domenica 22 ottobre 2017

Il Fatto 22.10.17
“Gentiloni spieghi in aula” M5S e Mpd contro Boschi
Imbarazzi - Le opposizioni chiederanno al premier di riferire al Parlamento sul ruolo della sottosegretaria nel testo contro la Banca d’Italia e sul suo conflitto di interessi
di Luca De Carolis

E ora a Gentiloni chiederanno spiegazioni, formali. Su quella mozione su Banca d’Italia che ha finito di spaccare il Pd, ufficialmente orfana, senza un autore preciso. Ma che di fatto è uscita da Palazzo Chigi, dov’è di stanza anche Maria Elena Boschi: l’unica del governo che sapeva di quel testo e che al premier non ne aveva fatto parola. Proprio lei, sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, nonché figlia di Pier Luigi, ex vicepresidente di Banca Etruria. Mentre i dem continuano a darsele sull’ennesimo strappo di Matteo Renzi, le opposizioni si muovono, cercando di sfruttare il varco.
E si parte dal M5S,tirato in ballo da giorni come la miccia della mozione dem: dipinta come necessaria proprio per scongiurare quella molto più incendiaria dei 5Stelle, dritta contro Visco e l’istituto di via Nazionale. Il deputato Alessio Villarosa, membro della commissione d’inchiesta sulle banche, sorride: “Renzi in questi anni ha sempre difeso l’operato di Bankitalia. Se adesso ha voluto questa mozione è solo perché Visco non sta bene alla Boschi, avendo sollevato a suo tempo critiche sulla gestione di Banca Etruria, e perché ha capito che i risparmiatori accusano la Vigilanza della Banca d’Italia per non aver evitato questi disastri”. Ecco, il testo: ma secondo voi, da dove arriva? “Sarebbe estremamente grave se Boschi avesse contribuito a scriverlo. E confermerebbe quanto è grande il conflitto d’interessi che rappresenta stando al governo. Per questo, presenteremo un’interpellanza per sapere da Gentiloni chi e come abbia scritto la mozione, e se davvero un membro del governo ci abbia messo mano. Nonché sul ruolo della sottosegretaria”.
Un tema che Villarosa vorrebbe approfondire nella commissione d’inchiesta. “Il problema – sostiene il deputato del M5S, che finora questa commissione è stata una farsa. Noi però vorremmo sentire urgentemente Federico Ghizzoni (l’ex amministratore delegato di Unicredit, ndr) e sapere se davvero il sottosegretario gli chiese di comprare Banca Etruria. È quella, la chiave. Ma ormai è evidente a tutti che Renzi e il Pd non vogliono che questa commissione lavori”. Obiezione: qui in gioco c’è anche l’autonomia dalla politica della Banca d’Italia. E anche i 5Stelle potevano minarla con la loro mozione, proprio come Renzi, considerato che la nomina spetta al Quirinale, su proposta del presidente del Consiglio. Ma Villarosa replica: “L’autonomia di Bankitalia è una barzelletta, dopo la riforma del 2013 che hanno fatto ‘loro’ di fatto è il presidente del Consiglio a indicare il nome. Noi del M5S abbiamo pronta una riforma, in base a cui a nominare il governatore dovrà essere il Parlamento riunito in seduta comune, con le stesse regole previste per la nomina dei giudici della Consulta”. Ma ora si discute di Visco, attaccato alla gola dalla mozione dem. “Un testo con cui Renzi voleva inseguire i 5Stelle sul terreno del populismo, come al solito sbagliando” scandisce Arturo Scotto, deputato di Articolo Uno – Mdp. Che annuncia: “In settimana presenterò un’interrogazione a Gentiloni , per chiedergli se il governo non ritenga che esista un conflitto d’interessi al suo interno. E anche per avere spiegazioni sul balletto insopportabile inscenato sulla mozione”.
Però il primo imputato per Scotto resta il segretario del Pd: “Quand’ero capogruppo di Sel chiedemmo una commissione d’inchiesta già il 23 dicembre 2015. Per insediarla ci è voluto un anno e mezzo. È il segno di quanto Renzi tema che dalla commissione possa emergere la verità”. Anche sul ruolo della Banca d’Italia, l’ennesima stazione del calvario dem.

