Il Fatto 25.10.17
Il piccolo schermo ha il suo nuovo volto: papa Francesco
Da stasera Bergoglio sarà ospite fisso di “Padre Nostro” su Tv2000 I ricordi della sua vita per introdurre la preghiera: “La volta in cui mi tolsero le tonsille”
Il piccolo schermo ha il suo nuovo volto: papa Francesco
di Ferruccio Sansa
Il Papa contro Un posto al sole, Csi e Otto e mezzo. Chissà chi avrà lo share più alto questa sera alle 21. Certo è la prima volta che un pontefice è ospite fisso di un programma. Che lo apre con un intervento.
Non è esagerato dire che Padre Nostro (da stasera ogni mercoledì in onda su Tv 2000) si presenta come il programma di Francesco. Basta vedere le immagini della prima puntata. Davanti al Papa c’è il conduttore del programma, don Marco Pozza, un sacerdote nemmeno quarantenne. Quel prete che è cappellano del carcere di Padova e che in Veneto era diventato famoso perché andava a predicare il Vangelo nei bar frequentati dai giovani: “Don Spritz” lo avevano soprannominato i ragazzi. E adesso eccolo davanti al Pontefice: nessuna tonaca, nemmeno un clergyman, ma una giacca con le toppe e le scarpe da ginnastica. Francesco per introdurre la preghiera insegnata da Gesù non parte dalla teologia, ma dalla sua vita. Il Papa delle parabole, come ha detto qualcuno. Così Bergoglio per parlare del Padre racconta di suo papà: “Ricordo una volta, quando avevo cinque anni, mi sono operato alla gola, non so come si dice in italiano, quando ti tagliano le… in spagnolo è amìgdalas (tonsille, ndr). In quel tempo – prosegue Francesco usando, quasi inavvertitamente, l’espressione che ricorre nel Vangelo – quell’operazione si faceva senza anestesia e ti facevano vedere il gelato che ti avrebbero dato. Poi ti mettevano qualcosa nella bocca aperta, ti prendeva l’infermiere, tu non potevi chiudere la bocca e il medico con una forbice tagliava le tonsille senza anestesia. Poi ti davano il gelato ed era finita… Questa esperienza di un bambino davanti al padre che insegna, ci fa capire un po’ il rapporto con la grandezza di Dio, ma anche con la vicinanza. È il Dio che è grande, il Dio della gloria, ma che cammina con te e ti dà pure il gelato quando è necessario”.
Francesco sarà ospite fisso con pillole di cinque, dieci minuti che andranno in onda all’inizio del programma. Fino all’ultima puntata, quella del 20 dicembre, di cui sarà protagonista. Ma anche la scelta degli ospiti – a ognuno sarà affidato un versetto del “Padre Nostro” – dei primi otto appuntamenti settimanali porta il segno di Francesco: la scrittrice Silvia Avallone (“Padre Nostro, che sei nei cieli”), Erri De Luca (“Sia santificato il tuo nome”), Maria Grazia Cucinotta (“Venga il tuo regno”), gli alpinisti e scrittori Simone Moro e Tamara Lunger (“Sia fatta la tua volontà”), Carlo Petrini (“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”), Flavio Insinna (“Rimetti a noi i nostri debiti”), Umberto Galimberti (“E non ci indurre in tentazione”), fino a Pif (“Ma liberaci dal male”). Un’alternanza di personaggi televisivi e altri più ‘colti’. Molti di loro, però, non sono credenti. E nel programma lo dicono apertamente.
In ogni puntata si parlerà di un mestiere e verrà raccontata una storia. Ci saranno detenuti e suore, astronauti e sportivi come Valentina Vezzali. Tutti insieme – secondo don Pozza e l’altro autore Andrea Salvatore – dovrebbero comporre il ritratto della preghiera.
Si parte stasera. Ne è passato di tempo da quando papa Giovanni Paolo II telefonò a Porta a Porta il 13 ottobre 1998. Oggi Francesco si presenta direttamente in tv e non sulla Rai. Speriamo che Bruno Vespa non ci resti troppo male.
La Stampa 25.10.17
Legge elettorale al Senato
La fiducia alza lo scontro
Ora tra i renziani scatta la paura di perdere i collegi per il “nemico a sinistra”
di Carlo Bertini
E ora che il «Rosatellum» viene dato per fatto, che la legge elettorale sta per passare con una raffica di cinque voti di fiducia tra gli strepiti dei 5 Stelle e l’invasione del banco di Grasso da parte della sinistra, anche tra i renziani si diffonde il timor panico della sconfitta nei collegi: non sono solo quelli delle correnti di Franceschini e di Orlando, ma anche alcuni dei più vicini a Renzi nei conversari privati la vedono male. E vedrebbero bene una coalizione con Mdp, ben sapendo che correre con il nemico a sinistra è il modo migliore per non battere gli avversari. «Dovremo valutare a seconda dell’esito elettorale in Sicilia, quanto forte sarà il pressing delle correnti per riaprire una discussione con Mdp», dicono gli uomini del leader.
Le proiezioni che alcuni dirigenti Dem di una regione rossa si son fatti fare in base ai flussi mostrano scenari da brivido a favore del centrodestra, dal Nord-Est al Sud, con qualche scampolo di luce al Centro-Nord. Nel cerchio stretto renziano notano che in questa fase ci sono molti pozzi inquinati messi in giro ad arte. «Guardate che sulla base dei voti del referendum di domenica, alcune aree del Nord le prendiamo», sdrammatizzava ieri in Senato Stefano Ceccanti, il costituzionalista Pd. Ma la paura della batosta fa novanta. Tanto che il primo effetto di questa nuova legge elettorale sembra essere il riaffiorare - ben nascosto - di una voglia di coalizione a sinistra. Malgrado i colpi da una parte e dall’altra: «Neanche Mussolini osò tanto», grida il bersaniano Fornaro dal palco della manifestazione contro la fiducia in piazza Navona. «Usciamo dalla maggioranza», sancisce Mdp salendo al Colle. Insomma rottura. Ma dietro le quinte c’è la consapevolezza che dopo il voto siciliano si potrebbero dover riaprire i giochi. Non solo gli ex alfieri del Pd delle origini voglioso di andare da solo al voto, «speriamo che approvata questa nuova legge tutti comincino a ragionare in termini di convenienze reali»; ma persino tra i fuoriusciti di Mdp: i quali in pubblico gridano che con Renzi non si farà nulla, ma nel chiuso dei loro summit sentono fare ad alcuni compagni ragionamenti più realisti, mirati a cercare una strada per uscire meno malconci dalle urne, ovvero un’alleanza col Pd renziano. Per evitare soprattutto di finire risucchiati dal «voto utile» che premierebbe il partito più grosso a scapito del piccolo.
Il polo che non c’è
«Nel 2007 dopo il Lingotto almeno avevamo l’alleanza con Bertinotti e i radicali», sbotta dunque Giorgio Tonini, pasdaran del Pd veltroniano. «Noi non abbiamo nessuno straccio di coalizione e sulla carta Berlusconi ha già vinto le elezioni». E anche se il Pd pensa di costruire un’alleanza a tre gambe, una a sinistra e una al centro, «non si inventano partiti per amor di coalizione. Al Nord l’alleanza Lega- Berlusconi è dura da superare, al Sud Dio ci aiuti e al centro gli scissionisti ci fanno perdere dove possono». Ecco, anche se i big come Rosato sono convinti che nei collegi il Pd può giocarsela eccome, un sentimento di scoramento aleggia tra le fila del Pd.
Napolitano in campo
A non votare la fiducia oggi saranno una manciata di senatori, Chiti, Tocci, Manconi e Micheloni, ma a non gradire questa legge son molti di più. L’evento più atteso di questa partita è l’intervento di Giorgio Napolitano: parlerà stamattina, «e la suspence è il sale della politica», ci scherza su Luigi Zanda. In realtà al governo, presente in Senato con diversi ministri, risulta che l’ex Presidente voterà la fiducia, pur criticandola aspramente e anche la legge, riservandosi una serie di critiche sui punti già delineati: come l’indicazione del capo politico della lista. Ma senza affondare il coltello nelle varie piaghe, almeno questa è la speranza.
Corriere 25.10.17
Palazzo Madama: il racconto
Bende e occupazioni. E c’è chi pensa al 1917
di Aldo Cazzullo
Grillini con benda sugli occhi tipo fucilazione o rito bondage, la De Petris che occupa la sedia del presidente, il governo che mette la fiducia; ma il tema del giorno diventa la Rivoluzione d’ottobre.
Tra i voti segreti respinti e la fiducia chiesta dalla povera e vituperata Finocchiaro, s’avanza l’uomo del momento: il professore operaista Mario Tronti, senatore pd. Dalle finestre del Senato arrivano gli strepiti dei manifestanti tenuti a bada dai carabinieri, ma sono altri i tumulti che vedono gli occhi di Tronti: «Il 24 ottobre del 1917, secondo il calendario giuliano, o il 7 novembre, secondo il calendario gregoriano, esplodeva nel mondo la Grande Rivoluzione russa...».
La scena è surreale, i grillini si guardano l’un l’altro ignari, il senatore a vita Rubbia interroga il suo vicino Bonaiuti: «Scusa, sono appena tornato da San Francisco dove ho commemorato i 75 anni della pila atomica di Fermi, ho ancora il jet-lag; chi sta parlando, e perché?». In effetti sarebbe il giorno in cui il Senato affronta il nuovo sistema elettorale detto Rosatellum, ma Tronti è ispiratissimo: «Soldati, operai, contadini russi, non sparate contro i soldati e i contadini tedeschi, ma voltate i fucili e sparate contro i generali zaristi!». Applaude il senatore sudtirolese Karl Zeller, forse per il sollievo di evitare le schioppettate delle guardie rosse.
I giochi per la legge sono quasi fatti. L’accordo è che i grillini parleranno cinque ore, Forza Italia dieci minuti, la Lega zero. Cinque moschettieri del Pd mantengono le loro riserve: Mucchetti, Manconi, Tocci, Chiti, Micheloni. Il prodiano Tonini voterà sì per disciplina di partito: «Ma non è una legge sincera, perché non darà un vero vincitore; e non è una legge conveniente per noi, perché l’unico che può fare le coalizioni è Berlusconi». Il capogruppo di Forza Italia Romani, indicato come il vero padre del provvedimento, non smentisce: «Manteniamo l’impianto proporzionale, ci prepariamo a fare il pieno di collegi al Nord e non solo; che vogliamo di più?». Tronti con il corpo è qui, ma con la mente è a San Pietroburgo con Lenin e Trotzky: «La lucida strategia dei bolscevichi contro i menscevichi era che i comunisti dovevano mettersi alla testa della rivoluzione democratica...». Il ciellino Mario Mauro, ex ministro passato all’opposizione, dà mano al libro nero del comunismo: «E i 20 milioni di kulaki fatti morire di fame? E Pol Pot che faceva sparare a chiunque avesse gli occhiali?».
Alla fine anche Napolitano voterà sì alla legge, pur criticandone l’impianto. «Sono nove anni che ci fa una testa così sulla riforma elettorale — si sfoga un senatore pd —, ora che l’abbiamo fatta ci manca solo che voti contro». Neppure Calderoli, padre del Porcellum, è entusiasta: «Dovendo scegliere un vino, che sia bianco o rosso; il rosatello non lo bevo mai». È qui a Palazzo Madama anche l’avvocato Ghedini, come solo nelle grandi occasioni. Tronti invece è già alle porte del Palazzo d’Inverno: «La rivoluzione partì su tre parole d’ordine, pace pane terra, che toccarono il cuore dell’antico popolo russo. Per questo vinse l’assalto al cielo, già tentato dagli eroici comunardi di Parigi...». Gasparri arriva trafelato e si indigna: «Allora uno di noi potrebbe alzarsi il 28 ottobre a commemorare la marcia su Roma!».
Nell’attesa, la rissa si accende all’annuncio del voto di fiducia. I fotografi strapazzano i cronisti: «Via di lì, che mi copri i grillini!». Ma a sorpresa parte subito forte la De Petris, che innalza il cartello rosso «Zero fiducia» affiancata dall’eroico Mineo, e poi occupa lo scranno del presidente Grasso. Minniti si guarda attorno malinconico con l’aria di chiedersi «che ci faccio qui?».
I Cinque Stelle restano seduti: «Chiedo di essere inquadrato!» reclama il capogruppo Endrizzi. I commessi si preparano a intervenire, spalleggiati dal biondo Malan di Forza Italia. Finalmente in favore di telecamera, i grillini a simboleggiare la cecità della democrazia indossano le bende bianche, quasi tutti sugli occhi, qualcuno forse per sbaglio sulla bocca. Tronti, sconfitti i nemici del popolo, vola altissimo: « L’anima e le forme è lo splendido titolo di un libro del giovane Lukàcs che esce nel 1911. Era l’anima dell’Europa... Colleghi, lo spirito anticipa sempre la storia!». In tribuna assiste una scolaresca attonita. Minniti interviene protettivo: «Guai a chi me lo tocca, Tronti è sulla mia linea. Pane e ordine; la sicurezza è di sinistra».
Resta il fatto che, con la fiducia, di legge elettorale quasi non si discute. Le votazioni scavano un solco a sinistra tra Pd e scissionisti. E isolano i grillini, che occupano i banchi del governo, mentre la De Petris viene portata via di peso. Oggi Forza Italia e Lega non parteciperanno al voto ma i numeri sembrano certi, i verdiniani sono con il governo; il problema potrebbe essere il numero legale, ma Gasparri ha pensato anche a questo: «Qualcuno di noi è sempre in missione o malato, quindi abbasserà il quorum. Il senatore Fazzone ad esempio si è rotto un braccio». Potrebbe venire lo stesso. «Guardi la foto: è ingessato, non riesce neppure a indossare la giacca, che qui al Senato come sa è obbligatoria». Nel voto finale, giovedì mattina, non c’è fiducia, e anche la destra potrà votare la legge che la favorisce. Il capogruppo pd Zanda invita ad accontentarsi: «Guardiamo un attimo fuori di qui. La Spagna va in frantumi, il matto coreano arma i missili, Trump fa volare i B-52, da Mosca al Cairo passando per Istanbul è il festival della democrazia autoritaria; e noi facciamo i difficili sulla legge elettorale? Non potevamo far votare gli italiani in un modo al Senato e in un altro alla Camera».
Tronti è alla conclusione: «Vi dico che non sarei qui se non fossi partito da lì, qui a fare politica per gli stessi fini con altri mezzi; è un esercizio addirittura spericolato, ma entusiasmante, se entusiasmo può esserci ancora concesso in questi tristi tempi. Vi chiedo ancora scusa».
Corriere 25.10.17
Le mani libere dei partiti e le piccole-grandi intese
di Paolo Franchi
Negli anni, il quaranta per cento conquistato dal suo Pd nelle elezioni europee del 2013 si è trasformato per Matteo Renzi in un mantra, o forse in un’ossessione. Non si spiega altrimenti come Renzi, dopo la bruciante sconfitta nel referendum costituzionale, abbia pensato per qualche tempo di poter annettere al Pd il quaranta per cento ottenuto dai sì, rappresentandolo addirittura come un’ottima ragione per puntare dritto al voto anticipato. E tanto meno come faccia adesso a sostenere che, grazie al Rosatellum, il quaranta per cento (rieccolo!) dei voti al Pd e ai suoi alleati (quali?) gli consentirebbe di governare evitando imbarazzanti connubi.
Dice bene Michele Salvati (Corriere, 18 ottobre). Con la nuova legge elettorale che il Senato si appresta quasi sicuramente a varare, per avere una maggioranza, seppur risicata, alla Camera, come ha segnalato sul Sole 24 Ore Roberto D’Alimonte, il quaranta per cento dei seggi proporzionali può bastare, sì, ma a condizione di disporre del settanta per cento di quelli maggioritari. Bum: servirebbe un terremoto elettorale che però oggi è impensabile, e che in ogni caso, se si verificasse, avvantaggerebbe semmai la destra. La prospettiva più concreta sarebbe quindi l’ingovernabilità, se non fosse che la politica ha orrore del vuoto e, quando l’alternativa non c’è, se la inventa. Una maggioranza, numeri permettendo, potrebbe così anche prendere corpo, ma sulla base di una scomposizione, certo non indolore, delle coalizioni che si sono appena presentate agli elettori, l’una contro l’altra armata. Per intenderci: una piccola — larga intesa «di sistema» tra Pd e Forza Italia, o magari anche, chissà, una coalizione «antisistema» tra i Cinque Stelle e la Lega.
Almeno la prima di queste due possibilità, come tutti sanno, è nell’aria. Ma gli interessati la smentiscono con sdegno. Sarà un corpo a corpo con la destra fino all’ultimo voto, assicura Renzi. La sola idea di un’alleanza con il Pd non sta in piedi, gli fa eco Silvio Berlusconi. Come se il Rosatellum ci avesse restituito un’Italia a modo suo bipolare, se non proprio bipartitica come sperava diventasse, dieci anni fa, Walter Veltroni. Il perché di una simile rimozione della realtà è presto detto. Quelle due paroline, larghe intese, sono, in campagna elettorale, letteralmente indicibili: chi le pronunciasse, si condannerebbe da solo, in partenza, a perdere una valanga di voti. I più smaliziati ci avvisano che così funziona un sistema tuttora in misura preponderante proporzionale, ancorché ritoccato dal Rosatellum. Finita la stagione in cui agli italiani sapevano la sera delle elezioni chi li avrebbe governati negli anni a venire, siamo tornati ai tempi in cui erano i partiti a stabilire in assoluta libertà come avrebbero speso i loro voti, facendo e disfacendo alleanze a loro piacimento. In fondo, si osserva, nemmeno nella virtuosa Germania cristiano democratici, Spd, liberali e verdi hanno speso una sola parola, in campagna elettorale, per far sapere con chi si sarebbero alleati dopo il voto.
In realtà in Germania le cose non sono andate esattamente così: chi ha premiato liberali e verdi sapeva benissimo di candidarli a futuri partner di governo della Cdu, chi ha punito i socialdemocratici lo ha fatto quasi sempre per riportarli all’opposizione. E non andavano così nemmeno nella mai sufficientemente deprecata Prima Repubblica, o almeno nei tornanti cruciali della sua storia. Nelle elezioni del 1963, la cui posta era il nascente centrosinistra, un milione e passa di elettori dc che lo vedevano come il fumo negli occhi per contrastarlo votarono il Partito liberale di Giovanni Malagodi: non bastò. Nel 1968, un milione e mezzo di elettori socialisti che sottrassero il loro voto al Psi-Psdi unificati bastarono, invece, a decretare nello stesso tempo la fine dell’unificazione socialista e la crisi preagonica del centrosinistra medesimo. E nel 1976 i quattro milioni di italiani che votarono per la prima volta per il Pci certo non prevedevano che, dopo il voto, i comunisti avrebbero reso possibile con la loro astensione la nascita di un monocolore dc guidato da Giulio Andreotti, ma sapevano benissimo che il partito di Berlinguer era per il compromesso storico, non per l’alternativa di sinistra.
Insomma. Non solo nei sistemi maggioritari, ma anche in quelli proporzionali, i partiti avevano e hanno le mani meno libere (e il popolo sovrano ha più voce in capitolo) di quanto comunemente si dica. Nel nostro sistema non-si-sa-che-cosa non è così. E a un elettore non tifoso possono passare per la testa dei brutti pensieri. A differenza del 2013, i principali attori politici (soprattutto il Pd, perché le destre sono convinte di avere il vento in poppa) sanno di non poter conquistare la maggioranza, ma si presentano lo stesso come se questo, e solo questo, fosse il loro irrinunciabile obiettivo. Per i Cinque Stelle, che tra politica e propaganda non fanno troppe differenze, nessun problema particolare: semmai qualche vantaggio, perché potranno rappresentare i loro avversari come i ladri di Pisa. Ma gli altri? Dovremmo supporre che stiano scientemente per dare il via alla più ambigua (o magari alla più ingannevole) delle campagne elettorali? Forse, anzi, sicuramente, questi sono sospetti eccessivi e ingiusti. È più sensato, piuttosto, pensare che la maionese rischi di impazzire soprattutto per via dell’imperizia dei cuochi. Ma, anche in questo caso, non ci sarebbe proprio di che sentirsi rassicurati.
Repubblica 25.10.17
Luigi Di Maio
“Caccerò i manager di Stato lottizzati Legge elettorale, il Colle non sia complice”
Il leader M5S: “Entro marzo la mia squadra di governo”. “Con Fico opinioni diverse ma ci siamo chiariti”
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA. «Mattarella non firmi, non si renda responsabile dell’ennesima legge incostituzionale». Il candidato premier dei 5 stelle Luigi Di Maio oggi sarà davanti al Senato per protestare con Beppe Grillo e il resto del Movimento. Ma fino a ieri era in Sicilia, dove si sta giocando il tutto per tutto. E nei ritagli di tempo lavora alla squadra di governo: «Se vinceremo cacceremo tutti i manager lottizzati».
Il Rosatellum non vi piace. Ma, se non vi foste sfilati sul tedesco, non ci sarebbe. Avete sbagliato?
«È stato il Pd a far saltare tutto preferendo gli accordi sottobanco con il Svp al bene dei cittadini. Secondo lei è normale far saltare una legge elettorale per un emendamento tanto insignificante? La verità è che non avevano nessuna intenzione di approvarla».
Se Mattarella firmasse, il vostro rapporto diventerebbe difficile come con Napolitano?
«Ci rivolgiamo a lui con il massimo rispetto in quanto garante della Costituzione. Se questa legge sarà approvata dal Parlamento, gli chiediamo di valutare con attenzione i profili di incostituzionalità e di non firmarla. Se un domani la Corte Costituzionale dovesse bocciarla, e secondo noi accadrà, Mattarella ne sarebbe responsabile».
Perché accusate la Lega di tradimento? C’era un patto?
