo maestro non accettando l’idea lukacsiana che il socialismo realizzato potesse essere riformabile. Nella sua critica al capitalismo e al socialismo realizzato ha ripreso molti temi del Marx dei Grundrisse, per mostrare come la logica del profitto sia ancora il fondamento di ogni relazione sociale di lavoro nel mondo di oggi.
Ha posto, quindi, la necessità di creare alternative a questa logica relazionale per superare lo sfruttamento dell’essere umano.
Non c’è dubbio che la perdita di un pensatore della sua levatura sia enorme e difficilmente colmabile.

Corriere 3.10.17
il calvario della Turchia
Milioni di morti e un impero smembrato ma l’accordo Sykes-Picot c’entra poco
di Paolo Mieli

Quando nel 1923, dopo oltre 11 anni di guerra, scese la pace sugli ex possedimenti ottomani, fu difficile calcolare il numero delle vittime. Quattro o cinquecentomila soldati erano morti nel corso della Prima guerra mondiale. I morti, però, furono molti di più. La popolazione che abitava in terra turca prima del 1911 ammontava a 21 milioni di persone. Nel 1923 si era ridotta a meno di 17 milioni. Uno degli imperi che la Grande guerra portò via con sé fu quello ottomano. Ma il mondo arabo nei decenni che precedettero la Prima guerra mondiale non era affatto stabile. Era forse meno violento di come sarebbe stato nella versione postbellica posta sotto la tutela anglo-francese, però in luoghi come la Mesopotamia, la sovranità ottomana nel 1914 «era perlopiù una finzione, anche se probabilmente utile e costruttiva». Così Sean McMeekin in Il crollo dell’Impero ottomano. La guerra, la rivoluzione e la nascita del moderno Medio Oriente 1908-1923 , che esce oggi per Einaudi nell’eccellente traduzione di Daniele Cianfriglia e Chiara Veltri. L’Impero ottomano era durato per più di sei secoli prima di naufragare nella guerra del 1914-18. Dal 1517 al 1924 (tranne un breve interregno, dal 1802 al 1813, in cui gli insorti wahhabiti erano saliti al potere) i sultani avevano dominato i luoghi sacri islamici dell’Arabia, «legittimandosi, agli occhi dei fedeli musulmani, come califfi dell’islam». In cambio di questa legittimazione, i sultani ottomani avevano offerto ai sudditi «un’identità comune e l’orgoglio di appartenere a un grande impero, un orgoglio provato soprattutto dai musulmani ma condiviso anche, in qualche misura, dalle vaste minoranze ebraica e cristiana dell’impero, la cui protezione dipendeva dal sultano».
Poi venne la guerra. Per quel che concerne il discorso sulle persone «scomparse» tra il 1911 e il 1923, i numeri, per McMeekin, sono calcolati con «rozze approssimazioni» e «non è chiaro quale sia il dato dell’emigrazione a fronte di quello delle perdite dovute a malattie, denutrizione e altre cause più direttamente legate al conflitto». Si tende però a «concordare sul fatto che i tassi di mortalità per l’impero nel suo complesso si avvicinarono al venti per cento, un numero sconvolgente se lo si confronta ai peggiori dati pro capite sul fronte occidentale che videro la Francia perdere il 3,5 per cento». I «nudi numeri dei morti e feriti» raccontano poi solo «una piccola parte della terribile guerra ottomana». Interi popoli, «in alcuni casi intere nazioni, furono sradicate da case in cui vivevano da secoli, insieme a tutto il loro stile di vita».
Qual era lo stato di quell’area in quel determinato momento? L’arrivo nella regione «di diplomatici, ingegneri e uomini d’affari europei era in corso da tempo e probabilmente avrebbe proiettato Palestina, Siria e Mesopotamia nell’orbita occidentale anche senza una guerra tra grandi potenze», mentre la Russia stava gradualmente conquistando la Turchia orientale e la Persia settentrionale. L’Impero ottomano aveva già perso l’Africa nella «guerra di Libia» (1911) e parte rilevante della Rumelia (i suoi possedimenti europei) nelle guerre balcaniche, insieme alla maggioranza delle isole dell’Egeo e del Dodecaneso. La decisione dei turchi di entrare in guerra nel 1914, scrive McMeekin, «si può interpretare come l’ultimo rantolante tentativo di prevenire il declino e la spartizione sfruttando la forza tedesca contro le potenze più pericolose che avevano mire sul territorio ottomano: la Russia, la Gran Bretagna e la Francia (grossomodo in quest’ordine)». Anche se gli Imperi centrali avessero vinto la guerra, come si illusero che potesse accadere allorché ottennero a Brest-Litovsk la resa della Russia bolscevica, prosegue lo storico, «una Germania vittoriosa probabilmente sarebbe finita in una posizione mandataria di supervisione dell’amministrazione e dell’economia turche». E persino in quel caso, «una Gran Bretagna pseudovittoriosa avrebbe potuto prendersi la Palestina, la Mesopotamia e la Siria ottomane in cambio dell’accettazione della posizione tedesca in Russia e Ucraina». Ragione per cui si può sostenere con McMeekin che «non esisteva uno scenario realistico in cui all’impero sarebbe stato possibile continuare a durare a tempo indeterminato in una specie di status quo ante ». All’epoca si prospettavano solo «opzioni peggiorative». E si può dire che tutto sommato fu saggia la scelta di Mustafa Kemal Atatürk di abbandonare l’impero ingovernabile a favore di uno Stato-nazione che i suoi uomini nuovi avrebbero potuto gestire «con mano ferma».