Il Fatto 22.10.17
Etruria, con Visco un duello da 212 milioni
Risarcimento - Chiesto a papà Boschi e soci per non aver salvato la banca. Come? Dandola a Zonin
di Giorgio Meletti

Nel corpo a corpo tra il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e l’asse Renzi-Boschi c’è un elemento misterioso che fa riferimento proprio alla storia di Etruria. Lo si può leggere in controluce nell’atto di citazione del liquidatore Giuseppe Santoni contro 37 ex amministratori della banca aretina. Non è un caso che le notizie sull’azione di responsabilità, che coinvolge tra gli altri l’ex vicepresidente di Etruria Pier Luigi Boschi, pubblicate dal Corriere della Sera l’11 ottobre scorso, siano considerate il detonatore dello scontro.
Bisogna ripartire dall’incontro del marzo 2014 a casa Boschi, dove Maria Elena, ministra da pochi giorni, raccoglie il lamento di suo padre, allora consigliere di Etruria, e dei vertici della banca aretina e di Veneto Banca. Si dicono vessati dal capo della Vigilanza di Bankitalia, l’onnipotente Carmelo Barbagallo. E i rapporti tra il governo Renzi e Visco sono pessimi dall’inizio, quando Renzi gli chiede di dimezzarsi lo stipendio.
In quelle settimane Bankitalia preme sia su Etruria sia su Veneto Banca perché accettino di fondersi con la Popolare di Vicenza di Gianni Zonin. Tre mesi dopo, la trattativa tra Etruria e Vicenza si rompe. Zonin aveva offerto 1 euro per ogni azione quotata di Etruria, per un totale di 212 milioni, programmando la fusione entro un anno. Secondo l’avvocato Antonio Briguglio, che firma l’atto di citazione, c’è da parte del presidente di Etruria Lorenzo Rosi e degli altri consiglieri un “ingiustificato e misterioso abbandono dell’unica plausibile alternativa al dissesto”. Per questo chiede i danni, quantificati esattamente nei 212 milioni che Zonin offriva.
È un curioso modo di ragionare. Se Etruria avesse accettato l’offerta, i 212 milioni sarebbero andati ai 70 mila soci e non alla banca. Ma Briguglio considera i 212 milioni come valore della banca poi azzerato il 22 novembre 2015, un anno e mezzo dopo, dalla decisione di governo a Bankitalia di avviare per Etruria la risoluzione.
Il fatto è che in quell’anno e mezzo il cda prima e i commissari dopo l’azzeramento del cda stesso (febbraio 2015) hanno continuato a cercare soluzioni per salvare la banca, per esempio andando a chiedere aiuto al numero uno di Unicredit Federico Ghizzoni. Non si può fare la storia con i se e quindi non è dimostrabile che, dicendo no a Zonin, papà Boschi e soci avrebbero potuto anche trovare una soluzione migliore, magari con l’aiuto dell’amico Flavio Carboni o di altre simili eccellenze della finanza internazionale. In effetti non l’hanno trovata. Ma se avessero detto di sì a Zonin, il capitale di Etruria si sarebbe azzerato con quello di Vicenza nella primavera del 2016 e la banca di Arezzo avrebbe fatto la stessa fine della popolare vicentina a giugno 2017.
Nell’azione di responsabilità di Santoni e Briguglio i danni addebitati ai 37 amministratori di Etruria per finanziamenti irregolari, la tipica fattispecie delle banche locali sfasciate da oligarchie politico-affaristiche, sono inferiori ai 140 milioni. Tanti soldi, ma nello stesso tempo un po’ poco come causa del default della banca.
Il sospetto è che tra la Vigilanza di Bankitalia e Renzi-Boschi sia in corso una gara a chi ha più torto e a chi, di conseguenza, mena più forte. L’imbarazzo di Visco in questa storia è però più palpabile, anche perché alle incongruenze dello statista di Rignano siamo abituati, a quelle della Banca d’Italia un po’ meno. E per Visco ce n’è una grande come una casa. Lui e Barbagallo si sono vantati, per dimostrare quanto erano attenti alle spericolatezze vicentine, di aver “assunto provvedimenti restrittivi, bloccando, tra l’altro, le iniziative di espansione di Zonin”. Invece erano intenti a fare pressioni su Etruria perché si lasciasse comprare proprio da Zonin. Non solo: a cose fatte hanno sanzionato il cda di Etruria per aver rifiutato l’offerta di Zonin, e adesso autorizzano una lunare richiesta di danni per la stessa ragione: aver detto no a un’operazione che loro stessi si vantano di aver meritoriamente bloccato. Renzi-Boschi a parte, il caso Etruria è una seria minaccia per il dogma dell’infallibilità di Bankitalia.