«Alla Lega interessano le poltrone. Appoggiando il Rosatellum, Salvini sta aprendo le porte a un governo Renzi-Berlusconi, si dovrebbe vergognare».
Eppure sui referendum del nord siete andati insieme, e siete insieme sulle critiche all’Ue e alla gestione dei migranti. Servirà, questo terreno comune, dopo il voto?
«Quella della Lega è un’opposizione di facciata. Per questo abbiamo sempre detto: mai alleanze con questi partiti».
Neanche in Sicilia?
«In Sicilia puntiamo alla maggioranza, il calore delle persone che incontro in questi giorni mi dice che possiamo farcela. Ma se così non dovesse essere, presenteremo un programma e chi vorrà potrà sostenerlo. Senza dare poltrone in cambio».
Rischiereste di cadere subito o di restare immobili. Perché non coalizzarvi almeno con liste civiche?
«Non facciamo trucchi per avere un voto in più. Nelle liste che sostengono Musumeci c’è un’emergenza legalità. Sono piene di impresentabili, c’è un candidato arrestato per truffa che si è dimesso da sindaco, ma ha la faccia di correre in regione, un altro che era stato arrestato per una compravendita di diplomi ».
Maria Elena Boschi la invita a un confronto pubblico sulle banche. Lei dice solo davanti a Banca Etruria. Scappa?
«No, ma — senza offesa per il sottosegretario — la Sicilia e i siciliani vengono prima di lei. Voglio anch’io un confronto tv, ma chiedo che si svolga in una piazza. Voglio proprio vedere se la Boschi ce la fa a mentire guardando i risparmiatori in faccia».
Roberto Fico, che si era rifiutato di salire sul palco della sua “incoronazione” a Rimini, oggi sarà in piazza con lei. Vi siete chiariti?
«In un gruppo è normale che si discuta e ci si confronti a viso aperto, ma resta il fatto che io e Roberto lavoriamo insieme per raggiungere lo stesso obiettivo: cambiare il Paese ».
Allora perché avete sempre negato che nei 5 stelle possano esserci posizioni diverse?
«Le posizioni e opinioni diverse sono una cosa, e noi non le abbiamo mai negate, anzi le riteniamo fondamentali. Altra cosa sono le correnti, che riguardano la spartizione del potere e delle poltrone e da noi non esistono».
Avete negato anche le visioni diverse, ne sono prova le minacce di espulsione sul blog. Prendo atto che vuole cambiare. Ora che è capo politico, farà lei le liste?
«Faremo le parlamentarie come nel 2013. Saranno gli iscritti a scegliere i candidati».
Il sindaco di Pomezia Fucci propone di abolire il vincolo dei due mandati: non si forma anche così una classe dirigente?
«Io sto scegliendo le migliori competenze senza che abbiano necessariamente un passato politico. La politica è un servizio, non una carriera ».
Non mi ha risposto. Cambierete quella regola?
«No».
Quando presenterà la sua squadra di governo?
«Prima di marzo. Sarà una squadra di eccellenze italiane».
Più tecnici o più politici?
«Sceglieremo i migliori per ogni ministero».
Non vuol dir nulla, i migliori. Dove li sta cercando?
«In questi anni abbiamo incontrato associazioni, organizzazioni non governative e in questi mesi abbiamo intensificato gli incontri per illustrare il nostro programma anche a manager, ricercatori, importanti dirigenti pubblici. È il bacino da cui attingeremo. Poi c’è un confronto continuo con i parlamentari che lavorano al programma».
Ma perché i migliori dovrebbero scegliervi, viste le esperienze di alcuni nelle vostre giunte?
«A Roma la squadra non è stata scelta prima del voto e questo ha creato problemi. Io farò tutto in anticipo, come ha fatto Cancelleri in Sicilia».
Se andrete al governo pensate di cambiare tutti i vertici delle aziende pubbliche, dalla Rai all’Eni?
«Valuteremo con attenzione. Chi occupa posizioni per merito resta, chi per raccomandazione politiche verrà mandato a casa».
L’assessora romana Castiglione — scrive “Il Messaggero” — ha assunto la sua ex socia. Il Movimento non è nuovo a casi di “familismo”. Due pesi e due misure, come sugli indagati?
«Non so nulla di questa storia, ma rifiuto quest’accusa: noi non facciamo due pesi e due misure. Ogni volta che abbiamo chiesto le dimissioni di un uomo delle istituzioni per un avviso di garanzia si trattava di reati gravi, incompatibili con un ruolo pubblico e con la nostra idea di etica politica. Questo principio lo abbiamo applicato agli altri come a noi stessi. Trovo abominevole la malafede dei partiti che provano a farci apparire come loro».
il manifesto 25.10.17
Il Rosatellum cancella il Senato
Legge elettorale. Cinque fiducie stroncano persino la discussione generale sulle nuove regole per il voto. I senatori non possono toccare il testo della camera. Oggi le critiche di Napolitano, poi una lunga sequenza di appelli nominali e domani l'ultimo atto. Diversi dissidenti nel Pd terranno il gradimento del governo ai minimi, sotto la maggioranza assoluta. malgrado l'appoggio pieno di Verdini
di Andrea Fabozzi
«Noi, senatrici e senatori, ci troviamo a decidere ogni giorno, con il nostro voto, se approvare o no un emendamento, se dire sì o no a una legge. In questa funzione siamo garantiti dalla Costituzione, che ci assicura una piena libertà di mandato. Questa grande libertà accresce di molto la nostra responsabilità e non dobbiamo sprecarla nel gioco degli interessi o nel commercio delle idee». Il capogruppo del Pd Zanda recitato queste parole nell’aula del senato, ricordando solennemente Guido Rossi. Pochi minuti dopo la ministra Finocchiaro a nome del governo e su richiesta del Pd chiede la fiducia su cinque dei sei articoli della legge elettorale (un articolo è immodificabile). Abbatte così di colpo tutti gli emendamenti e la possibilità del senato di discutere e votare le nuove regole con le quali tra pochi mesi si eleggerà il parlamento.
All’annuncio della fiducia, la capogruppo di Sinistra italiana De Petris si fa largo tra i commessi e corre a occupare la sedia del presidente Grasso, i 5 stelle si mettono una benda sugli occhi. Ma se la fiducia è un bavaglio, lo è soprattutto sul dissenso interno al Pd. Molti senatori dem hanno ormai capito che con il Rosatellum possono dimenticare la rielezione e nel voto segreto avrebbero potuto pesare, uniti ai delusi berlusconiani. Non sarebbero stati tanti i voti segreti, una decina, ma anche uno solo avrebbe esposto la corazzata Pd-Forza Italia-Lega e centristi a qualche rischio. E sarebbe stato difficile chiudere entro la settimana, prima cioè del voto siciliano.
La richiesta delle cinque fiducie – un record – abbatte prima della partenza la discussione generale sulla legge Rosato. Niente dibattito, non in commissione (per la diserzione della maggioranza) e nemmeno in aula. Mentre De Petris scala la presidenza – anche perché Grasso non le concede la parola in replica alla richiesta di fiducia – la conferenza dei capigruppo si apre con la richiesta delle opposizioni di poter almeno svolgere il dibattito sulle fiducie. Così ieri sera in un aula svuotata dai senatori Pd e forzisti, si succedono gli interventi di Sinistra italiana, M5s e Mdp. E di un solo Pd, Lumia, critico che però voterà sì. Oggi (a mezzogiorno) interverrà l’ex presidente Napolitano con le annunciate critiche alla fiducia e nel merito della legge. Scelta obbligata quella del senatore di diritto, perché nell’unico spazio di intervento sulla legge – quello prima della votazione finale che è prevista domani mattina – dovrà intervenire il presidente del suo gruppo (le Autonomie) che invece è più che favorevole alla legge, visto che cristallizza il trattamento di favore per i sudtirolesi di Svp. Dalle 14 di oggi pomeriggio in poi una sequenza di appelli per la fiducia, cinque, senza dibattito, segnerà il mesto approdo del Rosatellum alla meta. Fuori, in piazza Navona, la protesta grillina che poi si sposterà al Quirinale.
Al Quirinale sono saliti ieri pomeriggio i capigruppo di Mdp per formalizzare al presidente Mattarella la loro uscita dalla maggioranza. In altri tempi la sostituzione di un gruppo, i bersaniani, con un altro, i verdiniani, richiederebbe una verifica tra Colle e parlamento. Non a poche settimane dallo scioglimento della legislatura. Non con la sessione di bilancio aperta.
Il governo ha poco o nulla da temere sulle fiducie. Anche se una decina di senatori del Pd hanno intenzione di disertare il voto, per protesta contro il merito della legge (liste bloccate, divieto di voto disgiunto) e il metodo della fiducia. Tra gli altri Chiti, Tocci, Manconi, Mucchetti – cioè la parte rimasta nel Pd di quei senatori che non votarono l’Italicum (l’altra parte ha seguito la scissione di Bersani) – più gli eletti all’estero (Micheloni, Turano). E così i numeri per Gentiloni rischiano di fermarsi abbondantemente sotto la soglia della maggioranza assoluta (161) malgrado il sostegno dei 13 senatori verdiniani di Ala. Pochi voti, comunque sufficienti a evitare la crisi perché Forza Italia e Lega non voteranno contro il governo e probabilmente troveranno anche il modo di partecipare alle votazioni per evitare di far saltare il numero legale (eventualità possibile nel caso il resto delle opposizioni decidesse di uscire dall’aula). Per una nuova prassi – consentita nelle ultime tre votazioni a palazzo Madama sulla fiducia – è adesso possibile sfilare sotto la presidenza senza votare, distinguendo così anche al senato l’astensione dal voto contrario. Al Rosatellum serve anche questo.
il manifesto 25.10.17
Le astuzie anticostituzionali del Rosatellum
Legge elettorale. La trasmissione del voto dal candidato uninominale alle liste sembra violare in un colpo solo i principi del voto eguale, libero, personale e diretto
di Lorenzo Spadacini
Gli estensori del Rosatellum-bis devono essersi fatti prendere un po’ la mano dall’esigenza di escogitare un meccanismo che favorisca le coalizioni (centrodestra e centrosinistra) a discapito delle forze singole (sinistra e M5S). In questo tentativo, hanno finito per organizzare meccanismi legislativi di vero e proprio trasferimento del voto espresso dall’elettore, che, nonostante abbia apposto la croce su un simbolo o su un nome, favorirà l’elezione di liste e candidati che non ha affatto selezionato. Si tratta di astuzie che, però, non sembrano reggere ad uno scrutinio di costituzionalità.
Come ho sottolineato su questo giornale il 20 ottobre, la riforma elettorale in discussione al senato costringe l’elettore a un voto unico, sebbene preveda due distinti canali di costruzione della rappresentanza (i collegi uninominali maggioritari e i collegi plurinominali proporzionali). Nell’ossessione di garantire l’unicità del voto, la proposta prevede che, quando un elettore apponga la croce solo sul nome del candidato nel collegio uninominale, senza selezionare alcuna delle liste che lo appoggiano, il suo voto valga anche a favore di queste ultime. Nel caso in cui il candidato sia collegato ad una coalizione, si prevede che tale voto sia suddiviso pro quota tra le liste che la compongono.
Tale suddivisione avviene secondo la proporzione che è fissata da quegli elettori che, avendo votato quello stesso candidato, hanno anche espresso una preferenza per una delle liste della sua coalizione.
Per esempio, se in un collegio 70 elettori hanno votato la lista di Forza Italia e 30 quella della Lega, il voto dell’elettore che abbia votato per il solo candidato del centrodestra nell’uninominale, senza scegliere una lista, viene conteggiato per 7/10 a Forza Italia e per 3/10 alla Lega.
La trasmissione del voto dal candidato uninominale alle liste, però, sembra violare in un colpo solo i principi del voto eguale, libero, personale e diretto (artt. 3, 48, 56 Cost.). Infatti, gli elettori che selezionano il solo candidato nell’uninominale ma non votano alcuna delle liste che lo sostengono, in sostanza vengono espropriati del proprio voto, il quale è affidato dalla legge ad altri elettori che, votando per lo stesso candidato, esplicitano anche una preferenza per una delle liste collegate. Costoro, pertanto, si interpongono tra il voto del primo elettore e la sua destinazione finale a favore di una o dell’altra lista, così che il suo voto non è più né libero né diretto né personale, perché sono altri elettori a decidere per lui!
Se si guarda in controluce il meccanismo, inoltre, ci si avvede che esso viola anche il principio di uguaglianza, perché si realizza un marchingegno in cui alcuni elettori (quelli che esprimono il voto per una lista in coalizione) contano di più degli altri (quelli che votano per liste singole), potendo dirigere, con il proprio voto, anche il voto altrui.
Non a caso, è sempre stata prevista solamente la soluzione opposta: la trasmissione del voto dato ad una lista al candidato comune a più liste. Per esempio, nell’elezione dei consigli comunali, il voto dato a una lista che appoggia un certo candidato sindaco si trasmette anche a quest’ultimo. Questa trasmissione è sì imposta dalla legge, ma univocamente. Pertanto non vi è alcuna interposizione di altri elettori tra l’espressione di voto ad una lista e la sua destinazione al candidato sindaco da questa appoggiato. In questi termini, quindi, si tratta di una soluzione eventualmente criticabile solo sul piano dell’opportunità. La soluzione prevista nel Rosatellum-bis, invece, è censurabile, come si vede, proprio sul piano della sua costituzionalità.
Analogamente, si prestano alla medesima censura le regole sul trasferimento dei voti ottenuti dalle liste di una coalizione che si collochino tra l’1 e il 3%. Queste liste non otterranno seggi, perché la proposta prevede uno sbarramento del 3%. Si prevede però che i voti delle liste sotto il 3% che superino però l’1% vengano conteggiati a favore delle altre liste della medesima coalizione che abbiano superato il 3%. Anche qui il voto dato a una lista, che non ottiene seggi, viene indirizzato ad altri, ossia alle liste della coalizione cui la stessa appartiene, sulla base della decisione di altri elettori.
Anche in questo caso, infatti, i voti di questi elettori sono spalmati pro quota a altre liste. Così, per fare un esempio, il voto a favore della lista animalista della Brambilla potrebbe finire per produrre un seggio per un candidato leghista a favore della caccia! Il trasferimento dei voti delle liste tra l’1 e il 3% avverrà, nuovamente, sulla base della proporzione stabilita da elettori diversi da quelli che li hanno espressi (quelli che abbiano votato per una lista della stessa coalizione che abbia superato lo sbarramento). Come si vede, però, anche in questo caso i principi del voto eguale, libero, diretto e personale finiscono per risultare travolti.
Il Fatto 25.10.17
La stanca resa del Senato come nel 1923 a Mussolini
Oggi 5 fiducie in aula - Mdp va al Quirinale: “Fuori dalla maggioranza”. Sulla legge elettorale niente più pathos e Napolitano è l’eroe della resistenza di Palazzo
di Fabrizio D’Esposito
Il Senato viene tramortito da ben cinque fiducie sul Rosatellum, la legge elettorale più impresentabile del mondo, e Federico Fornaro dice: “È come nel 1923 con la legge Acerbo di Mussolini”. Seguono citazioni aggiuntive di De Gasperi sulla legge truffa del 1953 e Renzi sull’Italicum. Ma è quel paragone con il regime fascista che colpisce. Per un motivo preciso: sino alla fine del febbraio scorso, manco otto mesi fa, Fornaro era nel Pd. Oggi è in Articolo 1 e ieri mattina in aula a Palazzo Madama ha svolto un intervento molto intenso. Nel pomeriggio il suo umore peggiora dopo l’annuncio della fiducia. “Hanno tolto pure la discussione generale sul provvedimento. Certo che mi pesa questo paragone con il regime fascista, il Pd è un partito che ho contribuito a fondare e si è comportato pure peggio di Berlusconi, ma stavolta non vedo girotondi o assedi al Quirinale”. Amarezza e rassegnazione. E la rabbia per il tradimento delle radici antiche. Il Pd per quelli che oggi gridano al fascismo è come un papà degenere. Ma qui ci vorrebbe solo Freud. In serata Articolo 1 va anche al Colle per dire a Mattarella che non è più in maggioranza.
Il Senato e la democrazia parlamentare sembrano però morire in un clima senza sussulti. Certo, la combattiva Loredana De Petris di Sinistra Italiana occupa lo scranno del presidente Pietro Grasso e alcuni grillini si mettono le bende sugli occhi, ma tutto scorre verso una deriva ineluttabile. Ecco lo snodo di questo caos calmo, anzi di questa calma piatta che si osserva nel salone che porta all’aula. I senatori fanno avanti e indietro dalla buvette e poi si fermano amabilmente a parlare con altri colleghi. Il verdetto già scritto ammazza finanche il pathos. Nel citato ’53 della legge truffa del democristiano De Gasperi proprio a Palazzo Madama i compagni comunisti, Mauro Scoccimarro in testa, fecero volare sedie, bicchieri e persino banchi con annessi calamai. Era la Domenica delle Palme.
Ieri invece era il 24 ottobre, che nel calendario gregoriano corrisponde al 7 novembre. L’inizio della rivoluzione russa. Cent’anni fa. A ricordarlo in aula è Mario Tronti. Una rivoluzione con tre parole d’ordine: pace, terra, pane. Tronti dixit, facendo arrabbiare il vigilante democratico Maurizio Gasparri, ex Msi ed ex An, che trova “sconcertante e vergognoso” l’omaggio dell’anziano senatore comunista, tuttora nel Pd. Uno dei vari paradossi nel mortorio di ieri, preludio più al 2 novembre che al 7 rivoluzionario.
Il paradosso più evidente riguarda un altro ex comunista di rango: Giorgio Napolitano. L’uomo che si fece re al Quirinale per lunghi nove anni, imponendo Monti o firmando la riforma istituzionale con incorporato l’Italicum, si trasfigura nell’eroe della finta resistenza di Palazzo in questo caos calmo. Un paradosso, appunto. È suo il dissenso che più incute paura agli occhiuti uomini macchina del Pd renziano. “Zanda lo sta chiamando in continuazione per capire che dirà e come voterà”. Zanda di nome fa Luigi ed è il capogruppo dei democratici. In ogni caso, il mistero principe di questo mortorio sarà svelato oggi quando il presidente emerito, o Re Giorgio a seconda dei punti di vista, prenderà la parola in aula. Il suo intervento cambierà le sorti della disperata pugna?
Difficile, se non impossibile. Le assenze per congedo o missione faranno abbassare il numero legale. Si pronostica un maggioranza dai 136 ai 140 voti, di molto inferiore ai teorici 161. La mossa dovrebbe servire anche a non enfatizzare il voto degli scomodi verdiniani di Ala, considerati dal Pd non necessari. La direttiva dei renziani è di nasconderli, a cominciare dal loro capo Denis Verdini, considerato il vero autore del Rosatellum.
È così? Risponde l’indomito Vincenzo D’Anna che, nonostante il menisco malandato, oggi sarà in aula per votare: “Questo testo riprende molte cose dalla proposta originaria di Verdini. Denis è il migliore in materia. Questa legge è l’ideale per l’unico governo possibile: quelle delle larghe intese tra Berlusconi e Renzi”. Viva la sincerità. I verdiniani sono 14 e voteranno compatti a favore. La conferma è di Ciro Falanga, estensore di un noto ddl sull’abusivismo edilizio: “Ho illustrato il Rosatellum al gruppo e ho detto che è una buona legge”.
A scanso di equivoci, per blindarsi da brutte sorprese, anche il capogruppo azzurro Paolo Romani si è dato molto da fare, avvicinando colleghi di forze diverse per appurare il loro voto. Forza Italia non sarà presente, ma qualora dovesse servire fornirà uomini e donne per mantenere il numero legale. Tutto è compiuto, o quasi.
Il Fatto 25.10.17
Ezio Mauro
“No ad altre larghe intese, sarebbero un tradimento”
Parla dell’Italia e racconta il suo reportage sulla Rivoluzione russa del 1917, dalla caduta dello zar alla presa del Palazzo d’Inverno
di Silvia Truzzi
Cinque viaggi in Russia, un lungo respiro lontano dalla politica di casa nostra (“ero avvelenato di talk show”), mesi di studio: così è nato L’anno del ferro e del fuoco, cronache di una rivoluzione , prima reportage giornalistico, poi libro e mini tour teatrale. Sulla scrivania di Ezio Mauro, direttore di Repubblica per vent’anni, c’è un libro Einaudi. La copertina è staccata, il prezzo in lire (800), le pagine consumate dall’usura. “Andavo in giro per Mosca con Il maestro e Margherita, il libro fondamentale della Russia”. Se gli chiedi perché, cita una frase: “Tutto può ancora accadere perché nulla può durare in eterno”. Un racconto pieno di “particolari e combinazioni di particolari che fanno scoccare la scintilla” (Nabokov). Di una storia. O della rivoluzione.
Ha scritto: “Dovunque incontravo Nikolaj II, rimandava a un arcano per l’incapacità di capire quel che accadeva intorno a lui”.
Il potere, può capitare che sia insensibile fino all’autolesionismo. Lo zar non si rende conto che il suo mondo sta andando in frantumi. Non si rende conto o è prigioniero di un ruolo che sa interpretare solo in quel modo. Non può rompere il guscio dell’autocrazia perché la deve consegnare intatta a suo figlio, così come lui l’ha ricevuta dal padre. E perché lì sta la sacralità, l’investitura divina, del ruolo. Non riesce a uscirne, tanto che sembra quasi sollevato quando perde il trono. E poi c’è la capacità di adattarsi a spazi di vita sempre più ristretti: tiene un diario quotidiano, eppure si lamenta solo in due occasioni. Pietrogrado brucia e lui annota: è stata una bella giornata di sole.
Il potere è sordo: anche oggi?