Non furono in quell’occasione solo il sultanato e il califfato ottomani a scomparire dalla faccia della terra. L’impero stesso, «dopo essere sopravvissuto a un assalto dietro l’altro nel corso di secoli, venne infine fatto a pezzi e mai più riassemblato». E se è vero che «tutti gli imperi producono caos e miseria quando crollano, oltre alle lamentele per un’età dell’oro di cosmopolitismo perduta e per uno spirito di tolleranza immaginario», va detto anche che, così come il crollo degli imperi degli Asburgo e degli Hohenzollern produsse un’era di intolleranza e di antisemitismo nell’Europa centrale, la caduta degli ottomani diede il via a un periodo di enormi problemi in Medio Oriente.
I n tutto il «caos cartografico» prodotto dalla Prima guerra mondiale, un fatto curioso è che sia i confini più duraturi sia quelli meno stabili furono tracciati nell’ex Impero ottomano. La «fragilità dell’insediamento postbellico nel Medio Oriente arabo è diventata un trito cliché negli ultimi anni, e l’ascesa dello Stato islamico nei territori della Siria e dell’Iraq è soltanto la più recente perturbazione». Di queste perturbazioni che hanno sconvolto le immense terre che rimasero fuori dai confini turchi, è consuetudine far risalire le colpe a Mark Sykes e Georges Picot, i due negoziatori (inglese il primo, francese l’altro) che nel 1916 per conto dei rispettivi governi tracciarono le linee di spartizione di quell’area. Lo ha fatto qualche tempo fa Patrick Cockburn sulla «London Review of Books» e, dopo di lui, un’infinità di uomini politici, analisti e commentatori. Quello dell’«accordo Sykes-Picot», lamenta McMeekin, «è divenuto un cliché , una formula abbreviata ormai sulla bocca di tutti, usata per spiegare la più recente rivolta in Medio Oriente». A giudicare dall’onnipresenza dei riferimenti nei media si potrebbe pensare che i due siano stati «gli unici attori di rilievo sul teatro ottomano della Prima guerra mondiale», e la Gran Bretagna assieme alla Francia la sola parte decisiva nella decisione delle sorti del territorio ottomano. Una tesi che già all’inizio degli Anni Sessanta faceva capolino nel film di David Lean Lawrence d’Arabia . Tra l’altro, osserva lo storico, «non è difficile comprendere la risonanza popolare della leggenda dell’accordo Sykes-Picot» dal momento che «nella nostra epoca postcoloniale, l’imperialismo e gli imperialisti, sepolti da tempo, sono facili bersagli su cui scaricare le responsabilità dei problemi odierni». Sykes e Picot, secondo questa vulgata, sarebbero la personificazione dei «peccati della Gran Bretagna e della Francia, il cui progetto di espansione coloniale, già in atto da secoli, raggiunse l’apogeo finale con l’apposizione della Union Jack e del tricolore francese nel Medio Oriente arabo, dove da allora ogni cosa cominciò ad andare male».
Inoltre, il sostegno della Gran Bretagna ai progetti sionisti con la dichiarazione Balfour del 1917, sarebbe stato «in questa drammatica vicenda di hybris e nemesis », un «passo troppo lungo» che avrebbe «risvegliato gli arabi da un sonno di secoli» e li avrebbe spinti a «insorgere contro i crociati contemporanei — europei e israeliani — che avevano sottratto le loro terre». Sicché tutto quel che riguarda i movimenti panislamici, la Fratellanza musulmana, Hamas, Hezbollah, Al Qaeda, Daesh e ogni nuovo gruppo che si proporrà di «cancellare i confini artificiali imposti dall’Europa», avrà in comune con gli altri il desiderio di «assestare il colpo di grazia sull’accordo Sykes-Picot».
Ma la sintesi dell’accordo Sykes-Picot proposta da queste versioni del passato mediorientale ha, secondo McMeekin, «ben poco in comune con la storia su cui teoricamente si basa». La spartizione dell’Impero ottomano «non fu decisa bilateralmente da due diplomatici, uno britannico e uno francese, nel 1916, bensì in una conferenza di pace internazionale tenuta a Losanna, in Svizzera, nel 1923, all’indomani di un conflitto che era durato quasi dodici anni e risaliva all’invasione italiana della Tripoli ottomana nel 1911 e alle due guerre balcaniche del 1912-13». Quasi dodici anni e non poco più di quattro, quanti ne durò la Prima guerra mondiale.
