Il Fatto 24.10.17
È povertà umana di minoranze in cerca di visibilità
di Stefano Disegni
In
una famosa scena di Ricomincio da tre a Troisi chiedevano “Napoletano?
Emigrato?” (ancora non c’erano sbarchi a Lampedusa, i poveracci
sbarcavano a Torino). Lui rispondeva “No. Ma perché se uno è napoletano
deve essere per forza un emigrante?” Così m’è capitato di sentirmi dire
“Laziale? Fascista?”. Io sono laziale per tanti motivi, ma fascista
proprio no. Sono laziale per questioni cromatiche: a primavera mi fermo
sul Lungotevere a godermi il celeste inimitabile del cielo di Roma
punteggiato di nuvolette bianche, rosso con le nuvole gialle sarebbe un
incubo che neanche sotto LSD. Sono laziale perché in classe c’erano
ventidue romanisti e dieci laziali e per me è stato istintivo schierarmi
con la minoranza oppressa, mi parve peraltro scelta meno banale. E sono
laziale perché mio padre e i suoi fratelli che da soli tifavano più di
tre curve m’hanno fatto respirare ossigeno biancoceleste da quando sono
nato. Ma non sono fascista. Anzi. Come me tanti, la maggioranza, fatta
di gente di tutte le opinioni compresa nessuna opinione, che non si
sognerebbe mai di fare una schifezza come il penoso adesivo con Anna
Frank in giallorosso. Perché il problema non è il colore delle maglie
sennò dovremmo dire che tutti i veronesi sono nazisti (vedi certi
festeggiamenti) e poi gli interisti e poi gli juventini e poi e poi. No.
Il problema è nella desolante povertà umana di minoranze in cerca di
visibilità, che di quelle maglie e di quei colori umiliano storia e
rispettabilità con penose esibizioni muscolari che nulla hanno a che
vedere col tifo e col calcio, bellissimo gioco e non certo campo di
battaglia. Ignorarli è la strategia migliore, infatti chiudo qua, ne ho
scritto pure troppo.