Ho evitato di trovare analogie con il presente: i fatti del ’17 hanno una dimensione unica, non si può tirarli per la giacca. Semmai ci fanno riflettere sulla natura imperiale della Russia, un dimensione eterna, preesistente allo stalinismo e alla corazza sovietica. Credo che gran parte del consenso di Putin dipenda dal fatto che ha risvegliato quest’anima imperiale, restituendo alla Russia l’orizzonte di grande potenza. Lo sottolineo perché per noi occidentali è inspiegabile il consenso di Putin, visti i metodi autoritari che utilizza soprattutto con le opposizioni.
“Ho fatto il cronista di fatti di cento anni fa”. Che differenza c’è tra lo storico e il giornalista?
Lo storico è portatore di una scienza attraverso cui analizza i fatti. Il cronista va sul posto a verificare i segni del passato e quelli del presente. Sono andato nei luoghi anche quando i miei amici russi mi dicevano “è inutile, non troverai più nulla”. L’ho fatto per fiducia nella realtà: guardare è il miglior modo per cercare di capire e poi raccontare.
Un capitolo è dedicato agli intellettuali traditi dalla rivoluzione, dopo esserne stati in gran parte sedotti.
La maggioranza dell’intellighènzia russa ha scelto di stare dalla parte del popolo, ritenendo di doverlo emancipare e liberare dalle catene cui il potere lo aveva assoggettato. Aggiungiamo il fragore quasi futurista della rivoluzione di febbraio, l’idea di aderire a un moto di rinnovamento che poteva attraversare la cultura, trovare un’eco nelle arti. Si poteva, in quel momento, legittimamente pensare a un grande cambiamento dalla parte del popolo. E poi c’è stata la disillusione che li ha portati a prendere altre strade, alcune tragiche. Questi intellettuali disillusi sono i primi dissidenti. Non tutti, naturalmente: alcuni si sono piegati al conformismo che è la morte dell’anima.
Morbo attualissimo.
Vero: non abbiamo memoria storica, non ci ricordiamo cos’è accaduto nei vent’anni precedenti, facciamo finta di dimenticarcene…
Parliamo di Berlusconi, adesso?
Non solo. Fenomeni politici importanti sono stati ridotti a macchietta. La Lega è stata trattata come un’orda di barbari che avrebbe purificato il sistema. La stessa cosa, anche da parte di intellettuali progressisti, accade oggi con il Movimento 5 Stelle. Ma è una nuova destra, con posture mimetiche di sinistra e un’anima di destra. C’è un disprezzo totale delle istituzioni e il tentativo di fare di ogni erba un fascio, un tratto tipico della destra. Croce durante il fascismo parlava di “feroce gioia contro le istituzioni”. La felicità di poter dire che è tutto marcio, in attesa del redentore.
Mettere la fiducia sulla legge elettorale è rispetto per le istituzioni?
No. Ho scritto che è un colpo di mano. Il governo, poi, aveva dichiarato che voleva starne fuori. La maggioranza dimostra una scarsissima considerazione della capacità di convincere i propri parlamentari. La blindatura è anomala per una legge elettorale: la furbizia tecnica svela un orizzonte impaurito.
La legislatura è stata segnata dalla macchia della sentenza della Consulta sul Porcellum e anche dall’incapacità di produrre, con l’Italicum, una legge costituzionale.
Non c’è dubbio. È un segno di impotenza della politica, di distacco dai cittadini che porta acqua al mulino dei 5Stelle: spesso basta che stiano fermi e ricavano vantaggi dagli errori degli altri. Quando poi provano a governare succede quel che a Roma è sotto gli occhi di tutti. Credevamo che con Alemanno e Marino si fosse toccato il fondo, invece la città oggi semplicemente non è governata. Però i 5Stelle sono una setta e per loro la verifica dei fatti non ha grande importanza.
In primavera andiamo al voto: un altro governo di larghe intese con Berlusconi sarebbe un tradimento per gli elettori del Pd?
Un tradimento delle ragioni che hanno portato alla nascita del Pd. E soprattutto un disastro per l’Italia, perché imporrebbe al Paese una politica minima: i due partiti sono nati per contrastarsi, con due visioni opposte del Paese. Senza dire che Berlusconi è disinvolto, può fare un’alleanza e poi gettarla al vento se gli conviene: è libero da ogni vincolo ideologico ed esercita una potestà assoluta sul suo partito. Si stanno cercando al buio, Renzi e Berlusconi: la ratio di questo Rosatellum è quella di rendere possibile un’alleanza. Per il Partito democratico sarebbe pesante, potrebbe avere esiti difficili da prevedere. Forse addirittura un’altra scissione. Le larghe intese sono miopi, ma se ci fosse un vero patto costituente nel Paese potrebbero anche starci. Non è questo il momento, però, non sono questi gli attori. Sarebbe un patto di potere tra perdenti.
Il Fatto 25.10.17
Dateci almeno il diritto ai due voti disgiunti per non tradire la volontà degli elettori
Proposta - Come migliorare le norme: Azzariti, Pasquino, Pertici, Onida, Romboli e Viroli
Dateci almeno il diritto ai due voti disgiunti per non tradire la volontà degli elettori
Gaetano Azzariti (Università di Roma, La Sapienza),
Valerio Onida (Presidente emerito della Corte costituzionale),
Gianfranco Pasquino (professore emerito di Scienza politica, Università di Bologna),
Andrea Pertici (Università di Pisa),
Roberto Romboli (Università di Pisa),
Maurizio Viroli (Princeton University)
La proposta di legge elettorale in discussione al Senato prevede un sistema misto in parte proporzionale (per circa due terzi) e in parte maggioritario (per circa un terzo), che contraddice gli obiettivi dichiarati, non consentendo adeguatamente né la rappresentanza né la semplificazione politica e la conseguente maggiore stabilità degli esecutivi.
La parte maggioritaria, limitata nel numero e suddivisa tra diverse liste di una coalizione (con tanti programmi quanti sono i partiti), non riesce a ridurre la frammentazione politico-partitica, ma soprattutto le modalità con cui i due sistemi elettorali sono collegati non consentono una adeguata rappresentanza, mettendo a rischio la stessa personalità e libertà del voto.
Il sistema blocca il voto degli elettori che, tracciando un solo segno, devono prendersi un candidato uninominale e, insieme a questo, una o più liste.
Infatti, in una prima ipotesi l’elettore traccia la croce sul candidato nel collegio uninominale. Con questo voto egli si esprime automaticamente e inevitabilmente, senza poter fare nulla per evitarlo, anche per tutte le liste collegate (e per tutti i candidati in esse indicati dai partiti), a cui il voto dell’elettore che non le ha votate sarà distribuito in proporzione ai voti da queste liste ottenuti da altri elettori (se su 10 elettori solo in 5 si sono espressi per una lista, votando 2 la lista A, 2 la lista B, 1 la lista C, il voto di ciascuno dei 5 elettori che non hanno votato nessuna lista andrà per il 40% alla lista A, per il 40% alla lista B e per il 20% alla lista C. Tutte liste – lo ripetiamo – che questi elettori non hanno votato).
In una seconda ipotesi, l’elettore traccia la croce su una lista collegata sia ad altre liste sia a un candidato nel collegio uninominale. In questo caso il suo voto si estende al candidato nel collegio uninominale, senza che l’elettore possa fare nulla per evitarlo. Il candidato nel collegio uninominale però potrebbe essere di un altro partito rispetto a quello per cui l’elettore si è espresso, un partito che, anche se collegato, in base a questa legge potrebbe avere un programma diverso (e per alcuni aspetti perfino contraddittorio). In questo modo l’elettore è costretto a prenderli entrambi, forzato a chiedere due programmi diversi.
Per questo chiediamo che i voti a disposizione dell’elettore siano due. Poiché come abbiamo detto le liste collegate in una coalizione, però, non hanno lo stesso programma non si vede neppure la necessità che, dato un voto al candidato nell’uninominale, si debba dare poi il voto per il proporzionale necessariamente a una lista collegata, visto che questa potrebbe comunque avere un programma diverso rispetto a quello del partito al quale appartiene il candidato nell’uninominale.
Per questo si propone che i due voti siano disgiunti e che l’elettore, che non può scegliere i candidati, sia almeno pienamente libero di scegliere autonomamente sia il candidato nel collegio uninominale, eletto con il maggioritario, sia il partito che preferisce, i cui candidati saranno eletti in modo proporzionale.
In conclusione, chiediamo che ciascuno abbia due voti, da esprimere separatamente. In libertà e trasparenza.
Una trasparenza che dovrebbe essere richiesta anche ai partiti nella selezione dei candidati che indica.
Su questi punti minimi ma essenziali riteniamo che il Senato debba intervenire, potendo ancora migliorare un testo, che attualmente presenta numerose criticità, rispetto alle modalità di espressione del voto e alla selezione dei rappresentanti del popolo.
Gaetano Azzariti (Università di Roma, La Sapienza),
Valerio Onida (Presidente emerito della Corte costituzionale),
Gianfranco Pasquino (professore emerito di Scienza politica, Università di Bologna),
Andrea Pertici (Università di Pisa),
Roberto Romboli (Università di Pisa),
Maurizio Viroli (Princeton University)
Il Fatto 25.10.17
Un populista di nome Matteo Renzi
di Maurizio Viroli
Lo slogan dominante della campagna elettorale di Matteo Renzi è che il suo Pd è l’unico argine contro i populismi di Berlusconi e della Lega da una parte, e del Movimento 5 Stelle dall’altra. Lo ha già ribadito più volte e lo ripeterà ad nauseam fino alla vigilia del voto, forse perché ha sentito dire che l’antica metafora dell’argine è efficace: evoca una salda difesa contro inondazioni e alluvioni che tutto travolgono e tutto distruggono.
Fin qui le parole. Come sempre avviene quando si tratta di Renzi, i fatti sono altri. Anche l’ultima esternazione in ordine di tempo, il tentativo di presentarsi come fustigatore dell’establishment scagliandosi contro la conferma di Ignazio Visco alla guida di Bankitalia perché il Pd deve stare “con i risparmiatori” e non “con i salotti della finanza”, mostra inequivocabilmente irresponsabilità politica, scorrettezza nei confronti del presidente del Consiglio e disinteresse per gli equilibri istituzionali e dunque è da manuale di populismo.
“È Berlusconi il populista”, denuncia Renzi. Verissimo. Ma da quando Renzi è assurto alla popolarità, ha dimostrato una spiccata propensione a stringere accordi con Berlusconi, non a combatterlo. L’allora sindaco di Firenze si è recato in visita ad Arcore (dicembre 2010) per incontrare Berlusconi, presidente del Consiglio, presso la di lui dimora privata, dimostrando poco rispetto per le corrette forme istituzionali. Diventato segretario del Pd, si è affrettato a stringere col suddetto Berlusconi, nel frattempo condannato in via definitiva per frode fiscale (maggio 2013), il “patto del Nazareno” (18 gennaio 2014). Poche settimane or sono ha rinnovato l’alleanza col “maestro” e con l’altro schieramento populista, la Lega, per far approvare un’oscena legge elettorale disegnata per ritornare al governo con Berlusconi. Davvero il modo migliore per arginare la marea populista.
Caratteristica dei capi populisti è l’abilità di conquistare il potere tuonando contro la classe al potere, senza distinguo alcuno, rea di non capire le legittime esigenze del popolo. Da questo punto di vista Renzi ha credenziali di prim’ordine. Egli deve la sua ascesa allo slogan della rottamazione nei riguardi non solo dei vecchi dirigenti del Pd ma di tutta la vecchia classe politica (per lui Berlusconi era un “nonno”).
Per poter accontentare la voglia del popolo di avere un capo vero, il capo populista non può tollerare che il suo partito abbia minoranze interne combattive. Detto fatto: ecco il Renzi muovere con il “lanciafiamme” (8 giugno 2016) contro i nemici interni per essere certo di avere attorno soltanto docili sostenitori e servi sciocchi.
I capi populisti prosperano istigando e attizzando l’odio del popolo per i politici. Renzi ha applicato la lezione alla perfezione proclamando di mandare a casa un buon numero di parlamentari con un linguaggio da far fremere di gioia il popolo più becero: “Uno, due, tre, morto” (31 maggio 2016). Dietro gli slogan e le battute a effetto, però, si insinua qualcosa di ben più pericoloso: il tentativo di indebolire i corpi intermedi di rappresentanza, quali sono i partiti, ai suoi occhi un fastidioso ed inutile orpello.
Bersaglio dei capi populisti sono sempre stati gli intellettuali colpevoli anch’essi, al pari dei politici, di non sostenere i veri interessi del popolo. Richard Nixon coniò per il raffinato politico e intellettuale Adlai E. Stevenson l’epiteto “testa d’uovo”. Renzi ha notevolmente arricchito il vocabolario populista rovesciando sugli intellettuali che si opponevano alla sua riforma costituzionale una variegata sequela di epiteti: gufi, professoroni, rosiconi, parrucconi, soloni e altri ancora. Merita una menzione nelle antologie del pensiero populista.
Nella commedia I cavalieri, Aristofane tratteggia in maniera insuperabile il principio fondamentale del populismo: “Guidare il popolo non è cosa per uomini colti e di buoni costumi, ma per gli ignoranti e gli spudorati”. Anche da questo versante Renzi ha le carte in regola. Ogni volta che parla dimostra una conoscenza approssimativa della lingua italiana (per non parlare di quelle straniere) e della logica. Anche con il diritto costituzionale e con la storia non va proprio forte: laureato in giurisprudenza e grande riformatore costituzionale, ha scoperto la norma transitoria che dice “così non va bene”.
Quanto alla spudoratezza il Renzi ha superato tutti. Soltanto una persona priva del sano sentimento della vergogna poteva tradire un compagno di partito e pronunciare la frase “Enrico stai sereno” mentre tesseva trame per spodestarlo, o arrancare verso Palazzo Chigi dopo aver dichiarato più volte che se avesse perso il referendum avrebbe lasciato la politica; la politica, si noti, non la carica di presidente del Consiglio.
Se vogliamo salvarci dal populismo, dunque, dobbiamo liberarci di Renzi, non richiamarlo al potere insieme a Silvio Berlusconi.
Il Fatto 25.10.17
Etruria, Maria Elena Boschi, Di Maio e il duello in tv: la situazione resta grave ma non seria
Banche - L’ex ministra non risponde sul suo conflitto d’interessi e preferisce fare teatro
di Marco Palombi
La citazione è abusata, ma non per questo meno vera: la situazione, come spesso in Italia, è grave, ma non seria. Ci si riferisce, nello specifico, al siparietto messo su da Maria Elena Boschi e dal Pd col concorso più o meno volontario di Luigi Di Maio e dei 5 Stelle e quello entusiasta di alcuni giornalisti (e/o artisti) tv.
La storia, in breve, è questa: Di Maio lunedì ha definito Boschi e Renzi “aguzzini dei risparmiatori” per via del decreto del 2015 che mandò in risoluzione quattro banche tra cui Popolare Etruria, di cui il padre dell’ex ministra era stato vicepresidente. Boschi ha risposto sfidandolo a un duello tv. Bruno Vespa, dopo 5 minuti, si è subito candidato a ospitarlo. Di Maio ci ha pensato su tutta la notte e ieri mattina ha partorito la trovata: “Nessun problema”, ma il duello va rinviato a “dopo il 5 novembre perché adesso sono impegnato in Sicilia” e poi bisognerebbe farlo “all’americana, in una piazza, davanti a Banca Etruria coi risparmiatori”.
A questo punto, se possibile, la vicenda è degenerata. Boschi, che pure avrebbe altri problemi, l’ha messa così: “Caro Di Maio, perché hai paura di affrontarmi davanti a qualche milione di italiani? Porta a Porta su Rai1 ci aspetta #dacciladata”. A seguire è partita la batteria del Pd renziano attorno al concetto “Di Maio ha paura pappappero”. Nel frattempo anche altri giornalisti – tanto pubblicamente che riservatamente – si sono candidati a ospitare il match del secolo (Lucia Annunziata, ad esempio, o Enrico Mentana). I grillini, peraltro, hanno posto il veto su Bruno Vespa, accusato – con apposita nota di Dalila Nesci – di intelligenza coi dem.
I 5 Stelle hanno poi complicato ulteriormente la questione con l’arrivo di Alessandro Di Battista: “Ho sfidato Maria Elena Boschi a un confronto decine di volte. Non mi ha mai risposto. Ma questi confronti si facciano in piazza, davanti ai risparmiatori di Banca Etruria. Concediamo alla Boschi anche il privilegio di giocare in casa, ad Arezzo”. Effettivamente Boschi a Di Battista non ha risposto e invece continua a insistere con Di Maio (#dacciladata). Il pensiero degli strateghi della comunicazione M5S è però il seguente: Di Maio semmai si confronta con Renzi, un combattimento alla pari, tra candidati premier. Nell’attesa di quel giorno – o del confronto in piazza con Boschi – il frontman 5 Stelle si concentra sulla Sicilia e concede rare interviste con domande e risposte scritte.
Boschi, dal canto suo, con sprezzo del pericolo e del ridicolo, continua a frequentare l’argomento banche con modi e toni che non s’addicono alla sua delicata posizione. La regia della mozione parlamentare contro Ignazio Visco è solo l’ultimo atto poco commendevole dell’attuale sottosegretario del premier Paolo Gentiloni, peraltro tenuto all’oscuro della manovra contro Bankitalia con palese quanto poco sottolineata violazione del rapporto fiduciario: solo in cucina o in sezione la fedeltà al babbo o al capo può valere di più di quella istituzionale, mai in Parlamento o al governo.
Maria Elena Boschi, che si appresta a gestire il Consiglio dei ministri che venerdì sceglierà il prossimo governatore della banca centrale, può certo chiedere conto a Di Maio di quel che dice, ma dovrebbe anche dar conto lei di quel che fa e ha fatto. Due soli esempi: ha partecipato o no nei primi mesi del 2014, quand’era ministro, a un incontro nella casa di famiglia coi vertici di Veneto Banca (Trinca e Consoli) e col presidente di Etruria Fornasari per vedere se i due istituti potevano fondersi? Ha chiesto o no a inizio 2015 – come ha scritto il mai querelato Ferruccio de Bortoli – all’ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, di salvare Pop Etruria a un passo dal commissariamento?
Ecco, tra un hashtag e l’altro, un duello e l’altro, un’intervista in cui si dichiarata “ferita” e l’altra, magari può trovare il tempo di rispondere anche a questo: non in tv e nemmeno in piazza, c’è una bella commissione d’inchiesta già pronta in Parlamento.
La Stampa 25.10.17
Mps in Borsa con i fantasmi del passato
Viola e Profumo, nuove accuse. La Ue impone la vendita della collezione d’arte
di Gianluca Paolucci
Monte dei Paschi torna in Borsa dopo dieci mesi, ma i problemi del passato restano.
Ieri è emerso che Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente ex presidente ed ex ad della banca senese, sono indagati a Milano in un nuovo fascicolo che ipotizza il reato di ostacolo alla vigilanza relativamente alla contabilizzazione dei derivati Alexandria e Santorini nei bilanci di Mps dal 2012 fino alla semestrale del 2015. Per i due manager è stato chiesto il rinvio a giudizio in fascicolo separato che ipotizza i reati di false comunicazioni e manipolazione del mercato sempre per la contabilizzazione dei due derivati negli anni nei quali hanno guidato l’istituto. La nuova contestazione è mossa anche alla stessa Mps ai sensi della legge 231.
Ieri intanto è stato pubblicato il documento di registrazione della banca, che contiene una lunga serie di avvertenze e rilievi. Il prezzo dell’azione, che oggi torna ad essere scambiata a Piazza Affari, è stato fissato «prudenzialmente» a 4,28 euro. Ma, avvisa, quello che «si determinerà (sul mercato) al riavvio delle negoziazioni potrebbe discostarsi anche sensibilmente rispetto a tale valore». A questi prezzi lo Stato, che al termine dell’operazione di scambio con i risparmiatori che hanno ricevuto azioni in cambio dei bond subordinati avrà tra il 69% e il 71%, «sconta» una minusvalenza di 1,8 miliardi di euro. Ma il timore è che all’avvio degli scambi il prezzo possa scendere ulteriormente, se gli investitori che hanno ricevuto azioni in cambio dei bond dovessero vendere massicciamente i titoli ricevuti. A completare il quadro del salvataggio della banca manca però ancora il decreto del ministero per l’offerta di scambio delle azioni ricevute dai piccoli risparmiatori con bond senior. L’offerta dovrebbe partire il 30 ottobre per chiudersi il 30 novembre, ma senza il decreto attuativo non si può fare e il decreto non sarebbe ancora pronto. A complicare il tutto, il contratto con Quaestio prevede tra le condizioni per la vendita delle sofferenze il completamento dell’offerta di scambio.
Tra i rischi figurano le richieste di risarcimento, pari a 4,2 miliardi. A fronte di questi la banca, dopo aver valutato i rischi di soccombenza nelle cause in corso, ha accantonato 572 milioni. Tra gli allarmi figura anche quello, condiviso da tutte le banche italiane, per l’impatto della nuova regolazione sui crediti deteriorati da parte della Bce. La stessa Bce rileva una serie di debolezze, tra le quali l’aspetto reputazionale e «la qualità del credito, in relazione al livello elevato e superiore alla media dei Npl».
Ma a colpire sono gli impegni assunti con la Ue. Accanto a quelli già noti, come l’uscita dello Stato dal capitale e il tetto agli stipendi dei manager, al divieto di acquisizioni e ad una serie di cessioni e chiusure di filiali, alla banca è imposto anche di vendere la sua collezione d’arte. un patrimonio notevole, accumulato per secoli dall’istituto e arricchito dalle collezioni delle banche acquisite. Una collezione smisurata. composta prevalentemente da dipinti e sculture di scuola senese dal XIV al XIX secolo, con pezzi del ’900 italiano.
