Il Fatto 24.10.17
La luccicanza 37 anni dopo: un maestro, nessun allievo
Torna nelle sale con un corto che fa parlare anche le gemelle
di Federico Pontiggia
Sosteneva
Kubrick, “è molto facile fare un film, ma molto difficile fare un buon
film. E quasi un miracolo fare un grande film”. Stephen King non vi
riconobbe nulla, o quasi, del proprio romanzo. Ognuno di noi vi trovò
potente e non negoziabile il talento di Stanley Kubrick. Anzi, il
talento Kubrick: inventore di mondi, ri-definitore di generi, innovatore
di cinema. Dopo il noir (Rapina a mano armata, 1956), dopo la
fantascienza (2001: Odissea nello spazio, 1968), dopo il film storico
(Barry Lindon, 1975, ma già il rinnegato Spartacus, 1960), Kubrick fece
del fantastico qualcosa di mai visto e, ci perdoni King, mai scritto
prima: Shining modellizzava un’idea-mondo di cinema e, insieme,
un’idea-cinema di mondo.
Il plastico e il labirinto, la narrazione
messa in abisso e la scoperta tecnica, quella Steadicam creata ex novo
da Garrett Brown che s’avanza fluida e ineluttabile per i corridoi
dell’Overlook Hotel. Sono passati 37 anni, ma non abbiamo dimenticato
nulla, non potevamo: come tanti – tutti i suoi 13? – film di Kubrick,
Shining ha fatto scuola, senza peraltro fare allievi. Nessuno – né
Christopher Nolan, né Denis Villeneuve, né David Fincher, né chi vi pare
– ha superato il maestro, nessuno gli si è anche solo avvicinato: a 18
anni dalla morte (7 marzo 1999), Kubrick rimane inarrivabile, sinonimo,
di più, allografo stesso di Cinema. Caso strano, la tenzone Kubrick-King
non s’è esaurita, e sta per trovare nuova vigoria in sala: se It
frantuma anche da noi record su record con un incasso nel weekend
d’esordio di 6 milioni e 700 mila euro, Shining ritorna sul grande
schermo per soli tre giorni, dal 31 ottobre di Halloween al 2 novembre
dei Morti.
Ebbene, chi vincerà? Aspettando la risposta del
pubblico, ce n’è una da mandare agli annali di Storia del Cinema:
Kubrick, su King e il regista di It Andy Muschietti, per ko tecnico alla
prima ripresa. Non stupisce, e come potrebbe? Disse bene il grande
critico francese Michel Ciment alla Rivista del Cinematografo nel marzo
del 2009: “Kubrick mi fa pensare a un rabbino che studia il Talmud, o a
un alchimista del Medioevo che vuole trasformare il piombo in oro. C’era
in lui qualcosa che faceva pensare alla ricerca della pietra
filosofale. Alla ricerca dell’assoluto”. Un assoluto luccicante che al
buio in sala rinviene in combo con il corto Work and Play di Matt Wells:
sette minuti di materiali inediti, provenienti dagli archivi personali
del regista newyorchese e illustri talking heads. Ad aprire le danze sul
filo della memoria sono le gemelline Grady, al secolo Lisa e Louise
Burns, e qualcosa non è cambiato: simbiotiche ma dialettiche, si
sovrappongono, si mangiano le parole a vicenda, si specchiano uguali e
contrarie. E ricordano, sì, ricordano il profluvio di sangue e il loro
essere fanciulline e quasi ignare, i vestitini buffi, la follia di Jack
Nicholson e il freddo là fuori. Soprattutto, rammentano che sul set la
paura si tagliava col coltello. Pardon, con l’accetta. Passano gli
appunti di Kubrick, scorrono “redrum” e “murder”, sovvengono le
indicazioni, le rettifiche e gli accorgimenti sulla strada del
capolavoro, ricompaiono gli uomini e le donne che accompagnarono il
genio: Garrett Brown e la co-sceneggiatrice Diane Johnson, la figlia
Katharina e il cognato e produttore Jan Harlan.
Sono questi ultimi
a sfatarne il mito negativo, a ripulire Stanley dalle incrostazioni del
sentito dire: non era né recluso né musone, dice Katharina, ma “parlava
con il mondo al telefono”, “eravamo una famiglia di cinema, era il
padre migliore”. Insomma, Jack Torrance non abitava in Kubrick, e questo
titolo monco – Work and Play viene da “All work and no play make Jack a
dull boy”, nella versione italiana l’inopinato “Il mattino ha l’oro in
bocca” – gli rende giustizia: lavoro e gioco, cinema e famiglia. E,
ovvio, l’assoluto cui tendere: “Non gli interessava – precisa Harlan –
fare film tanto per fare, ne erano già stati fatti a iosa. Lui voleva
realizzare qualcosa che restasse, quel 5% dei film che rimane”.