N é Sykes, né Picot «svolsero alcun ruolo degno di nota a Losanna, dove la figura dominante che incombette sui lavori fu quella di Mustafa Kemal, il nazionalista turco le cui armate avevano appena sconfitto la Grecia e (per estensione) la Gran Bretagna, nell’ennesimo conflitto durato dal 1919 al 1922». Persino nel 1916, «l’anno in teoria passato alla storia per il loro accordo segreto sulla spartizione, Sykes e Picot ebbero un ruolo secondario rispetto al ministro degli Esteri russo Sergej Sazonov che era ormai la vera forza trainante dietro la divisione dell’Impero ottomano, in tutto e per tutto un progetto russo». Progetto russo «riconosciuto come tale dai britannici e dai francesi quando fu chiesto loro di dare il proprio consenso al piano per la spartizione, già tra il marzo e l’aprile del 1915». L’accordo del 1916, poi, non conteneva neppure un accenno alla dinastia saudita che, dopo la conquista delle città sacre La Mecca e Medina, avrebbe formalmente governato l’Arabia ottomana dal 1924.
È ora di dire apertamente che nessuno dei «più famigerati confini postottomani — quelli che separano la Palestina dalla (Trans)Giordania e dalla Siria, o la Siria dall’Iraq, o l’Iraq dal Kuwait — fu tratteggiato da Sykes e Picot nel 1916». Nessuno. Perfino i confini che i due funzionari delinearono, come quelli che avrebbero separato la zona britannica, francese e russa in Mesopotamia e in Persia, «furono scartati dopo la guerra». Mosul, in Iraq, è il caso più celebre: fu prima assegnata ai francesi, finché gli inglesi non decisero che volevano i suoi campi petroliferi. Dopo che i russi siglarono una pace separata con i tedeschi a Brest-Litovsk, nel 1918, la zona che sarebbe spettata agli stessi russi secondo i patti del 1916, «venne dapprima sottratta e poi eliminata dalla memoria storica».
Coloro che oggi scrivono di Medio Oriente, secondo McMeekin, «non sbagliano a ricercare le radici dei problemi attuali di quell’area nella storia di inizio Novecento». Ma «i veri eventi storici sono più ricchi e di gran lunga più drammatici del mito». Perciò si dovrebbe «andare oltre il mito dell’accordo Sykes-Picot se si vuole comprendere l’impatto della Prima guerra mondiale su questa vasta regione, su cui essa ha lasciato tracce tangibili, da Gallipoli ad Erzurum, da Gaza a Baghdad». I fronti ottomani si estesero su «tre continenti e tre oceani coinvolgendo non solo la Gran Bretagna e la Francia ma tutte le altre grandi potenze europee (e alcune più piccole) oltre ovviamente agli ottomani stessi». Così, anche se coloro che «danno la colpa» a Gran Bretagna e Francia per il conflitto infinito in Palestina, Libano e Siria «presentano delle argomentazioni plausibili» — nel senso che l’antichissima politica imperiale del divide et impera , applicata a una regione già frammentata, «contribuì a esacerbare le tensioni esistenti tra arabi ed ebrei, cristiani e musulmani, musulmani sunniti e sciiti» —, tutto questo non basta.
Chi ricorre a quelle argomentazioni, dovrebbe ricordare che le potenze d’occupazione ritirarono le ultime truppe dalla regione nel 1946 e 1947, in tempi precedenti allo scoppio della prima guerra arabo-israeliana. Il teatro ottomano, «lungi dall’essere ai margini della Prima guerra mondiale, fu centrale sia per lo scoppio del conflitto europeo nel 1914, sia per l’accordo di pace che vi pose davvero fine». La «guerra di successione ottomana» come potremmo chiamare il più ampio conflitto dal 1911 al 1923, fu una battaglia epica come si comprende dalle «figure leggendarie» che la resero celebre. E qui McMeekin elenca le principali: Ismail Enver, Ahmed Cemal e Mehmed Talat, il triumvirato dei «Giovani Turchi»; sul versante tedesco il Kaiser Guglielmo II, l’ammiraglio Wilhelm Souchon e Otto Liman von Sanders; su quello britannico Horatio Kitchener, Winston Churchill, T.E. Lawrence e David Lloyd George; Sergej Sazonov, il granduca Nicola, Nikolaj Judenic e Aleksandr Kolchak in Russia; al-Husayn, sceriffo della Mecca e i suoi figli Faysal e Abd Allah insieme a Ibn Saud in Arabia; Eleftherios Venizelos e re Costantino in Grecia; e, «non ultimi», Kazir Karabekir, Ismet Inonu e Mustafa Kemal, padri della Repubblica turca. Altro che Sykes e Picot con quello che simboleggiano e che ancor oggi, con una buona dose di semplificazione, si fa a loro risalire. Personaggi che quasi scompaiono al cospetto dei giganti di cui qui si è tracciato un primo, provvisorio, elenco.