La Stampa 25.10.17
Mdp esce dalla maggioranza e chiede l’intervento del Colle
“D’ora in poi saremo all’opposizione a cominciare dalla manovra”
di Andrea Carugati
Tocca alla mite capogruppo di Mdp al Senato, l’economista Cecilia Guerra, mettere la parola fine al rapporto dei bersaniani con il governo. Si alza in aula e scandisce: «Noi votiamo contro queste fiducie sulla legge elettorale, e quindi usciamo anche formalmente da questa maggioranza». Aula del Senato, le sei del pomeriggio. Un paio d’ore dopo insieme al collega della Camera Francesco Laforgia salirà al Quirinale per comunicare al Capo dello Stato la decisione. Incontro di cortesia istituzionale.
Nel pomeriggio i senatori di Mdp si erano uniti alla manifestazione delle varie sinistre davanti a palazzo Madama. Piccolo palco, uno alla volta al microfono, dal leader di Sinistra italiana Nicola Fratoianni al senatore Miguel Gotor, Alfredo D’Attorre, Arturo Scotto, Anna Falcone. Ci sono anche Nichi Vendola e Pippo Civati, a sorpresa il direttore del Fatto Marco Travaglio. Scatta un minuto di silenzio per il «colpo inferto alla nostra Costituzione», il senatore Federico Fornaro ricorda che «neppure Mussolini aveva messo la fiducia sulla legge elettorale in entrambe le Camere, Gentiloni ha battuto un triste primato». La folla non arriva, ma in piazza Navona si manifesta l’embrione del nuovo partito che si presenterà alle elezioni. Dopo lo strappo col governo, adesso la marcia dovrebbe essere più rapida. «Non possiamo più perdere un solo minuto in tatticismi», spiega Fratoianni. Oggi alla Camera Mdp e Si presenteranno insieme una proposta di legge per reintrodurre l’articolo 18 per i licenziamenti collettivi e disciplinari. Seguirà una proposta per eliminare il pareggio di bilancio in Costituzione. Sono gli “architravi” del documento fondativo che sarà presentato prima delle elezioni regionali in Sicilia il 5 novembre. «Lanciare la nuova forza prima della Sicilia darà più forza al nostro candidato Claudio Fava», concorda Enrico Rossi, tra i coordinatori di Mdp. Al documento di programma sta già lavorando un gruppo ristretto di cui fa parte Guglielmo Epifani: tre, quattro pagine con dentro la summa della nuova sinistra che guarda al britannico Jeremy Corbyn e archivia la stagione della Terza via. Entro fine novembre l’assemblea costituente, da eleggere con una sorta di primarie tra i simpatizzanti di Mdp, Si, Possibile di Civati e del gruppo civico del Brancaccio guidato da Anna Falcone e Tomaso Montanari. I militanti voteranno anche nome e simbolo, una delle ipotesi è “La sinistra”, proposta lanciata da Fratoianni durante una affollata assemblea serale in un circolo del Tufello, periferia di Roma. «Sui contenuti siamo d’accordo, abbiamo passato troppo tempo ad aspettare Pisapia», ammette Rossi.
I ponti tra Mdp e Gentiloni sono ormai bruciati. «D’ora in poi sarà opposizione, a partire dalla manovra», spiegano da Articolo1. Bersani picchia duro contro Maria Elena Boschi sul caso Bankitalia. I renziani ironizzano, «sono settimane che sono usciti dalla maggioranza», ma a palazzo Chigi i timori non mancano. Senza Mdp manca la maggioranza in commissione al Senato, dove arriverà la manovra la prossima settimana. Sullo sfondo il rischio di un replay della sinistra Arcobaleno guidata da Bertinotti che nel 2008 restò fuori dal Parlamento. «Da allora il mondo è cambiato», ragiona Fratoianni. «Oggi c’è una forte domanda di radicalità, non sfonderemo offrendo una spolverata di diritti in più, ma con un totale rovesciamento del discorso su lavoro e diseguaglianze. Come hanno fatto Corbyn e Sanders». Nelle prossime settimane si aprirà con forza il tema della leadership. In pole position, accanto a nomi come Pietro Grasso e Pierluigi Bersani, si affaccia la Falcone: «Dobbiamo volare alto, avere coraggio. Dobbiamo dire alle persone che cambieremo in meglio la loro vita, questo APese è troppo triste, le persone hanno diritto alla felicità».
La Stampa 25.10.17
Quei festini con avvocati e magistrati nelle ville toscane
all’ombra della banca del Monte dei Paschi di Siena
di M. Ind.
Ha confermato le sue certezze sulla tragedia di David Rossi, ribadendo di non considerarlo un suicidio. E ha fornito i nomi di due persone, tra loro un noto avvocato romano, che gli hanno descritto nel dettaglio i “festini” organizzati in alcune ville toscane, prima che deflagrasse lo scandalo Monte dei Paschi, ai quali avrebbero partecipato anche alcuni magistrati. E però proprio su questo punto, il più delicato, ha spiegato di non aver mai collegato «direttamente» la figura di qualche toga ai medesimi festini, non essendo perciò in grado di addentrarsi oltre. Pierluigi Piccini, ex dirigente Mps e sindaco di Siena dal 1990 al 2001, è stato interrogato ieri pomeriggio per due ore in Procura a Genova. Al centro del confronto un’intervista dello stesso Piccini mandata in onda l’8 ottobre dalle “Iene”, in cui aveva adombrato varie perplessità proprio sulla morte di Rossi, capo della comunicazione del Monte, morto dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013. «Un avvocato romano – aveva confidato Piccini senza sapere d’essere registrato - mi ha detto: “Devi indagare su alcune ville fra l’aretino e il mare e i festini che facevano lì. Perché la magistratura potrebbe anche avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale…”». Poiché potenzialmente alcuni giudici senesi potrebbero aver commesso reati, il fascicolo è finito a Genova e nei prossimi giorni saranno chiamati i testimoni identificati da Piccini nel colloquio con i pm tenutosi ieri.
La Stampa 25.10.17
Lista progressista alleata del Pd
Pisapia: bene, ma non mi candido
A porte chiuse l’ex sindaco gela le attese dei fedelissimi
di Fabio Martini
Di rinvio in rinvio, tra un’ indecisione e l’altra, per Giuliano Pisapia sembrava fosse arrivato il momento della svolta. Lunedì pomeriggio erano sbarcati a Milano da tutta Italia parlamentari, quadri, ex sindaci, tutti uniti dalla speranza che fosse la volta buona - dopo la rottura con Mdp - di concretizzare una Lista progressista, alleata ma non subalterna al Pd. Riunione a porte chiuse in zona Magenta tra tutti i simpatizzanti di Giuliano Pisapia, ma quando l’ex sindaco di Milano ha iniziato a parlare, gli altri hanno capito subito che tirava una brutta aria. È stato quando Pisapia, accampando «problemi organizzativi», ha ipotizzato liste di Campo progressista «ma soltanto nelle elezioni amministrative e in quelle Regionali».
Ma immaginare di saltare le prossime elezioni politiche, era come dire: amici e compagni abbiamo scherzato. E infatti subito dopo tutti i «quadri» del movimento sono intervenuti per dire che, no, quella prospettiva minimalista non aveva senso, che la Cosa progressista alla quale guardano in tanti - Radicali della Bonino, esponenti prodiani, Verdi, socialisti, movimenti di base, sindaci - deve assolutamente partecipare alla prossima contesa elettorale nazionale.
Un coro che ha fatto riprendere quota all’ipotesi della Lista progressista alla sinistra del Pd, ma anche su questa suggestione è calata la nuova gelata di Pisapia: «Il mio ruolo è e sarà quello del garante». Come dire: non mi candiderò e anzi vi annuncio un «passo di lato». Quello che proprio Pisapia aveva consigliato a D’Alema. Un passo laterale che equivale alla rinuncia di una leadership, una rinuncia che arriva proprio nelle ore in cui prende corpo la nuova legge elettorale. Un forfeit, quello di Pisapia, che ha deluso i suoi amici. In particolare quei parlamentari di sinistra che, per seguire l’ex sindaco di Milano, hanno lasciato Sel e che sono guidati da Ciccio Ferrara.
E quanto a Bruno Tabacci, che viene da un’altra storia, sintetizza: «Ci troviamo in una situazione molto particolare: sul mercato elettorale c’è una forte domanda di una lista alleata ma distinta dal Pd. C’è la domanda, ma non c’è ancora un’offerta». Non c’è un’offerta perché manca un «imprenditore». E tanto più manca dopo il passo di lato di Pisapia. Un gesto che certo non aiuta la rapida concretizzazione di una Lista progressista che, pure, nella riunione di Milano ha trovato tanti convinti fans.
Una prima prova del “budino” è destinata a concretizzarsi nella Convention dei Radicali italiani guidati da Emma Bonino che sabato e domenica all’hotel Ergife di Roma ha invitato i possibili protagonisti di una Lista, Giuliano Pisapia, Carlo Calenda, il leader del Psi Riccardo Nencini, ma anche due possibili simpatizzanti dell’operazione: Romano Prodi ed Enrico Letta. Certo, il Professore non intende essere trascinato né identificato con nessuno dei segmenti elettorali nei quali si articolerà il centro-sinistra, ma in ogni caso Prodi trasmetterà un messaggio alla Convention della Bonino. Ma saranno all’Ergife due prodiani doc come Franco Monaco e Giulio Santagata, già ministro e braccio destro di Prodi: «Se possibile negli ultimi 15 giorni si è allargato lo spazio elettorale tra Pd e il mondo alla sua sinistra».
Dunque, il futuro della Lista progressista rilanciata dagli amici di Pisapia e vagheggiata da tanti altri, al momento sembra dipendere da fattori prevalentemente emotivi, in particolare dalla convinzione e dal pathos che i potenziali animatori della Lista, a cominciare da Emma Bonino, dispiegheranno durante la Convention dei Radicali. Sulla carta ad una ipotetica Lista progressista sono interessati soggetti molto diversi tra loro: gli amici di Pisapia, i Radicali della Bonino e di un ex come Benedetto Della Vedova, il Psi di Nencini («La via maestra è la nascita di una Cosa laico-riformista alleata del Pd»), i Verdi, diversi sindaci ex sindaci (Zedda e Doria), movimenti come Acli, Arci, Legambiente, esponenti prodiani. E dunque il momento della verità sembra destinata a diventare la Convention che Campo progressista ha convocato per l’11 novembre a Roma.
La Sampa 25.10.17
La vendetta della sinistra sarà sul voto uninominale
di Marcello Sorgi
Prevista e in qualche modo attesa anche prima dell’annuncio ufficiale nell’aula di Palazzo Madama da parte della ministra Finocchiaro, la fiducia bis sulla legge elettorale ha tagliato i ponti residui tra sostenitori e oppositori del Rosatellum. Il Movimento 5 stelle è tornato in piazza. La rottura a sinistra tra Pd e Mdp è consumata, e il partito degli scissionisti ha informato il Quirinale della propria uscita dalla maggioranza. Teoricamente ci sarebbero gli estremi per una verifica politica dell’assetto parlamentare del governo, privo ormai di un appoggio sicuro al Senato. Ma ormai tutto affoga nel gorgo di fine legislatura, che dovrebbe arrivare a termine entro l’anno. E le uniche preoccupazioni rimangono quelle per la legge di bilancio, che tuttavia, nella formulazione «light» proposta dal ministro dell’Economia Padoan, non dovrebbe incontrare grandi ostacoli.
L’approvazione data ormai per certa domani del Rosatellum (l’ostruzionismo in aula sul numero legale delle presenze non potrà spostare più di tanto in avanti il momento del voto finale, in cui accanto a Pd e Ap si schiereranno anche Forza Italia e Lega) aprirà, soprattutto all’interno del centrosinistra, la stagione delle vendette: nei collegi uninominali destinati, secondo la nuova legge, a eleggere un terzo dei parlamentari, Mdp presenterà ovunque un candidato con l’obiettivo di sconfiggere, grazie alle divisioni nell’elettorato di centrosinistra, i candidati di Renzi. Il «no» a qualsiasi modifica del testo, che va in votazione blindato, ha interrotto qualsiasi tentativo di riavvicinamento tra i due tronconi separati del Pd: Renzi non s’è fidato. E d’altra parte, dal suo punto di vista, una navetta del testo eventualmente modificato dal Senato alla Camera, con i tempi ormai ristretti della legislatura e con l’impegno a concludere al più presto la sessione di bilancio, in modo da mettere il Capo dello Stato nelle condizioni di decidere sullo scioglimento delle Camere, avrebbe presentato troppi rischi.
Ma anche nel centrodestra, malgrado il riavvicinamento tra Berlusconi e Salvini, che approveranno insieme il Rosatellum, i conti veri si faranno al momento di decidere le candidature. La trattativa vera deve ancora cominciare; e i referendum in Lombardia e Veneto hanno fornito alla Lega un formidabile argomento da usare nella prossima campagna, dato che in nessun modo la maggiore autonomia promessa, e men che meno l’ipotesi lanciata da Zaia di trasformare il Veneto in regione a statuto speciale, hanno possibilità di essere realizzate in un paio di mesi. E funzioneranno quindi come ulteriore capo d’accusa verso il governo, accusato di essere sordo alle richieste del Nord.
Repubblica 25.10.17
Professori contro presidi l’aumento in busta paga che divide la scuola
Ai dirigenti 440 euro al mese in più, agli insegnanti 85 (lordi)
Ed entrambi attaccano i colleghi universitari: “Privilegiati”
di Corrado Zunino
ROMA. Ci sono i soldi per la scuola e l’università nella Legge di stabilità, in procinto di entrare in Parlamento (subito dopo il passaggio della legge elettorale). Il ministero dell’Istruzione ha trovato l’accordo con il ministero delle Finanze su cifre e dettagli. Un superaumento agli ottomila presidi, un aumentino (ancora a rischio) per i quasi ottocentomila docenti di scuola e scatti d’anzianità più ravvicinati (senza restituzione di arretrati né posizioni pregresse) per 42mila docenti di università. Com’è tradizione per i governi di centrosinistra post-crisi, gli investimenti allargano più i malumori che i consensi. Almeno, i malumori si sentono di più.
Era già accaduto con la Buona scuola, quando di fronte a tre miliardi di euro investiti e 198mila assunzioni in tre stagioni si allestì nelle piazze italiane la più grande manifestazione di protesta del mondo scolastico. Ora con la Finanziaria dell’era Fedeli gli scioperi universitari non si fermano e l’umore negativo si scopre salire dai commenti di chi interviene su Repubblica. it e sui social di riferimento.
Ecco, la battaglia della scuola riaccende lo scontro docenti- presidi, leitmotiv di queste stagioni. Si legge, da parte di prof e precari: «440 euro sono una pensione sociale». Sono, appunto, l’aumento riservato ai dirigenti scolastici a manovra approvata. Ancora: «Si trovi un solo argomento valido che giustifichi 440 euro netti contro 85 euro lordi». Il confronto è immediato. «Sono dirigente scolastico », arrivano gli argomenti, «una trentina di scuole con 2.400 alunni e soprattutto 4.800 genitori. Credete che non meriti l’aumento? ». Altri presidi: «Quei 440 euro per quello che deve fare un preside sono pochi. Le nostre responsabilità non sono paragonabili».
La questione è che gli insegnanti più gli amministrativi di scuola — si va al rinnovo del contratto insieme — sono un milione e 191mila e rientrano nell’enorme platea dei tre milioni e 70mila pubblici dipendenti. Per loro vale l’accordo, da confermare in sede Aran, del 30 novembre 2016: prevede un ritocco di 85 euro lordi per un contratto che non viene rinnovato da dieci anni. I presidi, l’un per cento di maestri e prof (sono 7.993 in tutto), hanno tre vantaggi: è meno esoso per lo Stato trovare per questa minoranza pubblica i soldi per una crescita consistente della busta paga, poi è necessario armonizzare il loro guadagno a quello di un dirigente di ministero e di università (in media doppio) e infine, su un piano politico, la Buona scuola ha puntato fin dall’inizio sul preside-guida.
C’è un problema aggiuntivo, che fa crescere la rabbia dei docenti e allargare il confronto. Oltre che lordi, gli 85 euro sono a rischio. Nel senso che gli insegnanti compresi nella fascia di reddito tra i 24 e i 26mila euro lordi (sono i professori poveri, il 41 per cento del totale) oggi prendono ogni mese il famoso bonus renziano di 80 euro. Bene, l’aumento legato al rinnovo del contratto farebbe alzare il reddito complessivo e quindi perdere del tutto o in parte il bonus. “Ottantacinque guadagnati e ottanta persi” ormai è uno slogan cattivo della rete. Francesco Verducci, responsabile per il Pd di università e ricerca, dice che la copertura per consentire a tutti un aumento pieno è stata trovata in queste ore. Non sarà facile, tuttavia, prendere un provvedimento solo per la pubblica amministrazione: insorgerebbero le altre categorie a rischio bonus.
La rabbia di chi insegna alle medie e alle elementari sale, in seconda battuta, verso i docenti di università, anche loro al centro di una complessa operazione di recupero del potere d’acquisto: undicimila sui quarantaduemila interessati sono in sciopero proprio per questo. La ministra Valeria Fedeli ha proposto in Consiglio dei ministri: a partire dal 2018 gli scatti da triennali torneranno biennali. Ci sono 60 milioni subito. Le reazioni sono state varie, tendenzialmente critiche. Un esempio: «Sono professore associato da dieci anni e prendo 2.500 euro, la proposta del governo rimanda tutto al prossimo decennio». I docenti universitari più giovani potranno guadagnare più del pre-2011, quando gli scatti furono bloccati. I pensionandi avrebbero, invece, una perdita secca. La controproposta del Movimento per la dignità della docenza è: «Si aggiungano 120 milioni delle università e si faccia partire il primo aumento dal 2017». Lo sciopero degli esami non è revocato.
Il Fatto 25.10.17
CasaPound punta a “prendere” Ostia. Gruppi e gruppetti tra svastiche e raid
Da Forza Nuova ai nazi che confermano la “marcia su Roma” del 28 ottobre
di Enrico Fierro
Se succederà sarà un miracolo. In soli 9 anni sono “usciti dalle fogne” e ora puntano alla conquista dell’importante Municipio di Ostia. Sono i “fascisti del terzo millennio” di Casapound, 3 mila iscritti dichiarati, presenze da Bolzano a Palermo, concentrazione delle truppe nella Capitale, quartier generale uno stabile occupato in zona Esquilino.
Luca Marsella è il candidato a sindaco (mini) della spiaggia di Roma. “Il nostro obiettivo è il ballottaggio”, dice, ma la speranza è che i sondaggi riservati che circolano tra i partiti, soprattutto nelle stanze segrete del Pd capitolino, siano aderenti alla realtà: li danno addirittura primi sul partito di Renzi. Crescono quelli di Casapound e godono anche di una certa libertà di azione. È successo l’estate scorsa, quando il gruppo ha organizzato vere e proprie “ronde” anti-immigrati. “Siamo qui per cacciare i venditori ambulanti dalle spiagge di Ostia”. Applausi dei bagnanti e crescita del movimento nella distrazione di tutti: polizia municipale, polizia di Stato, autorità. Il prefetto fece una dichiarazione forte: “Sono atti che non possono essere tollerati”. Ma solo a cose fatte. Come è tollerata, e da anni, l’occupazione del palazzo all’Esquilino.
Non è più solo folklore nero. Associazioni e formazioni politiche che si richiamano al Ventennio riempiono i vuoti lasciati nelle periferie dai partiti. Lotta al degrado, attacchi agli immigrati, e forte competizione tra le varie sigle. Infine, uso sapiente delle telecamere dei talk, soprattutto di quelli che soffiano sul fuoco del disagio sociale.
Ci sono sempre loro, con simboli o senza, come è successo nei mesi scorsi a Montecucco, dove “baldi e coraggiosi arditi” legati a Forza Nuova hanno impedito l’ingresso di una famiglia italiana (ma di origini eritree) nell’appartamento regolarmente assegnato loro dall’Ater. “‘So’ negri e se ne devono anna’. Prima gli italiani”. La casa era occupata da una italiana, ma abusivamente. È stato arrestato con altri Giuliano Castellino (poi scarcerato e ora sotto sorveglianza speciale) di Forza Nuova, animatore del gruppo “Roma ai romani” che è il più attivo nelle periferie. Più spettacolare e duro l’assedio di ronde fasciste del 2 settembre scorso contro un gruppo di profughi eritrei, tra cui donne e bambini, bloccati in una chiesa al Tiburtino dove erano andati ad assistere ad una messa organizzata dalla Caritas. Fenomeni sottovalutati? Da anni. Tollerati? Come sempre nella storia dei movimenti nazi-fascisti. L’anno scorso fece scalpore un altro raid di Forza Nuova contro quelli che nella Capitale chiamano i “bangladini”, i venditori del Bangladesh che hanno una rete di piccole rivendite di frutta e alimentari. “Prima gli italiani”, la solita parola d’ordine.
Ma quanti sono i gruppi neofascisti a Roma? Tra le sigle più importanti, oltre Casapound, ci sono le mille schegge nate dopo la fine del Msi e di altre organizzazioni di estrema destra come Ordine Nuovo. Forza Nuova conta circa mille iscritti. Militia, un movimento, scrivono i Ros dei carabinieri in una indagine, “dedito ad atti violenti anche di matrice xenofoba”, con una trentina di militanti presenti tra la Capitale e i Castelli. Mse (Movimento sociale europeo) soprattutto nell’area Nord di Roma. Fronte Nazionale di Adriano Tilglher. Nelle scuole sono attivissimi il Blocco studentesco e Lotta studentesca. Prossimo banco di prova la Marcia su Roma vietata dal ministro dell’Interno Marco Minniti. Forza Nuova non molla, rinuncia al 28 ottobre ma dà appuntamento ai “camerati” il prossimo 4 novembre. “L’antifascismo non esiste”, è il loro slogan. “Rivolta nazionale”, una sigla nata da una costola di Militia, rilancia. Il suo leader, Simone Crescenzi, si fa fotografare con alle spalle bandiere con la svastica nazista. “Boia chi molla” è l’appello. Lo slogan ricalca il fango del web: “Fiano e Boldrini, stessa infamia, stessi bocc…”.
il manifesto 25.10.17
Anna Frank, l’oblio dalla parte del vincente
di Enzo Collotti
La vicenda che in questi giorni chiama in causa Anna Frank ha più risvolti.
