Il Fatto 25.10.17
Un populista di nome Matteo Renzi
di Maurizio Viroli
Lo
slogan dominante della campagna elettorale di Matteo Renzi è che il suo
Pd è l’unico argine contro i populismi di Berlusconi e della Lega da
una parte, e del Movimento 5 Stelle dall’altra. Lo ha già ribadito più
volte e lo ripeterà ad nauseam fino alla vigilia del voto, forse perché
ha sentito dire che l’antica metafora dell’argine è efficace: evoca una
salda difesa contro inondazioni e alluvioni che tutto travolgono e tutto
distruggono.
Fin qui le parole. Come sempre avviene quando si
tratta di Renzi, i fatti sono altri. Anche l’ultima esternazione in
ordine di tempo, il tentativo di presentarsi come fustigatore
dell’establishment scagliandosi contro la conferma di Ignazio Visco alla
guida di Bankitalia perché il Pd deve stare “con i risparmiatori” e non
“con i salotti della finanza”, mostra inequivocabilmente
irresponsabilità politica, scorrettezza nei confronti del presidente del
Consiglio e disinteresse per gli equilibri istituzionali e dunque è da
manuale di populismo.
“È Berlusconi il populista”, denuncia Renzi.
Verissimo. Ma da quando Renzi è assurto alla popolarità, ha dimostrato
una spiccata propensione a stringere accordi con Berlusconi, non a
combatterlo. L’allora sindaco di Firenze si è recato in visita ad Arcore
(dicembre 2010) per incontrare Berlusconi, presidente del Consiglio,
presso la di lui dimora privata, dimostrando poco rispetto per le
corrette forme istituzionali. Diventato segretario del Pd, si è
affrettato a stringere col suddetto Berlusconi, nel frattempo condannato
in via definitiva per frode fiscale (maggio 2013), il “patto del
Nazareno” (18 gennaio 2014). Poche settimane or sono ha rinnovato
l’alleanza col “maestro” e con l’altro schieramento populista, la Lega,
per far approvare un’oscena legge elettorale disegnata per ritornare al
governo con Berlusconi. Davvero il modo migliore per arginare la marea
populista.
Caratteristica dei capi populisti è l’abilità di
conquistare il potere tuonando contro la classe al potere, senza
distinguo alcuno, rea di non capire le legittime esigenze del popolo. Da
questo punto di vista Renzi ha credenziali di prim’ordine. Egli deve la
sua ascesa allo slogan della rottamazione nei riguardi non solo dei
vecchi dirigenti del Pd ma di tutta la vecchia classe politica (per lui
Berlusconi era un “nonno”).
Per poter accontentare la voglia del
popolo di avere un capo vero, il capo populista non può tollerare che il
suo partito abbia minoranze interne combattive. Detto fatto: ecco il
Renzi muovere con il “lanciafiamme” (8 giugno 2016) contro i nemici
interni per essere certo di avere attorno soltanto docili sostenitori e
servi sciocchi.
I capi populisti prosperano istigando e attizzando
l’odio del popolo per i politici. Renzi ha applicato la lezione alla
perfezione proclamando di mandare a casa un buon numero di parlamentari
con un linguaggio da far fremere di gioia il popolo più becero: “Uno,
due, tre, morto” (31 maggio 2016). Dietro gli slogan e le battute a
effetto, però, si insinua qualcosa di ben più pericoloso: il tentativo
di indebolire i corpi intermedi di rappresentanza, quali sono i partiti,
ai suoi occhi un fastidioso ed inutile orpello.
Bersaglio dei
capi populisti sono sempre stati gli intellettuali colpevoli anch’essi,
al pari dei politici, di non sostenere i veri interessi del popolo.
Richard Nixon coniò per il raffinato politico e intellettuale Adlai E.
Stevenson l’epiteto “testa d’uovo”. Renzi ha notevolmente arricchito il
vocabolario populista rovesciando sugli intellettuali che si opponevano
alla sua riforma costituzionale una variegata sequela di epiteti: gufi,
professoroni, rosiconi, parrucconi, soloni e altri ancora. Merita una
menzione nelle antologie del pensiero populista.
Nella commedia I
cavalieri, Aristofane tratteggia in maniera insuperabile il principio
fondamentale del populismo: “Guidare il popolo non è cosa per uomini
colti e di buoni costumi, ma per gli ignoranti e gli spudorati”. Anche
da questo versante Renzi ha le carte in regola. Ogni volta che parla
dimostra una conoscenza approssimativa della lingua italiana (per non
parlare di quelle straniere) e della logica. Anche con il diritto
costituzionale e con la storia non va proprio forte: laureato in
giurisprudenza e grande riformatore costituzionale, ha scoperto la norma
transitoria che dice “così non va bene”.
Quanto alla spudoratezza
il Renzi ha superato tutti. Soltanto una persona priva del sano
sentimento della vergogna poteva tradire un compagno di partito e
pronunciare la frase “Enrico stai sereno” mentre tesseva trame per
spodestarlo, o arrancare verso Palazzo Chigi dopo aver dichiarato più
volte che se avesse perso il referendum avrebbe lasciato la politica; la
politica, si noti, non la carica di presidente del Consiglio.
Se vogliamo salvarci dal populismo, dunque, dobbiamo liberarci di Renzi, non richiamarlo al potere insieme a Silvio Berlusconi.