Da una parte mira a banalizzare e a infrangere un simbolo, quello che al di là di ogni lettura critica, è diventato l’emblema della Shoah; dall’altra, impone una riflessione approfondita sulle radici di una incultura che consente di sfidare impunemente la sacralità di una memoria che sintetizza un mondo di valori che pensavamo fosse ormai diventato patrimonio dell’intera società.
E invece non è così.
A ottant’anni dalle leggi razziali del 1938 dobbiamo constatare non solo che così non è, ma che nella guerra della memoria l’oblio tende a collocarsi dalla parte vincente.
Brandire nello scontro tra tifoserie l’immagine di Anna Frank non è soltanto un oltraggio che immiserisce in molti significati che sono racchiusi in ciò di cui essa è simbolo, è la rivelazione della distanza che separa fasce più o meno larghe della popolazione dal senso del pudore che attutisce l’abisso dell’ignoranza e stravolge il senso del sacrificio di cui Anna è stata vittima.
Sul piano generale, l’episodio richiama l’inciviltà che governa quella parte del mondo dello sport che al di là della competizione si nutre di prepotenza e di razzismo. Non è da oggi che è stato segnalato il razzismo nelle tifoserie per ragioni non sempre comprensibili, ma sicuramente per la visibilità che si offre a platee immense.
In questo senso la responsabilità delle società sportive è enorme, ma enorme è anche la responsabilità del mondo politico che ha sempre teso a minimizzare il sottofondo politico di certe manifestazioni.
Non è un caso che sia nel mondo della destra, estrema o meno, che si diffondano comportamenti e atteggiamenti che sfociano nel razzismo, in un momento in cui le pulsioni razziste sono alimentate da paure, reali o stimolate ad arte, che traggono forza dai ben noti processi migratori che forniscono il pretesto per ogni sorta di eccesso provocatorio o difensivo che dir si voglia.
Di fronte al caso di Anna Frank esprimere indignazione non basta.
L’analisi deve andare oltre perché la tolleranza di fronte a tanti episodi di violenza e sopraffazione ha abituato all’assuefazione, ad allargare la soglia della sopportazione di fronte ad un fenomeno che si continua a sottovalutare e a minimizzare.
Bisogna rendersi consapevoli che siamo di fronte ad una forma di fascismo strisciante, di fascismo quotidiano, nulla di clamoroso, nulla che faccia scalpore, ma qui con Anna Frank ha passato il segno.
Questo paese ha riabilitato il riabilitabile: vogliamo riabilitare anche l’antisemitismo?
il manifesto 25.10.17
Xi come Mao: il suo pensiero nello statuto del Partito comunista
Cina. Solo a Zedong era stato riconosciuto il contributo ideologico in vita. Inserita anche la nuova via della seta e la strategia internazionale del leader. Saranno resi noti oggi i nomi dei membri del Comitato permanente, sfida di equilibrismo tra le correnti interne. E il presidente non forzerà la mano
di Simone Pieranni
«Il socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era», la dicitura del pensiero di Xi Jinping, è stata inserita ufficialmente nello statuto del partito comunista come «linea guida». Si tratta di una decisione storica, ufficializzata ieri alla conclusione del diciannovesimo congresso del partito svoltosi a Pechino.
Oggi verranno svelati i nomi dei membri del Comitato permanente del Politburo, gli uomini più potenti del paese: dalla composizione di quest’organo potremo capire di più circa il destino della Cina e della leadership di Xi Jinping.
Per ora Xi porta a casa la partita più rilevante da un punto di vista storico, ideologico e immaginifico. «Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era» va ad aggiungersi al marxismo-leninismo, al pensiero di Mao Zedong, alla teoria di Deng Xiaoping, alla teoria delle «tre rappresentatività» e allo «sviluppo scientifico del socialismo cinese», come è stato declamato al termine del congresso.
Questa decisione significa molte cose: intanto che Xi vede riconoscere il suo contributo ideologico in vita, come accadde solo a Mao, perché la teoria di Deng venne ammessa solo dopo la morte del leader responsabile dell’apertura della Cina al mercato mondiale.
Se poi si andasse a osservare l’enorme mole di cariche accumulate da Xi, si potrebbe perfino sostenere che Xi Jinping rappresenti a oggi il leader più potente nella storia della Repubblica popolare. Xi vede dunque riconoscersi il potere di cui ha giovato tutto il partito che con lui alla guida ha riguadagnato una fiducia popolare che sembrava persa, e riporta in auge il contributo ideologico di Mao Zedong sgonfiandolo di potenziale verve contraria alla guida del paese, come accadde con il «neomaista» Bo Xilai oggi all’ergastolo, e riportandolo in seno al partito, con quest’ultimo rinvigorito e riposto al centro del mondo politico e sociale cinese.
Oltre al suo pensiero nello statuto è stato anche inserito il grandioso progetto di «nuova via della seta» a sottolineare il peso che la politica internazionale e i suoi successi hanno avuto nell’ascesa politica – anche mondiale – di Xi Jinping.
Ora bisognerà capire se il numero uno sarà stato costretto o meno a compromessi nella composizione del Comitato permanente che da qui al 2022 guiderà il paese, tenendo presente che in Cina qualsiasi tipo di leader non può mai abbassare la guardia rispetto a fazioni e corrente interne.
Il gioco è più complesso di quanto spesso appaia: certe informazioni sono volutamente enfatizzate per i media internazionali, consentendo così ai funzionari cinesi di concentrarsi su altri generi di scontri e compromessi su cui tenere fino alla fine uno stretto riserbo.
Per questo c’è da scommettere che Xi Jinping non abuserà del suo strapotere, sapendo di dover salvaguardare prima di tutto il Partito e la sua unità.
Un segno di mediazione è arrivato ieri: Wang Qishan, il braccio destro di Xi e artefice della clamorosa campagna anticorruzione, è stato escluso dal comitato centrale per raggiunti limiti di età. Probabilmente Wang, acclamato dalla stampa internazionale come il «premier che la Cina non ha mai avuto», ricoprirà qualche ruolo importante nell’amministrazione cinese, forse all’interno del dipartimento per la sicurezza.
Di sicuro Xi Jinping su di lui non ha voluto forzare la mano al partito, rispettando la consuetudine che vuole un ritiro da ruoli apicali dopo il raggiungimento del sessantottesimo anno di età. In questo gioco di vittorie (l’unanimità e l’iscrizione del pensiero politico nello statuto) e parziali arretramenti (Wang Qishan), la composizione del Comitato permanente sarà l’ultimo decisivo tavolo sul quale Xi ha deciso di giocare le tante partite di questo congresso.
Ci sono due successori all’orizzonte: il fedelissimo di Xi, Chen Min’er e quello dell’ex presidente Hu Jintato, Hu Chunhua. Secondo le ultime indiscrezioni pubblicate dal quotidiano di Hong Kong South China Morning Post i due «papabili» potrebbero essere esclusi anche perché Chen Min’er dovrebbe compiere un doppio salto di carica che potrebbe risultare sgradito a qualche papavero del Partito.
Se però così avvenisse, le speculazioni su un eventuale allungamento del regno di Xi a 15 anni, anziché i canonici 10, potrebbero cominciare ad assomigliare alla realtà.
Corriere 25.10.17
Il leader cinese entra nella Carta del partito comunista dopo Mao e Deng
Tra le prescrizioni: porre fine a feste, cene, viaggi, doni dei funzionari
Il pensiero di Xi
di Guido Santevecchi
Grande Sala del Popolo di Pechino. Una voce fuori campo legge: «Il Congresso ha deciso che “Il Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” deve entrare tra le linee guida nella Costituzione del Partito comunista». Segue un lungo elenco di prescrizioni e programmi, politici, economici, militari, sociali, ambientali. Al banco dei membri del Plenum (41 con due sole donne) tutti ascoltano e prendono appunti, seduti quasi in punta di sedia. Solo Xi è appoggiato all’indietro sulla poltroncina rossa, quasi come un imperatore sul trono.
Si passa al voto. Davanti alla stampa i 2.300 delegati, i membri del Comitato centrale e quelli del Plenum mettono in scena una rappresentazione teatrale di democrazia con caratteristiche cinesi. Si decide per alzata di mano. Si levano tutte insieme. Contrari? «Mei You!», «Nessuno!», si è sentito rispondere sette volte dai sette spicchi in cui è divisa la sala che si affaccia su Piazza Tienanmen.
Risuona l’Internazionale, il 19° Congresso finisce e inizia lo Xiismo: accanto a quelli di Karl Marx, Mao Zedong e Deng Xiaoping da oggi nella carta fondamentale del comunismo cinese è iscritto il Pensiero di Xi. Con la differenza che la Teoria di Deng entrò nella costituzione solo dopo la sua morte. Xi invece a 64 anni è nel pieno delle sue forze.
L’agenzia Xinhua annuncia che lo «Xi sixiang», il Pensiero costituzionale di Xi, si compone di 14 Principi. Alcuni concreti, altri visionari, non manca l’ideologia purissima e quelli identificati da numeri, che sono una mania della politica cinese, come gli acronimi di quella anglosassone.
I Quattro comprensivi
Sono l’ordine di «promuovere il completamento comprensivo di una società moderatamente prospera, l’approfondimento della riforma (sempre comprensiva), la promozione dello stato di diritto (comprensivo naturalmente) e la gestione rigorosa e comprensiva del Partito».
Cinque in Uno
Sono i preparativi per la costruzione dell’economia, della politica, della cultura, della società, della civiltà ecologica.
Quattro venti contrari
Naturalmente «da fermare»: sono formalismo, burocrazia, edonismo e stravaganza: sono drammaticamente concreti perché 1,3 milioni di membri e funzionari che si sono fatti trasportare da quei quattro venti sono finiti nella rete della Commissione di Wang Qishan .
Otto attitudini da costruire
Si va dalla diligenza e la frugalità al miglioramento della stampa (e intanto la censura si fa più stretta).
Otto prescrizioni
Il numero otto porta anche fortuna in Cina: sono ordini precisi per porre fine alla brutta abitudine di spendere denaro pubblico per feste di Partito, cene, viaggi, doni e auto-doni.
Due centenari da onorare
Nel 2021, un secolo dalla fondazione del Partito, con una «società moderatamente prospera»; nel 2049, i cent’anni dalla proclamazione della Repubblica popolare, la Cina dovrà essere «ricca, forte, armoniosa, moderna, sempre socialista e anche bella».
Una cintura e una strada
È il progetto di aprire nuove Vie della seta per rotte commerciali globalizzate che partiranno dalla Cina.
Una comunità del destino condiviso
È uno slogan di Xi che promette di coinvolgere il resto del mondo con una strategia che soddisfi non solo gli interessi nazionali ma anche le necessità di tutti i Paesi.
Tre severità e Tre verità
Sono ordinate ai dirigenti affinché siano rigorosi nella morale e nell’uso del potere; per questo serve verità.
Due studi e Uno sforzo
I quadri devono studiare la Costituzione comunista e le sue regole e sforzarsi di migliorare sempre per raggiungere la purezza e non delegittimare il Partito-Stato.
Uno è il Sogno cinese
È il «grande ringiovanimento della nazione» e si tratta della prima visione espressa da Xi nel 2012, all’alba del suo potere oggi assoluto e indiscutibile.
Due approcci «olistici»
Il riferimento e alla sicurezza nazionale e alla riforma. Dietro l’aggettivo olistico si può immaginare molto.
Una «contraddizione principale»
Si trova di fronte alla società marxista cinese: quella tra i bisogni sempre crescenti del popolo per una vita migliore e lo sviluppo squilibrato e inadeguato.
Ultimo chilometro
Xi ha detto che le politiche camminano, il servizio al popolo si ferma alla bocca, i benefici si inceppano e spesso non finiscono nella pancia della gente. «Bisogna risolvere il problema dell’ultimo chilometro».
Naturalmente c’è molto di più nella mente di Xi Jinping, ma il progetto è chiaro: guidare la Cina in una nuova era di potenza globale. Una terza era dopo quella della costruzione della Repubblica compiuta da Mao, seguita dal lancio dell’economia voluto da Deng. In piazza un inviato della tv statale ieri mostrava alla telecamera un libretto rosso con la Costituzione comunista ed esaltava l’emendamento con lo Xi Pensiero.
Il Fatto 25.10.17
Xi, l’uomo che volle farsi Mao ha un solo nemico: The Donald
Il pensiero del leader inserito nella Costituzione: asse con Europa e Putin, rapporti freddi con gli Usa
di Giampiero Gramaglia
Il “sol dell’avvenir” è sempre più radioso all’Est: il popolo e la nazione cinesi “hanno davanti a sé un luminoso futuro”, dice Xi Jinping, confermatissimo segretario generale del Partito comunista cinese, e presidente della Repubblica popolare, chiudendo i lavori del XIX Congresso. E aggiunge: “In questo grande momento, ci sentiamo più fiduciosi e orgogliosi e, allo stesso tempo, avvertiamo un forte senso di responsabilità”.
Lui, personalmente, ne ha ben donde: il suo pensiero è ormai inserito nella Costituzione cinese, accanto a quelli di Mao Tse-tung e di Deng Xiao-ping: tre pietre miliari nel cammino della Cina dopo la Seconda Guerra Mondiale, prima comunista e collettivista, tra libretto rosso e cento fiori; poi nel 1978 aperta alle quattro modernizzazioni e prammatica, “Non importa se un gatto è bianco o nero, finché cattura i topi”; ora pronta non solo a inserirsi nella globalizzazione ma a sfruttarla.
Lasciando i cinesi liberi di coltivare il proprio sogno, che non è la democrazia o la libertà d’espressione, ma il benessere e la ricchezza. Sgomitando fra di loro e nel Mondo. Forte e solido all’interno, ragionevolmente sicuro di restare al potere fino al prossimo Congresso, nel 2022. Xi deve ora prendere le misure ai suoi interlocutori internazionali. Ma il leader cinese s’è già portato avanti, con la Russia, l’Europa, gli Usa, mentre l’Africa è un terreno di conquista economico e commerciale e il Medio Oriente un ginepraio in cui lasciare avventurarsi Mosca e Washington, se proprio ci tengono – senza però rinunciare all’asse con Teheran -.
Con Vladimir Putin, Xi ha apparentemente ben poco in comune di personale: se non ne condivide gli atteggiamenti muscolari, pratica, però, un decisionismo ‘in salsa cinese’, cioè con sfumature di saggezza orientale.
E Russia e Cina hanno interessi paralleli, strategici, economici, energetici, specie davanti alla minacciosa imprevedibilità dell’interlocutore americano di questi tempi. Con l’Europa di Angela Merkel e, ora, del presidente Emmanuel Macron, il feeling è grande, se si chiude un occhio sulle libertà fondamentali e sui diritti dell’uomo: la Cina di Xi è, con l’Ue, paladina della tutela dell’ambiente e della lotta contro i cambiamenti climatici e pure della libertà degli scambi: un paradosso, innescato dall’atteggiamento statunitense: pechino occupa gli spazi che Washington abbandona. E, infatti, con l’America di Donald Trump, la presa di distanze e il colpo di freno è stato immediato: a Xi, non è ancora andato giù il dolce, servitogli a cena in Florida a marzo dal magnate presidente, insieme al bombardamento a sorpresa della Siria. Da quando Trump s’è insediato alla Casa Bianca, l’impressione è che Xi stia seduto sulla riva del fiume della storia ad aspettare che passi il cadavere del nemico. La Cina ha 3000 anni di storia e tempi più lunghi d’un mandato presidenziale Usa; e non avverte la pressione dell’opinione pubblica, che resta relativamente silente, essendo troppo impegnata a fare soldi.
I presupposti c’erano già tutti nel discorso fatto a Davos, tempio della globalizzazione, in gennaio, quando Trump doveva ancora insediarsi alla Casa Bianca, ma aveva già individuato nella Cina, commercialmente ed economicamente, il grande nemico della sua America “di nuovo grande”. E lì a Davos Xi s’era presentato come il nuovo campione del libero scambio.
La nuova idea di Cina proposta al mondo, in attesa di centrare l’obiettivo 2020 di una “società moderatamente prospera” e quello del centenario, nel 2049, di un “Paese sviluppato”, ‘batte in testa’ solo con i vicini di casa: con il Giappone di Shinzo Abe, moderatamente nazionalista e bellicista, riemergono diffidenze e rancori mai sopiti; e, in Corea del Nord, Kim il giovane, il terzo rampollo dell’anomala dinastia comunista, è riottoso ad ascoltare i consigli di Pechino. Con il pericolo d’innescare una guerra sull’uscio della Cina: Xi non la vuole, ma rischia di subirla.
La Stampa 25.10.17
Xi, il nuovo Mao per la sfida dell’egemonia
di Bill Emmott
Ora sappiamo che il presidente Xi Jinping è il leader cinese più importante, e anche il più potente, dai tempi del «grande timoniere» Mao Zedong, l’uomo che nel 1949 condusse il Partito comunista al potere e che fino alla morte, nel 1976, fu il leader supremo della Cina. Lo sappiamo perché i delegati di quella grande messinscena politica che è il Congresso del Partito Comunista hanno scritto il suo nome nella costituzione del partito come ispiratore del «pensiero di Xi Jinping».
Ma cosa significa? Questo è molto meno chiaro.
Certo non significa che il Presidente Xi intenda seguire le orme di Mao prendendo decisioni personali impulsive e sconsiderate come il «Grande balzo in avanti» dell’agricoltura che nel 1958 condannò dieci milioni di persone alla morte per fame, o come la «Rivoluzione culturale» del 1966 che scatenò la violenza in tutto il Paese. Significa, tuttavia, che un lungo periodo di governo collettivo e abbastanza consensuale è stato definitivamente sostituito da un controllo centrale molto più stretto e cogente.
Il ritorno a un rigoroso controllo centrale riflette una sensazione diffusa all’interno del Partito Comunista e della leadership militare che vi è associata, l’idea cioè che la corruzione, il dissenso e l’indisciplina degli ultimi dieci anni e più abbiano messo a rischio la sopravvivenza del governo monopartitico. Ma molto probabilmente rispecchia anche un sentimento di fiducia per il ruolo della Cina nel mondo, ora e in futuro, che a sua volta riflette la sensazione, probabilmente esatta, che la Cina sia la maggiore beneficiaria della presenza di Donald Trump alla Casa Bianca.
C’è un’opportunità da cogliere e una leadership ben definita e potente è il miglior strumento per approfittarne. A questo scopo il Paese deve essere mantenuto unito e gli altri Paesi del mondo, in particolare nell’Asia orientale, devono essere convinti che la Cina sa cosa sta facendo e quali obiettivi perseguire nel lungo termine.
La natura esatta di quest’opportunità, nata dalla debolezza, dal caos, dalla perdita di affidabilità e dalla delegittimazione dell’America, sta appena cominciando a emergere. Comprenderà una maggiore accettazione da parte dei vicini asiatici del primato della Cina nella regione e del suo diritto di espandere il controllo strategico sul Mar Cinese Meridionale, poiché l’unica alternativa a tale primato è scomparire. E certamente includerà una loro crescente dipendenza dalla Cina per il sostegno finanziario e la sicurezza.
Potrebbe anche, in uno scenario più drammatico, includere un grande pericolo che potrebbe però portare enormi vantaggi strategici: il rischio di un conflitto, potenzialmente nucleare, tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti. Un rischio che potrebbe anche fornire alla Cina l’occasione per intervenire, con il risultato di acquisire maggior potere sulla Corea del Nord, conquistarsi la gratitudine dei Paesi vicini, nonché il controllo di fatto sul futuro della penisola coreana.
Ci sono anche altre possibili aperture di credito per una Cina più influente: una è in Arabia Saudita, dove si guarda al capitale cinese per la compagnia petrolifera nazionale, l’Aramco. Un’altra è la definizione delle regole per il commercio nell’area pacifica ed asiatica, dopo che l’America ha abbandonato l’accordo per il Partenariato Trans-Pacifico che negli ultimi anni aveva negoziato con altri 11 Paesi escludendone la Cina.
Le potenzialità che si aprono per la Cina sono di vitale importanza non solo per il futuro del Paese, ma anche per l’affermazione del suo status nel mondo. I precedenti presidenti cinesi avrebbero saputo cogliere queste occasioni? Forse: la leadership collettiva del partito ha sempre mostrato un forte senso della strategia, anche se i suoi presidenti e i primi ministri si sono dimostrati pigri e poco incisivi. E’ famosa l’affermazione del Principe Carlo d’Inghilterra che in occasione della restituzione di Hong Kong nel 1997 li definì «statue di cera».
Il punto è che quelle statue di cera hanno finito per mettere nei guai la Cina, guai da cui non si è ancora del tutto ripresa. Dopo la morte di Deng Xiaoping nel 1997, il partito ha tutelato il suo ruolo istituendo un sistema di limiti di durata dei mandati e di rotazione rigorosa del personale, allo scopo di frammentare il potere e, si sperava, ridurre l’incentivo alla corruzione. Nel frattempo, sono stati tentati esperimenti di democrazia locale, a livello dei villaggi, e si è fatto un maggiore sforzo per ascoltare l’opinione pubblica.
Probabilmente queste riforme hanno assicurato al partito altri due decenni di potere, ma non hanno risolto il problema della corruzione e hanno indebolito la leadership. Chi si trovava in una posizione di forza ha dovuto far in fretta a rastrellare miliardi prima del termine del mandato e la consapevolezza che presto avrebbero cambiato lavoro o sarebbero stati mandati in pensione ha dissuaso i leader dall’assumersi dei rischi.
Se ne potrebbe trarre la lezione che un sistema politico autoritario non può sopravvivere senza un’autorità forte. Proprio come una persona non può essere per metà incinta, così un partito dittatoriale non può diluire il potere e baloccarsi con la democrazia se vuole rimanere al governo. Così il presidente Xi Jinping, diventato per la prima volta presidente nel 2012, ha spinto bruscamente l’orologio all’indietro, verso un controllo totalmente centralizzato.
Nella logica di un partito comunista questo è perfettamente sensato. La sua dura repressione della corruzione si è rivelata popolare, almeno tra quelli non ancora presi di mira. Ha liquidato tutti i potenziali rivali. E ora potrà essere, ufficialmente o ufficiosamente, leader supremo della Cina per un periodo molto più lungo del secondo mandato quinquennale dei suoi predecessori.
Xi Jinping è dunque ben posizionato per sfruttare un momento cruciale negli affari del mondo, con il ruolo dell’America in declino e quello della Cina in ascesa. Tutto ciò non basta a garantire che avrà successo: la Cina ha molti problemi nazionali da affrontare, soprattutto nel campo delle riforme economiche. Ma se c’è qualcuno che può cogliere l’attimo e raccogliere la sfida, questo è proprio Xi Jinping.
traduzione di Carla Reschia
Il Sole 25.10.17
Pechino. Concluso il Congresso del Partito comunista, oggi la lista dei nuovi dirigenti del Politburo
Il pensiero di Xi nella Costituzione
Il leader cinese come Mao, verso una guida ultradecennale della Cina
di Rita Fatiguso
Pechino La chiusura del 19esimo Congresso ha sancito il miracolo di Xi, l’equilibrio tra la conferma del suo prestigio personale e, al tempo stesso, di quello del partito cardine della società cinese. «Il nostro partito mostra una forte, ferma e vibrante leadership», ha detto il segretario generale nel discorso conclusivo, proprio mentre una delle risoluzioni finali lo collocava diritto nel Pantheon dei grandi della storia cinese. Non era semplice tenere insieme tutto ciò, ma è il partito che si rafforza se il pensiero del compagno Xi Jinping, core leader a vita, finisce nella Costituzione, elevandolo al rango dei suoi predecessori, Mao Zedong in testa. Il pensiero di Xi, quel «socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova Era», è in linea con il pensiero di Mao e Deng che aiutarono il partito a sopravvivere alla guerra civile e al crollo dell’Urss.
Solo così, costruendo sulle spalle di giganti, è possibile per Xi affrontare il prossimo quinquennio e anche di più senza suscitare contrasti insanabili nel partito che gli si ritorcerebbero contro. Un compromesso obbligato, perfettamente intuibile dalla presenza costante al fianco di Xi, ieri, dei suoi predecessori Jiang Zemin e Hu Jintao, mentre, alle sue spalle, erano seduti altri veterani. Un passato ingombrante: con l’ombra lunga di Jiang e Hu non si può ancora azzerare completamente ciò che è stato e proporsi come il nuovo Mao. Oggi c’è bisogno di guardare all’estero, fuori dai confini, e per questo la One belt one road strategy - di cui Xi rivendica la paternità insieme alla modernizzazione delle Forze armate - finisce anch’essa scolpita nel marmo delle Tavole della Legge del Partito.
Ieri i 2287 delegati del Congresso hanno eletto un nuovo Comitato centrale che voterà oggi nel suo primo Plenum i 25 del Comitato permanente del Politburo e i 7 dello Standing Committee. La Commissione centrale per la disciplina e le ispezioni ha 133 nuovi componenti, Wan Qishang, che l’ha guidata, andrà in pensione, Zhao Leji, fedelissimo di Xi, ne sarà il successore, mentre tra i nuovi nomi dell’anticorruzione spicca quello di Liu Janchao, classe 1963, che dai ranghi del ministero degli Esteri è passato a dare la caccia alle “volpi” corrotte disperse in mezzo mondo.
Ben 204 i membri di diritto del nuovo Comitato, solo una decina di donne, tre delle minoranze che si aggiudicano 15 posti e tra i più giovani spuntano Chen Min’er, 57 anni, fresco segretario di Chongqing dopo la rovinosa caduta di Sun Zhencai, e quello del Guangdong Hu Chunhua, 54, due esponenti della sesta generazione di leader probabilmente destinati ad attendere ancora un giro prima di finire nello Standing Committee.
Nella lista dei titolari del nuovo Comitato i pupilli di Xi ci sono tutti, i segretari Jiang Chaoliang, Sun Dawei, Cai Qi, Du Jiahao, Li Qiang, Li Hongzhong, Ying Yong, Chen Quanguo, e il segretario ombra di Xi, Li Zhanshu, l’uomo della sicurezza Guo Skengkun, il teorico Wang Huning, il capo della NDRC Liu He, e ministri amici come Zhong Shan, il cancelliere Yang Yechi, quello degli Esteri Wang Yi. Liu Qibao, attuale capo della Propaganda, resiste ma c’è Wang Kunming, il vice destinato a prenderne il posto, l’emergente Tuo Zhen è tra i supplenti. Tra i media Cai MIngzhao (Xinhua), Yang Zhenwu (People’s Daily), c’è anche Song Tao (Relazioni internazionali del Partito). Per l’economia tra i supplenti Yi Gang vice di PBoC e Ning Jizhe, vice di NDRC, mentre i boss di China Securities Regulatory Commission Liu Shiyu e di China Banking Regulatory Commission Guo Shuqing si piazzano tra gli effettivi.
Poi ci sono tutti quelli che a Xi non si rifanno: mentre tra gli applausi finali i leader si scambiavano strette di mano, uno, di certo, si è astenuto dal farlo, perché non ne ha bisogno: Han Zeng, un nome pesante, un protetto di Jiang Zemin destinato a entrare nello Standing committee.
Il Sole 25.10.17
L’Asia tra l’imperatore cinese e l’incognita Trump
di Stefano Carrer
Donald Trump non ha certo dimestichezza con le sottigliezze della politica asiatica. Ma certo si sarà accorto che nel suo prossimo viaggio si troverà di fronte due interlocutori politicamente rafforzati: i leader delle due principali economie regionali, emersi entrambi al vertice dei loro Paesi nel 2012 e freschi di rinnovata incoronazione. Uno, Xi Jinping, ormai assunto nell’Olimpo della storia cinese dopo l’ultimo congresso del partito, che ne ha cementato il potere personale come disegnatore di una visione politica che odora di vero balzo in avanti verso l’egemonia regionale e di lunga marcia verso una primazia globale. L’altro, Shinzo Abe, si è visto riconfermare una maggioranza parlamentare di due terzi che lo proietta verso la storia, come possibile premier più longevo del Giappone dai tempi della prima costituzione Meiji alla fine dell’Ottocento.
Un tweet di congratulazioni molto caloroso è arrivato ad Abe dal premier indiano Narendra Modi, che l’ha chiamato «my dear friend», e con il quale intende rafforzare ulteriormente le relazioni indo-giapponesi (mentre il segretario di Stato Usa Rex Tillerson ha esplicitato la volontà di rafforzare i legami con New Delhi in funzione di contenimento della Cina). Se la “nuova era” cinese preconizzata da Xi allarma in primis altri Paesi asiatici, solo la conferma dell’impegno americano verso la regione può dare vigore al loro avvicinamento.
Per il momento, come osserva Ian Bremmer (Eurasia Group), una buona notizia per Trump, alla vigilia del suo viaggio, è la netta vittoriale elettorale di Abe - di gran lunga l’alleato più stretto nella regione -, che garantisce il miglioramento dei legami bilaterali nella Difesa e l’appoggio a una linea dura verso la Corea del Nord, moltiplicando le pressioni su Pechino perché continui a rafforzare le sanzioni (sul commercio, invece, Abe farà melina per evitare di avviare negoziati bilaterali). Se poi cercherà di cambiare la Costituzione ultrapacifista varata sotto l’occupazione americana, non troverà obiezioni a Washington, che lo incoraggerà anche a continuare a offrire appoggio e assistenza ai Paesi in contenzioso territoriale con Pechino. «La Corea del Nord è un peso e una distrazione per Tokyo – osserva Narushige Michishita dell’Istituto di ricerche Grips –. La strategia giapponese è intesa a mantenere pace e stabilità nella regione di fronte all’ascesa cinese: questo è il vero problema». Secondo molti analisti, sul breve i due leader rafforzati potranno però procedere a un miglioramento dei rapporti bilaterali. Non a caso Abe è andato, nel giorno in cui ha sciolto la Camera Bassa, nell’hotel di Tokyo dove si celebravano i 45 anni di normalizzazione dei rapporti bilaterali, scambiando messaggi con il premier cinese. E ha invitato Xi in Giappone nel 2018, dopo una sua desiderata visita in Cina, oltre a proporre entro fine anno un vertice a tre con Seul. È in attesa di risposte dal nuovo imperatore che sta a Pechino.
il manifesto 25.10.17
Corbyn non celebra Balfour
Israele/Palestina. Il leader laburista britannico ha scelto di boicottare le celebrazioni previste il 2 novembre per i 100 anni dalla Dichiarazione Balfour con cui Londra evocò un "focolare ebraico" in Palestina. L'Anp di Abu Mazen minaccia di portare la Gran Bretagna di fronte ai giudici.
di Michele Giorgio
Jeremy Corbin non sarà presente alla cerimonia organizzata a Londra per il 2 novembre dall’associazione “Amici d’Israele” in occasione dei 100 anni della Dichiarazione Balfour. Il leader del Partito Laburista ha scelto di non unirsi al premier britannico Theresa May, a quello israeliano Benyamin Netanyahu e a 150 Vip nelle celebrazioni del documento che ha segnato in profondità la storia del Medio Oriente contemporaneo. Quella dichiarazione, con cui l’Impero coloniale britannico evocò un “focolare ebraico” in Palestina, è da sempre respinta dai palestinesi e il documento è ora oggetto di contestazioni legali da parte dell’Autorità Nazionale (Anp) del presidente Abu Mazen. Immediate le polemiche innescate da diverse organizzazioni ebraiche britanniche per il forfait di Corbyn, già preso di mira per il suo sostegno esplicito alla causa palestinese e accusato dagli avversari, anche nel partito, di essere un “antisionista militante” se non addirittura un “antisemita”. Il capo dei laburisti si mostra impermeabile alle accuse e conferma la sua assenza alle celebrazioni del 2 novembre.
Due anni fa Corbyn attaccò la Dichiarazione Balfour, parlandone come di un testo «confuso» , non approvato dall’intero governo dell’epoca e neppure dai principali rappresentanti della comunità ebraica britannica. Parole che, sussurra qualcuno, hanno fornito suggerimenti legali ai palestinesi che da mesi sono perentori: o la Gran Bretagna presenta le sue scuse per la Dichiarazione Balfour o dovrà risponderne in Tribunale. L’ha ribadito, ancora qualche giorno fa, il ministro degli esteri dell’Anp Riad al Malki: «Andremo avanti con le procedure legali se la Gran Bretagna insisterà nella sua posizione». Il mese scorso all’Onu Abu Mazen ha bollato la Dichiarazione come una «storica ingiustizia», sicuramente da non festeggiare. Per congelare il procedimento legale, i palestinesi chiedono alla Gran Bretagna di scusarsi o di emettere una nuova Dichiarazione a sostegno della proclamazione dello Stato di Palestina. Londra invece ritiene che non debba scusarsi con nessuno e non ha neppure replicato alla proposta avanzata dall’Anp.
I palestinesi ripetono che nel 1917 il Segretario per gli affari esteri Arthur Balfour, promise ad altri terra che non apparteneva agli inglesi, aprendo così la strada alla nascita nel 1948 dello Stato di Israele in Palestina. Il favore britannico verso il “focolare ebraico” fu messo nero su bianco da Balfour e inviato a Lord Lionel Walter Rothschild, esponente della comunità ebraica inglese di allora e legato al movimento sionista. Secondo gli storici la Dichiarazione Balfour si inseriva nei disegni fatti dalle potenze coloniali per la vasta area geografica che per centinaia d’anni era appartenuta all’Impero Ottomano, in particolare nello schema degli accordi di Sykes-Picot del 1916 con il quale Londra e Parigi si spartirono il Medio Oriente. La Dichiarazione Balfour fece parte nel 1920 a Sevres del Trattato di pace con la Turchia.
Il Sole 25.10.17
Austria. Avviati i colloqui di governo con i populisti di Strache
Il popolare Kurz sfida l’Europa e apre alla destra oltranzista
di Vittorio Da Rold
«Da domani inziano i negoziati blu-turchese». Così titolava Oesterreich.24, giornale popolare austriaco che si riferiva al colore turchese dei popolari di Sebastian Kurz, primi arrivati con il 31,5% dei voti, e al blu dei populisti della destra oltranzista di Heinz-Chistian Strache arrivati al terzo posto con un rotondo 26 %, il miglior risultato dal 1999 ottenuto con Jörg Haider, il leader carinziano che aveva inorridito l’Europa quando aveva apprezzato le politiche del lavoro di Hitler.
Il cancelliere austriaco designato Kurz, 31 anni, ha invitato alle consultazioni l’estrema destra del Fpö, per costituire il governo. Pronte le manifestazioni di piazza dei gruppi radicali di sinistra e duro il giudizio dell’ex cancelliere uscente, il socialdemocratico Christian Kern: «Quello che otterremo è una coalizione ideologica e antidiluviana dei due partiti di destra, che già da tempo si sono avvicinati sul piano dell’ideologia e del contenuto». «Avrei risparmiato volentieri questo al paese», ha aggiunto.
Dopo aver vinto le elezioni parlamentari della scorsa settimana, il partito di Kurz è privo di una maggioranza e ha bisogno di un partner per formare un governo stabile. Solo due parti hanno posti sufficienti per farlo - i socialdemocratici e la destra oltranzista del Fpö.
«Ho quindi deciso di invitare il leader del Fpö Heinz-Christian Strache a partecipare a colloqui di coalizione», ha detto Kurz a una conferenza stampa tenuta presso la sede del Partito Popolare, aggiungendo che un governo di minoranza è un “buon piano B” se i colloqui dovessero fallire.
A Strasburgo il capo dei popolari del Parlamento europeo Manfred Weber ha gettato acqua sul fuoco circa la scelta di un partner euroscettico con cui formare il nuovo esecutivo. Con il Ppe Sebastian «Kurz è stato chiarissimo sul fatto di voler formare un governo pro-Ue, non c’è discussione su un’uscita dall’Ue e sull’uscita dall’euro».
Alcuni leader europei hanno espresso preoccupazione per il possibile ritorno al potere del Fpö, fondato negli anni 50 da ex nazisti. Negli ultimi anni, Strache ha espulso alcuni suoi membri per dichiarazioni antisemitiche e ha abbandonato le richieste di referendum perché l’Austria lasci l’Ue.
Sul fronte economico Strache ha chiesto tagli per 12 miliardi di euro di tasse. Barbara Kolm, presidente dell’Austrian economic center, un think tank ascoltato da Strache, il nuovo governo dovrà «ridurre tasse e spese. Il governo dovrà abbassare il costo del lavoro e favorire riforme strutturali del welfare». Secondo Kolm «lo Stato deve tornare alle sue funzioni fondamentali. Far rispettare lo stato di diritto, liberare la creatività imprenditoriale e permettere alle persone di prendere le proprie decisioni e di essere responsabili di sé stesse. I più grossi errori che molti governi hanno compiuto negli ultimi decenni sono stati quelli di iniettare soldi del contribuente nel sistema ma, una volta messo in funzione il motore economico, non si sono fermati. In altre parole non hanno letto la seconda parte di Keynes. La parte cioè quando Keynes dichiarava che una quota di spesa pubblica oltre il 25% è pericolosa e oggi in Austria siamo oltre il 43%. È ora di tornare ad Hayek».
Il Fatto 25.10.17
Lutero e il nazismo. Soltanto coloro che non hanno dubbi vivono felici
di Anna Belli
Scrivo in merito all’articolo di Paolo Isotta “La stretta parentela tra Lutero e Hitler” pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 18 ottobre 2017, che riconosce, bontà sua, che la Riforma di Lutero “modificò la storia del mondo”. Poi l’articolo diventa sempre più caotico: taccia la Riforma di fanatismo; come se non si rendesse conto che, all’epoca, da parte cattolica c’era anche molto fanatismo.
Continua con argomentazioni così disordinate che ci vorrebbe troppo tempo per dipanarle e spiegare perché sono inesatte.
Segnalo solo due perle: l’idea che la Controriforma abbia portato a una “fioritura artistica d’incommensurabile valore: il luteranesimo (e non parliamo dell’ancor più fanatico calvinismo) non riesce a liberarsi dall’idea che l’arte abbia essenza peccaminosa”.
Paolo Isotta è musicologo; stupisce che abbia potuto scrivere queste parole chi conosce senza dubbio Schütz, Buxtehude, Bach, per nominare i primi che vengono in mente. La seconda perla è alla fine, quando parla del luteranesimo come radice del nazismo, citando soprattutto filosofi a riprova della sua tesi.
A quella lista di nomi, si può ribattere citando Adriano Prosperi, Heinz Schilling e Giancarlo Pani, che in tempi più vicini a noi si sono occupati e si occupano di Lutero e della Riforma con approcci scientifici differenziati e fondati.
In questo 2017, anno della Riforma, da luterana italiana sono rimasta piacevolmente sorpresa sia dalla quantità di volte in cui i mezzi di comunicazione si sono occupati di Lutero e della Riforma sia dalla qualità media, alta, con cui l’hanno fatto.
Purtroppo, l’articolo di Paolo Isotta fa parte degli articoli che abbassano la media.
Sono già in programma altri miei articoli su la musica e il luteranesimo. Quanto al resto, le certezze, come quelle della firmataria della lettera, rendono felici; e io invidio tanta felicità.
La Stampa 25.10.17
L’Università inaugura il corso di Storia dell’omosessualità
A Torino un percorso di studi sul tema, dal ’700 a oggi
di Federico Callegaro
La «Storia dell’omosessualità» diventa, per la prima volta in Italia, un corso di studi universitari. Sarà il Dams di Torino, infatti, a prevedere che i suoi iscritti possano inserire nel proprio carico didattico questa disciplina. Il corso, che varrà 6 crediti formativi, verrà tenuto dalla professoressa a contratto Maya De Leo. «Il ciclo di studi propone una storia culturale dell’omosessualità che ne ricostruisce le trasformazioni in età contemporanea (dalla fine del XVIII secolo a oggi, ndr) tra Europa e Stati Uniti - spiegano dall’Università degli Studi di Torino -. E si concentra sulla produzione culturale legata ai movimenti di liberazione omosessuale e più in generale all’attivismo LGBT+ e queer».
Strumento accademico
A ideare questo percorso è stato Antonio Pizzo, docente di Storia del teatro al Dams e che, grazie all’impegno del Rettore per finanziare l’iniziativa per tre anni, ha pensato fosse giunto il momento di dotare la battaglia per i diritti di un percorso accademico ufficiale.
Sezionare gli stereotipi
L’omosessuale effemminato? Uno stereotipo del ‘700, nato tra il popolo per attaccare una nobiltà bollata come «complesso di damerini leziosi». I gay come malati? Retaggio della psichiatria ottocentesca, durato fino agli Anni 70, cioè fino a quando gli attivisti gay non affrontarono di petto la questione arrivando a contestare un importante incontro di psichiatri che si teneva a San Remo, per chiedere di togliere l’omosessualità dall’elenco delle perversioni e delle parafilie.
Battaglia per i diritti
«Parleremo di questo e di molto altro - spiega la docente del corso, Maya De Leo -. Attraverso lezioni frontali e seminari, letture e analisi di immagini, cercheremo di ripercorrere la storia contemporanea di una lotta per i diritti che è durata a lungo. Il nostro sarà un corso che penso possa interessare tutti e che si occuperà anche della nascita e del cambiamento dell’immagine del maschile e del femminile. Si parlerà, quindi, anche di storia di genere».
L’ufficialità
Per Antonio Pizzo, il corso potrà invogliare anche gli altri atenei italiani a nominare docenti e ricercatori in grado di studiare l’argomento. «Mi sono reso conto che la questione dell’omosessualità, in Italia, era confinata alla sfera personale degli individui- spiega -. Questo è uno dei motivi per cui le lotte lgbt hanno fatto tanta fatica ad affermarsi. Come fa una cultura a crescere e a pensare al futuro se non può contare su un solido passato? Per questo ho ritenuto importante promuovere il corso e fare in modo che entrasse in un circuito ufficiale come quello accademico dell’Università».
Perché, allora, concentrarsi solo sulla storia contemporanea? «In primo luogo perché i percorsi d’insegnamento sono divisi rigidamente - spiega il professore -. Poi perché gli ultimi anni, quelli delle lotte, hanno fornito molto materiale. Ma nelle lezioni non mancheranno riferimenti storici più datati».
La Stampa 25.10.17
La Russia decreta il “paradiso in terra” promesso da Marx
L’obiettivo dei capi bolscevichi è così ambizioso che per raggiungerlo ogni mezzo diventa lecito
di Gianni Riotta
Skuratov, occhiuto censore dello Zar, non ebbe paura del criptico tomo di economia capitatogli sul tavolo nell’aprile 1872: «Pochi in Russia lo leggeranno, ancor meno lo capiranno». Così il Capitale di Karl Marx ebbe proprio in russo la prima traduzione all’estero, opera del populista «narodnik» Nikolai Danielson e, di soppiatto, il comunismo arrivò nella futura patria della rivoluzione bolscevica 1917.
Il povero Skuratov sbagliava, a Londra, culla della classe operaia che avrebbe dovuto seppellire la borghesia Marx è isolato, con il fido Engels, nella dispotica Russia, «gendarme d’Europa», il Capitale è invece subito best seller, 900 copie esaurite a San Pietroburgo in pochi giorni. «Mi leggono in Russia come da nessuna parte», gongola Marx: «Ben curioso per me finire campione della Giovane Russia, non sai mai chi ti capita come compagno nella vita». I «narodniki», populisti agrari, credevano che agente rivoluzionario contro l’oppressione zarista sarebbe stato non il proletariato operaio del Manifesto 1848, ma il saggio, fiero contadino slavo dell’ «obšcina», l’antica comune rurale. Marx si lega d’affetto a questi primi seguaci e quando i pionieri del marxismo russo, Plekhanov, la Zasulich, li criticano come «terroristi», li difende con Engels. In una lettera alla rivista russa Annali Patri del 1877, Marx scrive «Forse solo la Russia potrà passare dal feudalesimo al socialismo», senza forche caudine capitaliste, grazie alla cultura slava. Marx ed Engels detestano l’idolo della «Madre Russia», e in mezzo secolo di corrispondenza con i russi, populisti o socialisti, 1846-1895, preconizzano per Mosca una rivoluzione modello 1789 in Francia, moto antifeudale contro lo Zar.
Arriverà invece il 1917, e non dall’ «obšcina» agreste, da nuclei di militanti, intellettuali, operai, soldati. Il filosofo Isaiah Berlin spiega il salto storico dalla rivoluzione progettata da Marx per l’Europa moderna, alla rivoluzione realizzata da Lenin per la Russia ancestrale, in un saggio del 1994, a Urss dissolta solo da tre anni: se esiste nella Storia un programma politico che abbia soluzione a ogni male, occorre mobilitarsi per raggiungere quel paradiso, chi si oppone è un malvagio e va spazzato «Se necessario con violenza, terrore e massacri. Lenin si persuase di questo leggendo il Capitale…ogni metodo è lecito pur di creare la società felice».
Cento anni dopo i Soviet, questo resta il paradosso che i saggi intervistati da Francesca Paci per La Stampa proveranno a dirimere. L’utopia di Marx appassiona per primi i russi, che la coniugano però con il fosco dispotismo slavo, considerato da Dostoevskij parabola del male morale. Engels ha come una sorta di visione dell’incubo che travolgerà, tra gulag ed esecuzioni, milioni di comunisti appassionati, in una lettera a Danielson del 1891, «La Storia è la Dea più crudele. Lancia il suo carro trionfale su cataste di cadaveri, non solo in guerra, anche in tempi di “pacifico” sviluppo economico», mentre Marx scrive nel 1881 a Jenny Longuet che «il terrorismo è tipico, e inevitabile, nella storia russa e non c’è dunque ragione di far troppa morale contro…». Quando la «Dea crudele» scatena la rivoluzione bolscevica, però, tanti si entusiasmano. Parte per Mosca il giornalista americano John Reed, il cui reportage di propaganda diverrà classico, con lui ingenui militanti finiti poi in Siberia. Nel meraviglioso Viaggio nella vertigine (Dalai) la rivoluzionaria Evgenija Ginzburg ricorda l’esule comunista italiana, il cui nome abbiamo perduto, che per tutta una notte ulula nella nostra lingua, in cella, il suo dolore che nessuno comprende.
In Italia Antonio Gramsci, tra i fondatori del Partito comunista, coglie la radicalità bolscevica scrivendo su Il grido del popolo già nel ‘17 «È il fenomeno più grandioso che mai opera umana abbia prodotto. L’uomo malfattore comune è diventato, nella rivoluzione russa, l’uomo quale Kant…aveva predicato…È la liberazione degli spiriti, è l’instaurazione di una nuova coscienza morale...È l’avvento di un ordine nuovo, che coincide con tutto ciò che i nostri maestri ci avevano insegnato. E ancora una volta la luce viene dall’oriente e irradia il vecchio mondo occidentale…», come in un Vangelo apocrifo marxista.
Gramsci, in cella, farà in tempo a ricredersi, ma La forza del mito, così lo storico Marcello Flores definisce il fascino para-religioso del ‘17 in un recente bel libro (Feltrinelli), dura un secolo. Riascoltate le recenti quattro ore di discorso del presidente Xi Jinping al Congresso del partito comunista: «Cento anni fa, le salve della Rivoluzione d’Ottobre portarono il marxismo-leninismo in Cina…il nostro partito nacque solo quattro anni dopo…e da allora il popolo cinese ha nel partito comunista la spina dorsale della lotta per l’indipendenza nazionale, la liberazione, la prosperità e la felicità…». O leggete il nuovo libro della Anne Applebaum (da tradurre!) Red Famine (Carestia rossa): Putin occupa la Crimea contro il «fascismo ucraino», perché ancora ossessionato dalla «crudele lezione del ‘19», quando, muovendo dall’Ucraina, il generale Anton Denikin arriva con l’Armata Bianca a 300 chilometri da Mosca e i bolscevichi si salvano a stento. Non pensate dunque ai Dieci giorni che sconvolsero il mondo come il passato, perché essi ci parlano di presente e di futuro.
La Stampa 25.10.17
Andrey Konchalovskiy
“Di quell’era terribile non tutto è da buttare via”
“Tra i risultati positivi ci sono la fine dell’analfabetismo l'industrializzazione e la sconfitta del nazismo”
intervista di Francesca Paci
Ciak, si gira. Andrey Konchalovskiy stacca l’occhio dalla macchina da presa con cui sta filmando il kolossal d’autore Il Peccato sulle colline di Firenze e inquadra la Storia: 24 ottobre 1917, il primo dei dieci giorni che sconvolsero il mondo. È passato un secolo dal blitz bolscevico ma i fantasmi di quell’incipit del ’900 seguitano ad aggirarsi per l’Europa, più reali dei concittadini di Michelangelo in pausa tra gli ulivi dell’antico Spedale del Bigallo. Ottant’anni di cui oltre metà nel cinema, il dissacrante regista russo che ha firmato pellicole sovversive, blockbusters e dure satire del presente, non si appassiona all’eredità rivoluzionaria come fa il fratello Nikita Mikhalkov, ma neppure a quella del dissenso. T-shirt, bretelle e gambe sul tavolo della roulotte con l’aureola del «maestro», ascolta, ride, chiede se sarà riportato tutto quanto dice.
Leningrado è tornata San Pietroburgo: cosa resta del 1917?
«Resta la vera cortina di ferro, quella che precede la contrapposizione tra capitalismo e comunismo. La rivoluzione del ’17 non può essere estrapolata dalla storia. Ciò che è ancora qui, dopo secoli di lotte, è il conflitto tra la cristianità ortodossa e cattolica. Spero che l’Europa dell’est e dell’ovest sanino questa frattura originaria perché le forze che la vogliono e che oggi si manifestano come ideologia americana minacciano l’Europa più dell’immigrazione».
Marx è morto ma Dio vive?
«Le religioni formano le tradizioni. Il cristianesimo latino è storicamente “sociale”, ha incoraggiato la nascita della borghesia e dei piccoli mercati dove si vende il raccolto dei campi. In Russia il clima è duro, il territorio sconfinato e disabitato, non ci sono strade per andare al mercato né mercati. L’uomo russo lavora la terra senza piacere. L’assenza del mercato ha impattato molto sulla mentalità russa: geneticamente siamo Europa, ma la testa è diversa».
Vuol dire che la rivoluzione poteva compiersi solo in Russia?
«Quella bolscevica sì. Ma la produsse il mondo occidentale. Già nel 1800 Lord Palmerston diceva che la vita era dura quando la Russia non combatteva con nessuno. La Gran Bretagna voleva smantellare la Russia, una terra immensa, con pochi abitanti e tante risorse. Lenin non sperava tanto. Fu un evento orchestrato come lo fu la caduta dell’Urss: qualcuno oggi vorrebbe il tris in Russia».
Alla sua nascita Lenin è morto, Trotsky vive in Messico, Stalin regna con le purghe. Cosa ricorda?
«Ero un bambino, c’era la guerra, fuggimmo da Mosca. Oggi però so che la propaganda sovietica ci ha intontito di leggende sulla rivoluzione, Lenin, Stalin, miti che, dopo l’89, sono diventati mostruosi. La verità dev’essere in mezzo. Da ragazzo ero anti-comunista e avversavo Stalin, ma 10 anni dopo la Perestrojka la Russia era al collasso ed è arrivato Putin. I russi sono alieni al business. Una differenza che potrebbe essere positiva alla luce di quanto scriveva Huxley 70 anni fa: “L’occidente va verso l’abisso in Rolls-Royce e la Russia in utilitaria”. L’Europa è stufa della civiltà, la Russia non ancora e senza l’Europa sopravviverà. Siamo certi del contrario? Parliamoci: noi abbiamo l’energia, voi la cultura».
Crede nella politica, o l’ha fatto?
«Mi ha interessato. Ma l’arte non è politica. Michelangelo pensò il David come opera politica, voleva fosse il simbolo della Repubblica e invece è rimasto solo il David. Peccato che in questi anni l’arte sia in declino, i musei espongono gli artisti più quotati, le opere sono un investimento. Aveva ragione Marx quando vaticinava l’alienazione del consumatore dal prodotto».
Rimpiange quando era peggio?
«L’Ottobre 1917 apre un periodo molto crudele: ma quale non lo è stato nella storia russa? Quel regime crudele ha anche prodotto risultati straordinari, ha sollevato un popolo analfabeta all’85%, ha macinato economia, ha piegato la Germania. Tutti i russi, tranne i dissidenti e le vittime dei campi, ammettono che l’Urss era stabile, sicura, il cibo costava poco. Non giudico, è così. Per i russi non conta la libertà di un blog: ignorano la democrazia o la borghesia, non sono fatti per il capitalismo, hanno sempre delegato il potere al leader forte, lo zar, Stalin, Putin».
Dopo le avanguardie, cosa è successo tra intellettuali e Soviet?
«La specificità russa non è l’avanguardia ma l’intelligencija. Dovunque ci sono gli intellettuali, a volte critici del potere altre no. Da noi c’è l’intelligencija che, in quanto tale, si oppone. O sei contro o sei un traditore. Per me gli intellettuali sono Puškin, Tolstòj, Dostoevskij. Io, sebbene mio fratello mi consideri wishy-washy, sono un artista, sono libero da tutto ciò».
Però non cita mai la libertà...
«La libertà non serve all’arte! I grandi capolavori sono nati sotto le dittature. Cosa crea la libertà? C’è una scena di Sordi che, alla Biennale, spiega alla madre l’arte astratta: geniale».
La fine del cinema epico e il ricorso all’inquadratura soggettiva alla «Dunkirk» è legata alla crisi delle grandi ideologie del 900?
«Costa solo meno. Non ho visto Dunkirk ma non so associare epica e ideologia. Ce n’era dietro Ben Hur? Semplicemente andava il cinemascope. Il grande cinema non è morto, è diventato svago da teenagers con i popcorn. Se in una multisala si proiettano solo film d’azione americani, c’è libertà di scelta? Ma sono ottimista. Il video on demand apre nuove libertà».
Quando lasciò l’Urss immaginava l’implosione dopo 9 anni?
«No, volevo solo viaggiare. Non sono mai stato un dissidente politico, o meglio, tutti lo erano in cuor loro ma quasi nessuno lo diceva. Mi ero formato negli anni di Krusciov, l’Urss si apriva. Partii perché ero stufo di chiedere visti, cambiare i rubli. Poi, lavorandoci, ho capito che Hollywood non m’interessava».
I comunisti europei hanno capito il comunismo sovietico?
«Lo capivano ma economicamente dipendevano troppo da Mosca per dirlo. Poi una parte si allontanò. Io sono un marxista latente: Marx era un genio, il secondo dopo Cristo. Credo che l’Europa tornerà al comunismo, magari nella forma di una socialdemocrazia di sinistra: il neoliberismo è agli sgoccioli».
il manifesto 25.10.17
Ottobre 1917, lo Sturm und Drang del Novecento
1917-2017. Il 1917 è conseguenza del 1914. Senza la grande guerra non ci sarebbe stata la grande rivoluzione. E la cosa da ricordare è che la prima rivendicazione fu la pace
di Mario Tronti
Pubblichiamo il discorso pronunciato il 24 ottobre 2017 nell’aula del Senato da Mario Tronti per ricordare il centenario della Rivoluzione d’Ottobre.
Presidente, colleghe e colleghi, vi chiedo un momento di attenzione. In mezzo ai lavori convulsi di questi giorni, una pausa di riflessione può far bene.
Volevo ricordare un evento, di cui ricorre quest’anno il centenario. Il 24 di ottobre, secondo il calendario giuliano, o il 7 novembre, secondo il calendario gregoriano, del 1917, esplodeva nel mondo la rivoluzione in Russia. Mi sono interrogato sull’opportunità di proporre qui, nel Senato della Repubblica, il ricordo di questa data.
Sono consapevole che questo arrivi a turbare la sensibilità di alcuni, e di alcune, che legittimamente possono nutrire, nei confronti di quell’evento, una ostilità assoluta.
Ma siamo a cento anni da quella data e possiamo parlarne, come io intendo parlarne, con passione e nello stesso tempo con disincanto.
Non so se è verità o leggenda, quella volta che chiesero a Chou En-Lai, anni cinquanta del Novecento, che giudizio si sentisse di dare sulla rivoluzione francese del 1789. E la risposta fu: troppo presto per parlarne. Di quei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, secondo il reportage che ne fece il giornalista americano John Reed, ne trattano oggi molti giornali, molte riviste, molti libri. Del resto, per mettere un pizzico di ironia in avvenimenti che hanno dalla loro parte non poco di vicende tragiche, si potrebbe dire che anche questa, come facciamo spesso in quest’aula, è la commemorazione di un defunto.
Qui, a Palazzo Madama, come a Montecitorio, soprattutto nella prima Legislatura, seguita alla Costituente, presero posto alcuni protagonisti che avevano vissuto quella storia in prima persona. Questo mio ricordo vuole essere anche un omaggio a questi padri.
Il 1917 è conseguenza del 1914. Senza la grande guerra non ci sarebbe stata la grande rivoluzione.
E la cosa da ricordare subito è che la prima rivendicazione, che forse più di altre produsse il successo della rivoluzione, fu la rivendicazione della pace: la pace ad ogni costo, si disse, anche a costo di perdere la guerra.
Quando Lenin, contro tutti, firmò il trattato di Brest Litovsk, accettò tutte le più pesanti condizioni, pur di riportare a casa i soldati. Lenin era l’autore di quella che a mio parere è stata la più audace di tutte le parole d’ordine sovversive, quando disse: soldati operai e contadini russi non sparate sui soldati e contadini tedeschi, ma voltate i fucili e sparate sui generali zaristi.
C’era quella idea, che era stata per primo di Marx. dell’internazionalismo proletario, “proletari di tutti i paesi unitevi”: un’idea niente affatto di parte, che affonda invece le sue lunghe radici nell’umanesimo moderno.
Già nei moti rivoluzionari del 1905 i soldati si erano rifiutatati di sparare sulla folla, e avevano sparato sui loro ufficiali.
1905 e 1917 sono le due tappe della rivoluzione in Russia. La lucida strategia, che sarà dei bolscevichi contro i menscevichi, era che i comunisti dovevano mettersi alla testa della rivoluzione democratica per portarla alle sue naturali conseguenze, che stavano nella rivoluzione socialista.
Se democrazia è infatti il kratos in mano al demos, il potere in mano al popolo, quale strumento più democratico dei soviet, dei consigli degli operai e dei contadini?
Ma, attenzione, i soviet dovevano farsi Stato, dovevano assumere l’interesse generale. E il fatto che invece di farsi Stato si sono fatti partito, chissà che non sia stato questo il vero punto di catastrofe dell’intero progetto.
Ma comunque quella democrazia diretta non ha niente a che vedere con l’attuale democrazia immediata. Questa non solo non si fa istituzione, ma è anti-istituzionale e dunque antipolitica e allora è conservatrice, se non addirittura reazionaria.
La rivoluzione partì su tre parole d’ordine: la pace, il pane, la terra. Parole semplici, che toccarono il cuore dell’antico popolo russo.
Tre cose che erano state sottratte a quel popolo. La rivoluzione gliele restituì. Per questo “l’assalto al cielo”, che avevano già tentato invano gli eroici comunardi di Parigi, vinse a Pietroburgo con l’assalto al Palazzo d’Inverno.
Colleghi, conosco bene il seguito della storia. Una rivoluzione, che era nata dalla guerra, si trovò in guerra con il resto del mondo, accerchiata e combattuta. Non intendo, per questo, nascondere, tanto meno giustificare, le deviazioni, gli errori, la violenza, i veri e propri crimini commessi.
Qui, c’è il grande problema del perché la rivoluzione, cioè il progetto di trasformazione in grande del corso delle cose, sfocia storicamente nel terrore.
E il problema non riguarda solo i proletari. I borghesi non hanno agito diversamente nella loro presa del potere. La rivoluzione inglese di metà Seicento, la rivoluzione francese di fine Settecento, ambedue hanno fatto cadere nel capestro la testa del re. E la rivoluzione americana, per produrre la più stabile democrazia del mondo, è dovuta passare per una terribile guerra civile.
Rivoluzione e guerra, rivoluzione e terrore, sono dunque inseparabili? Dobbiamo dunque per questo rinunciare al tentativo di un rivolgimento totale? Occorre rassegnarsi alla pratica di cosiddette riforme graduali, che però mai riescono a minimamente mettere in discussione il rapporto, che poi è un rapporto di forza, tra il sotto e il sopra, tra il basso e l’alto della società?
Questo è il problema che ci pone ancora oggi, dopo un secolo, quell’ottobre del ’17.
Ecco perché vorrei, se possibile, isolare il valore liberatorio di quell’atto rivoluzionario dai fallimenti epocali e anche dalle costrizioni antilibertarie, che lo hanno seguito nella sua realizzazione.
Ricordo una data e condanno una sua negazione. Quell’atto trova la sua fondazione nel mirabile inizio di secolo. Il primo decennio del Novecento vede l’irrompere, anch’esso sovversivo, della trasvalutazione di tutte le forme: in campo artistico, con le avanguardie, arti figurative, poesia, narrativa, musica; in campo scientifico, con la fine della meccanica newtoniana e l’avanzare del principio di indeterminazione; nel pensiero filosofico con la messa in questione della ragione illuministica.
Come potevano le forme della politica, organizzazioni e istituzioni, non essere travolte da questo Sturm und Drang, da questo impeto e assalto? Come la grande Vienna è il cuore di questo sommovimento culturale, così Pietroburgo diventa il cuore di un sommovimento politico.
Il secolo ne sarà interamente segnato. L’anima e le forme è lo splendido titolo di un libro del giovane Lukács, che esce nel 1911. Era l’anima dell’Europa ed era, come dirà anni dopo Husserl, la crisi delle scienze europee, a ribaltare tutte le forme ottocentesche. Lo spirito anticipa sempre la storia.
La rivoluzione del ’17 in Russia sta in mezzo a questo totale fermento. Atto di liberazione, che metterà in moto masse enormi di popolo e provocherà scelte di vita di piccole e grandi personalità. Ad esso si richiamavano molti dei ribelli antifascisti, mentre subivano il carcere e l’esilio, molti dei combattenti nella guerra di Spagna contro i franchisti, molti dei partigiani che salirono in montagna contro i nazisti.
Se leggete le lettere dei condannati a morte della Resistenza, in Italia e in Europa, troverete spesso l’ultimo grido di saluto per quell’evento.
Mi rendo conto di parlarne con fin troppa partecipazione, e perfino enfasi Ma vedete, colleghi, io mi considero figlio di quella storia. E francamente vi dico che non sarei nemmeno qui se non fossi partito da lì. Qui, a fare politica per gli stessi fini con altri mezzi, senza ripetere nulla di quel tempo lontano, passato attraverso tante trasformazioni, rimanendo identico.
Vi assicuro, un esercizio addirittura spericolato, ma entusiasmante. Se entusiasmo può esserci ancora concesso in questi tristi tempi. Vi chiedo ancora scusa.
Repubblica 25.10.17
E nel ring di Palazzo Madama alla fine spunta anche Lenin
Il Pd Tronti ricorda al Senato i cento anni della rivoluzione russa
Senatore Pd. Il filosofo Mario Tronti, 86 anni, senatore del Pd, negli anni Sessanta è stato uno dei padri dell’operaismo
di Concetto Vecchio
ROMA. Nel fuoco del dibattito sulla legge elettorale, mentre il Senato è un coacervo di umori, dai banchi del Partito democratico un senatore dai capelli bianchi chiede al presidente Grasso di poter prendere la parola: Mario Tronti. «Vi chiedo un momento di attenzione. In mezzo ai lavori convulsi di questi giorni, una pausa di riflessione può fare bene», premette con voce educata.
Cosa ha da dire il vecchio filosofo, teorico di un filone di pensiero - l’operaismo - che oggi non dice quasi più nulla a chi occupa gli scranni di quest’aula? Vuol parlare di Lenin. «Il 24 ottobre 1917, secondo il calendario giuliano, esplodeva nel mondo la rivoluzione in Russia», dice. «Sono consapevole che questo arrivi a turbare la sensibilità di alcuni, e di alcune, che legittimamente possono nutrire, nei confronti di quell’evento una ostilità assoluta. Ma siamo a cento anni da quella data, e possiamo parlarne, come io intendo parlarne, con passione e allo stesso tempo con disincanto. Qui a palazzo Madama, soprattutto nella prima legislatura, presero posto alcuni protagonisti che avevano vissuto quella storia in prima persona: questo mio ricordo vuole essere anche un omaggio a questi padri».
Ha 86 anni. Nel 1963 si allontanò dal Pci per fondare Classe operaia: all’epoca, nei partiti di massa, si divorziava per le idee. «Senza la Grande guerra non ci sarebbe stata la grande rivoluzione », spiega. E cita il trattato di Brest Litovsk, evoca il Lenin dei «soldati operai e contadini russi non sparate sui soldati e contadini tedeschi, ma voltate i fucili e sparate sui generali zaristi». E mentre tutti si accapigliano sulla fiducia al Rosatellum Tronti sale in cattedra: «Se la democrazia è infatti il
kratos in mano al demos, il potere in mano al popolo, quale strumento più democratico dei soviet, dei consigli degli operai e dei contadini? Ma attenzione i soviet dovevano farsi Stato, dovevano assumere l’interesse generale. Il fatto che invece di farsi Stato si sono fatti partito, chissà che non sia stato questo il vero punto di catastrofe dell’intero progetto».
Dice ancora qualcosa ai più il comunismo? Tronti rammenta che ogni rivoluzione sfocia «storicamente nel terrore, non solo le rivoluzioni proletarie, anche quelle borghesi, la rivoluzione americana, per produrre la più stabile democrazia del mondo, è dovuta passare per una terribile guerra civile». Quindi: «Rivoluzione e guerra, rivoluzione e terrore sono dunque inseparabili? Dobbiamo per questo rinunciare al tentativo di una rivolgimento totale. Occorre rassegnarsi alla pratica di cosiddette riforme graduali, che però non riescono a minimamente mettere in discussione il rapporto, che poi è un rapporto di forza, tra il sotto e il sopra, tra il basso e l’alto della società? Questo è il problema che ci pone ancora oggi quell’ottobre del ‘17».
Che effetto fa ai senatori che compulsano i loro smartphone sentire Tronti che cita un libro del «giovane Lukacs?» Alla fine il vecchio professore ha come un soprassalto di pudore. «Mi rendo conto di parlarne con fin troppa partecipazione. Ma vedete, io mi considero figlio di quella storia. E francamente vi dico che non sarei nemmeno qui se non fossi partito da lì. Qui a fare politica per gli stessi fini con altri mezzi, senza ripetere nulla di quel tempo lontano, passato attraverso tante trasformazioni, rimanendo identico. Vi assicuro, un esercizio addirittura spericolato, ma entusiasmante. Se entusiasmo può esserci ancora concesso in questi tempi tristi». Quindi conclude così: «Vi chiedo scusa».
Repubblica 25.10.17
La rabbia di Asa Regnér “Quel politico mi molestò sfruttando il suo potere”
Parla la ministra svedese che ha denunciato gli abusi subiti anni fa ai margini di un summit europeo
di Andrea Tarquini
«PER ANNI ho taciuto, sentendomi in colpa, adesso con #metoo mi sono data coraggio. Dobbiamo muoverci a livello europeo». Il giorno dopo aver denunciato un abuso subito anni fa a margine di un consulto Ue da parte di un politico europeo di alto rango, Asa Regnér, ministra delle Pari opportunità svedese, racconta a Repubblica la sua drammatica esperienza, mentre il l’Europarlamento si prepara ad affrontare tra poche ore il problema.
Come e perché ha deciso di rompere il silenzio?
«La cosa più grande e incoraggiante, per tante donne e anche per me, è questa campagna su Internet. Se tante donne si decidono a discutere in pubblico del problema è importante e positivo. Anche per quanto accade magari ogni giorno in tanti posti di lavoro. Il comportamento predatore è una questione di potere. Dipende dal fatto che gli uomini hanno più potere e lo usano per mantenere le donne sottomesse. Pensano di poter approfittare di loro usandole a piacimento. Io allora ero una giovane politica piena d’entusiasmo, avevo studiato cinque lingue e conseguito due dottorati. Accettai l’invito di quel politico quella sera perché mi convinse dicendo di voler discutere le mie opinioni. Invece...».
Invece?
«Invece ingannò la mia ingenuità. E all’improvviso nel buio del locale fu orribilmente chiaro che cercava ben altro. Per me fu uno shock. Altro che scambio di opinioni, cercava di imporre il suo potere sul piano sessuale».
Accade anche a livelli così alti, da uomini qualificati e colti, leader europei di rango?
«Penso sia questione di strutture di potere. Certi istinti sono mossi dal potere, come nelle aziende, nello sport o a Hollywood. Con #metoo rompono il silenzio donne di ogni ceto sociale. In società dove gli uomini hanno più potere e le donne sono viste come esseri umani sessualizzati nel senso negativo è estremamente importante parlare e introdurre leggi dalla parte delle donne, e le leadership europee e i media devono sentirsi responsabili davanti all’imperativo etico della gender equality, forse occorre rieducazione».
Perché ha taciuto tanto a lungo?
«Reagii come molte donne in casi simili. Detti la colpa a me stessa, mi dissi “perché mai ho pensato che voleva davvero ascoltare le mie opinioni?”. Quando subisci un abuso del genere ti senti molto sola. E nella posizione del debole. Quell’uomo, non voglio nominarlo, che si aprofittò così di me era in posizione altissima nella Ue, era molto più anziano di me, aveva ben altra esperienza politica. Simili situazioni ti gettano in una condizione di dipendenza. È molto brutto ma è così, ti incolpi da sola. La svolta grande è che ora noi donne non ci vergognamo più di parlare. Dobbiamo cambiare la struttura di potere».
Lei ha proposto leggi più severe contro ogni atto sessuale senza chiaro consenso. Può spiegarci l’idea?
«Primo di tutto è importante dire che molti casi subíti da donne anche sul posto di lavoro non sono considerati reati penali, neanche qui da noi. Questo va cambiato. È un paradosso: in molti Paesi ci sono legislazioni contro le molestie sessuali, anche severe, ma accadono atti criminali, roba da diritto penale. Nella legislazione vogliamo introdurre un chiaro concetto di atto sessuale legittimo solo se è chiaramente volontario. Attualmente non è abbastanza chiaro».
Il Parlamento europeo ne parlerà tra poche ore. Cosa si aspetta?
«Penso che a livello europeo sia importnate non tanto una legislazione comune, ma una strategia comune sulla gender equality. L’attuale Commissione non se ne cura. Io organizzerò il 7 e 8 novembre un consulto Ue sulla gender equality».
Non parlare non è stato doloroso quanto o più dell’aggressione?
«Penso che per me e altre donne vittime sia importante non sentirsi sole e capire che il responsabile è l’uomo. Spero che tutte abbiano il coraggio di rompere il silenzio. Dopo una simile aggressione ti senti terribilmente sola. Non faccio nomi perché non conta mettere qualcuno all’indice, ma educare alla giustizia».
Corriere 25.10.17
Anteprima La prefazione del nuovo saggio della filosofa Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri) sui temi dell’accoglienza e della giustizia globale
Emigrare è un atto politico
L’ospitalità e il rispetto dei diritti umani impongono di ridiscutere la centralità dello Stato
di Donatella Di Cesare
Il mondo attuale è suddiviso in una molteplicità di Stati che si fronteggiano e si fiancheggiano. Per i figli della nazione, che sin dalla nascita hanno condiviso l’ottica statocentrica, ancora ben salda e dominante, lo Stato appare un’entità naturale, quasi eterna. La migrazione è allora devianza da arginare, anomalia da abolire. Dal margine esterno il migrante rammenta allo Stato il suo divenire storico, ne scredita la purezza mitica. Ecco perché riflettere sulla migrazione vuol dire anche ripensare lo Stato.
Una «filosofia della migrazione» viene qui delineata per la prima volta. Neppure la filosofia ha riconosciuto sinora al migrante diritto di cittadinanza. Solo di recente lo ha ammesso al proprio interno, ma per tenerlo sotto stretta sorveglianza, pronta a respingerlo con il primo foglio di via.
Nel primo capitolo di questo libro ( Stranieri residenti , Bollati Boringhieri) è stato ricostruito il dibattito, molto acceso nel contesto angloamericano e in quello tedesco, tra i partigiani dei confini chiusi e i promotori degli open borders . Si tratta di due posizioni che rientrano nel liberalismo e, anzi, ne rivelano l’ impasse : l’una sostiene l’autodeterminazione sovrana, l’altra rivendica un’astratta libertà di movimento. Da entrambe si prende distanza. Non si vuole contemplare il naufragio dalla riva.
Una filosofia che muove dalla migrazione, che dell’accoglienza fa il suo tema inaugurale, lascia che il migrare, sottratto all’ arché , al principio che fonda la sovranità, sia punto d’avvio, e che il migrante sia protagonista di un nuovo scenario anarchico. Il punto di vista del migrante non potrà non avere effetti sulla politica come sulla filosofia, non potrà non movimentare entrambe.
Migrare non è un dato biologico, bensì un atto esistenziale e politico, il cui diritto deve essere ancora riconosciuto. Questo libro vorrebbe essere un contributo alla richiesta di uno ius migrandi in un’età in cui il tracollo dei diritti umani è tale, che appare lecito chiedersi se non sia stata suggellata la fine dell’ospitalità.
Nei libri di storia, che non asseconderanno la narrazione egemonica, si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre, persecuzioni, soprusi, desolazione, fame. Anzi l’ospite potenziale è stato stigmatizzato a priori come nemico. Ma chi era al riparo, protetto dalle frontiere statali, di quelle morti, e di quelle vite, porterà il peso e la responsabilità.
Oltre alla terra, uno spazio importante ha in queste pagine il mare, frammezzo che unisce e separa, passaggio che si sottrae ai confini, cancella ogni traccia d’appropriazione, serba memoria di un’altra clandestinità, quella di opposizioni, resistenze, lotte. Non la clandestinità di uno stigma, bensì di una scelta. La rotta del mare indica il risvolto dell’ordine, la sfida dell’altrove e dell’altro.
Troppo a lungo la filosofia si è crogiolata nell’uso edificante della parola «altro», avallando l’idea di un’ospitalità intesa come istanza assoluta e impossibile, sottratta alla politica, relegata alla carità religiosa o all’impegno etico. Ciò ha avuto effetti esiziali. Anacronistico e fuori luogo, il gesto dell’ospitalità, compiuto dagli «umanitari», quelle anime belle che credono ancora nella giustizia, è stato spesso bersaglio di scherno e denuncia. Anzitutto da parte della politica che crede di dover governare obbedendo allo sciovinismo del benessere e al cinismo securitario.
In questo libro il migrante entra nelle porte della Città come straniero residente. Per capire quale ruolo possa svolgere in una politica dell’ospitalità si è percorso un cammino a ritroso, che non segue però un ritmo cronologico. Le tappe sono Atene, Roma, Gerusalemme. Tre tipi di città, tre tipi di cittadinanza ancora validi. Dall’autoctonia ateniese, che spiega molti miti politici di oggi, si distingue la cittadinanza aperta di Roma. L’estraneità regna invece sovrana nella Città biblica, dove cardine della comunità è il gher , lo straniero residente. Letteralmente gher significa «colui che abita». Ciò contravviene alla logica di saldi steccati che assegnano l’abitare all’autoctono, al cittadino.
Il cortocircuito contenuto nella semantica di gher , che collega lo straniero all’abitare, modifica entrambi. Abitare non vuol dire stabilirsi, installarsi, stanziarsi, fare corpo con la terra. Di qui le questioni che riguardano il significato di «abitare» e di «migrare» nell’attuale costellazione dell’esilio planetario. Senza recriminare lo sradicamento, ma senza neppure celebrare l’erranza, si prospetta la possibilità di un ritorno. A indicare la via è lo straniero residente che abita nel solco della separazione dalla terra, riconosciuta inappropriabile, e nel vincolo al cittadino che, a sua volta, scopre di essere straniero residente. Nella Città degli stranieri la cittadinanza coincide con l’ospitalità.
Nell’epoca postnazista è rimasta salda l’idea che sia legittimo decidere con chi coabitare. «Ognuno a casa propria!» La xenofobia populista trova qui il suo punto di forza, il criptorazzismo il suo trampolino. Spesso si ignora, però, che questo è un lascito diretto dell’hitlerismo, primo progetto di rimodellamento biopolitico del pianeta che si proponeva di stabile i criteri della coabitazione. Il gesto discriminatorio rivendica per sé il luogo in modo esclusivo. Chi lo compie si erge a soggetto sovrano che, fantasticando una supposta identità di sé con quel luogo, reclama diritti di proprietà. Come se l’altro, che proprio in quel luogo l’ha già sempre preceduto, non avesse alcun diritto, non fosse, anzi, neppure esistito.
Riconoscere la precedenza dell’altro nel luogo in cui è dato abitare vuol dire aprirsi non solo a un’etica della prossimità, ma anche a una politica della coabitazione. Il con - implicato nel coabitare va inteso nel suo senso più ampio e profondo che, oltre a partecipazione, indica anche simultaneità. Non si tratta di un rigido stare l’uno accanto all’altro. In un mondo attraversato dal concorrere di tanti esili coabitare significa condividere la prossimità spaziale in una convergenza temporale dove il passato di ciascuno possa articolarsi nel presente comune in vista di un comune futuro.
La Stampa TuttoScienze 25.10.17
Il Nobel Capecchi
DNA Samo pronti a stupire anche la natura
“Sarà la genetica a salvare 10 miliardi di esseri umani”
intervista di Mario Cambiaghi
«Usare la terapia genica in un adulto, come un farmaco, diventerà una cosa normale». È sicuro quando pronuncia queste parole Mario Capecchi. Dopotutto, lui è uno dei padri dell’ingegneria genetica.
Italiano di nascita, con un passato difficile che lo porterà giovanissimo in America: «Mi aspettavo di trovare pavimenti d’oro. Non c’erano, ma ho trovato qualcosa di più importante: le opportunità». Quelle opportunità gli hanno permesso di vincere il Premio Nobel per la medicina nel 2007 «per le sue scoperte dei principi con cui introdurre specifiche modificazioni nei geni del topo tramite cellule staminali embrionali». Grazie a queste tecniche di «gene targeting», sviluppate dagli Anni 80, oggi è possibile capire le specifiche funzioni di un gene all’interno di organismi complessi e la generazione di molti modelli preclinici di patologie.
Capecchi, che ha da poco compiuto 80 anni, è professore di genetica e biologia alla University of Utah, a Salt Lake City, ed è intervenuto al festival BergamoScienza per una conferenza dal titolo evocativo: «Riscrivere le istruzioni della natura».
Professore, perché dobbiamo spingerci a riscrivere le istruzioni delle natura?
«Ci stiamo occupando di problemi che rappresentano il nostro futuro più prossimo. Oggi sulla Terra siamo oltre 7 miliardi di individui e le stime dicono che nel 2050 saremo quasi 10 miliardi. I consumi di cui siamo responsabili non si possono basare sulle tecnologie del passato. Le nuove tecnologie, invece, ci permetteranno interventi più mirati».
Può fare un esempio concreto?
«La più interessante, oggi, è Crispr/Cas9: si tratta di “forbici molecolari” che hanno reso più economico e immediato il “gene targeting”. Le applicazioni sono molteplici, visto che nella stessa cellula si potranno fare varie modificazioni. Penso alla resistenza alle malattie negli animali o nelle piante».
Qual è l’obiettivo delle ricerche in corso nel suo laboratorio?
«Abbiamo tre linee su cui lavoriamo. Una è lo sviluppo di nuove tecnologie per interrogare i geni, un’altra è mirata a capire la funzione genica nei tumori nei bambini e la terza sono i disturbi neuropsichiatrici con lo sviluppo di modelli murini di malattie come la schizofrenia e il disturbo ossessivo compulsivo».
Usate il topo come modello?
«Sì, è il più facile ed economico da usare, ma cerchiamo di aumentare il numero di specie su cui lavorare».
Fino ad arrivare all’uomo?
«Sì, ma è un argomento che va discusso bene, per le molte implicazioni etiche che comporta. Dobbiamo essere trasparenti: ogni cosa in biologia è una questione etica».
La Stampa TuttoScienze 25.10.17
La star Charpentier
“Guariremo con il taglia&cuci del Genoma”
intervista di Marta Paterlini
Emmanuelle Charpentier, 48 anni, è una delle protagoniste del rivoluzionario strumento di modificazione genetica Crispr/Cas9: aggiunge o elimina uno o più geni in qualsiasi tipo di cellula, aprendo la strada a un numero apparentemente infinito di applicazioni. La tecnologia funziona come un paio di forbici molecolari, che tagliano con precisione il codice genetico, lettera per lettera, grazie all’enzima programmabile Cas9.
Professoressa, lei è ora direttore del Max Planck Institute for Infection Biology a Berlino: qual è l’applicazione più interessante di Crispr-Cas9?
«La mia speranza è che in futuro questa tecnologia sia usata per curare le malattie genetiche. La ragione è che, a mio parere, le strategie di terapia genica hanno ormai raggiunto un punto morto. È stato necessario individuare un nuovo strumento che consentisse di progredire».
Che cosa rende il sistema Crispr/Cas9 così attraente per gli ingegneri del Dna?
«È semplice, ma sofisticato. È facile da programmare per prendere di mira un gene limitandosi a utilizzare una molecola di Rna che corrisponda al gene d’interesse. E queste molecole sono anche poco costose da progettare. Nel sistema immunitario di alcuni organismi unicellulari, poi, l’enzima Cas9 era già conosciuto come uno strumento di modifica della sequenza del Dna: agisce tagliandola e bloccandone la replicazione. Adesso questo sistema può essere usato per “ingegnerizzare” anche il genoma di organismi superiori, per esempio mediante l’etichettatura di sequenze specifiche del Dna stesso, in modo da controllare e quindi studiare l’espressione e la funzione di geni specifici. C’è chi ha paragonato la versatilità di Crispr/Cas9 a un coltellino svizzero, ma è più simile a un’intera cassetta degli attrezzi imballata in una singola molecola».
Di che cosa si occupa ora?
«Crispr/Cas9 è una delle aree di ricerca del mio dipartimento. Ma studiamo altri aspetti della biologia e della virulenza dei patogeni umani. In particolare indaghiamo i meccanismi molecolari alla base dell’interazione dei patogeni gram-positivi con i loro ospiti, impiegando il patogeno umano Streptococcus pyogenes: l’obiettivo è sviluppare nuove strategie per combattere le infezioni e la resistenza agli antibiotici».
Ci sono preoccupazioni sul possibile utilizzo per alterare il genoma di un oocita fecondato: si potrebbero modificare anche le cellule germinali umane. Lei che cosa risponde?
«In Europa esistono norme rigorose sulla modificazione genetica delle cellule germinali umane: sono precisate in parte nel trattato di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina. Penso che l’uso di qualsiasi strumento per modificare geneticamente la riproduzione umana dovrebbe essere attentamente valutato e regolato».
Repubblica 25.10.17
Basta indugi sul biotestamento
risponde Corrado Augias
CARO Augias, sacrosanta la battaglia di Repubblica perché la legislatura approvi leggi fondamentali, prima della chiusura e di fronte all’incertezza sull’esito elettorale. Alcune leggi — come quella sulla tortura — sono state approvate; poi l’attenzione si è concentrata sullo Ius soli. Giusto, ma questo ha messo in ombra un’altra legge importantissima, quella sul biotestamento. Solo di recente, l’appello di quattro senatori a vita e di numerosi sindaci ha riacceso i riflettori. Mentre la legge sullo Ius soli è in calo nel consenso popolare, quella sul testamento biologico è condivisa da oltre l’80% degli italiani. La drammatica fine di Loris Bertocco l’ha resa ancora più urgente. La legge non riguarda l’eutanasia, si limita a ribadire che ognuno ha diritto a rifiutare le cure, incluse respirazione e alimentazione artificiali; importante anche la possibilità di depositare le proprie volontà in caso di incoscienza futura e nominare un rappresentante di fiducia. Visto che i 5Stelle (inaffidabili) questa volta sembrano d’accordo, perché non tentare il voto come segnale di buona volontà?
Giovanni Frigerio — Milano
SI TRATTA di due proposte di legge importanti e positive. Lo Ius soli incontra però, in questa fase, notevole impopolarità anche se per ragioni sbagliate sulle quali si specula politicamente. L’altra, come scrive il signor Frigerio, è invece considerata con favore da una vasta maggioranza. Allora perché non metterla subito in discussione? In realtà le nostre domande, quella del gentile corrispondente e la mia, sono ingenue. Sappiamo benissimo perché questo accade. Le dichiarazioni anticipate di volontà — per usare il titolo tecnico — sono malviste dall’ala meno avanzata del fronte cattolico. La proposta è bloccata da 3mila emendamenti per la maggior parte «ostruttivi» come ha detto la presidente della Commissione sanità del Senato Emilia Grazia De Biasi. Una ragione è che alcuni temono che possa essere un grimaldello per introdurre surrettiziamente il diritto all’eutanasia; la seconda è la riluttanza generale che una parte (minoritaria) del Paese prova nel metter mano su materie che si ritengono di competenza divina. Domani parteciperò a Milano a un convegno su questo tema (Società umanitaria, ore 18.00) insieme a Marco Cappato e altri autorevoli relatori. La cosa riveste un particolare interesse. Cappato, esponente radicale, è accusato d’aver accompagnato in Svizzera Fabiano Antoniani (dj Fabo) che voleva metter fine alla sua penosissima esistenza di invalido totale. La Procura in un primo momento aveva disposto l’archiviazione. Il gip di Milano invece lo ha rinviato a giudizio imputandogli di aver rafforzato l’intenzione di Fabo al suicidio. L’8 novembre si terrà l’udienza (Corte d’Assise) che andrà seguita con attenzione scontrandosi due principi: il codice penale del 1930 che punisce (in questo caso da 5 a 12 anni di reclusione) chiunque agevoli il suicidio; dall’altra il principio costituzionale che prevede l’autodeterminazione degli individui. Questo processo potrebbe perfino diventare un’occasione utile per far intervenire la magistratura — o addirittura la Consulta — dove il Parlamento si dimostra, ancora una volta, incapace di deliberare.