Il Fatto 22.10.17
Il treno di Renzi, prova morente di un insuccesso
Propaganda - I video postati dal segretario sono la solita frittura: il suo unico pensiero è il potere
Il treno di Renzi, prova morente di un insuccesso
di Daniela Ranieri

È brutto ridere delle disgrazie altrui, ma come si fa a non sogghignare di fronte allo show di un tizio che si crede un trascinapopolo, affitta un treno per girare l’Italia, si fa fotografare a bordo mentre pensa, progetta, elabora piani per il futuro, e nelle stazioni, quando gli dice bene, viene ignorato, oppure, anche quando è assente, perché è tornato con l’auto blu a Roma a rilasciare interviste con cui impunturare la risibile impresa, viene insultato, e ciononostante continua imperterrito a glorificarsi sui social con immagini di un inesistente sé stesso assurto alla gloria?
L’agenzia di comunicazione a cui Renzi ha affidato la campagna di “Destinazione Italia”, il grottesco tour su treno speciale Trenitalia per 108 province (quelle che lui voleva abolire), deve aver ricevuto il seguente mandato: restituire l’immagine di un leader fresco, vincente, dinamico, che non ha governato l’Italia per tre anni, non ha perso tutte le elezioni possibili tranne quelle prima delle quali ha promesso 80 euro, è amato dalla gente perché si oppone al Sistema ma è anche contestualmente “l’argine contro i populisti” (questo insieme a B., che è tutto dire).
Come fossero amici nostri, non suoi, gli squali della finanza, i banchieri e i padroni delle ferriere, come non avesse lui usato soldi pubblici per distribuire bonus a categorie fantasiose (ma non a chi non ha niente), come se non fosse da sempre d’accordo con B., al quale avrà promesso la revisione della Severino e regalato una legge elettorale su misura, e i cui interessi ha sempre curato grazie al trojan nel governo rappresentato da Verdini.
Ecco allora nei primi tre video di “Destinazione Italia” un Renzi-non Renzi sotto Ovomaltina che corre su una pista di atletica; dà una testata a un pallone; visita la tomba di Aldo Moro; dà il cinque agli anziani; si fa un selfie coi millennials; bacia bambini; parla con le cuoche; si allaccia una scarpa; si selfa con Richetti nei luoghi di Leopardi, al quale, poveraccio, mancava solo questa.
La solita frittura per “uscire dal chiacchiericcio della politica romana”, a cui lui è notoriamente estraneo, come dice a una platea di quattro gatti facendo scintillare un orologione tipo quadro Tecnocasa che potrebbe essere pure il Rolex sgraffignato ai sauditi.
La parola chiave è “ascolto”: specie nei luoghi del terremoto, dove noi, non lui, avevamo promesso di ricostruire tutto. Venti milioni di No non sono bastati, da quell’orecchio lui non ci sente, del resto ama stare “in mezzo alla gente, tra le gente”, evidentemente due cose distinte, ma comunque “lontano dai Palazzi”, dove si è premurato di lasciare emissari che agiscono per conto suo. Così mentre su Bankitalia diceva la sua persino Luca Lotti, in qualità s’immagina di ministro dello Sport, lui su Instagram postava di “una giornata ricca di incontri, emozioni, chiacchiere” insieme a Bonifazi, ex fidanzato della Boschi e socio di un fratello Boschi ergo, per la sua neutralità, membro della Commissione che indaga sui tracolli delle banche tra le quali quella vicepresieduta da babbo Boschi.
Prudentemente lasciata a terra lei, la Evita Perón di Laterina, come si sa non molto amata nelle province specie toscane. Renzi la manovra dal treno o forse è lei a manovrare lui da terra facendosi i beati affari suoi nel Palazzo. Espunte dal montaggio le scene di Renzi a Polignano: “Signora come sta?”. Risposta: “Come a mammeta”. Grida di “buffone”, “maledetto”, “chi te l’ha pagato il treno?” anche a Vasto, dove dal treno non scende nessuno ed è Renzi.
Il treno del Pd è la prova morente che Renzi non ha idee se non tornare al potere. Nel suo mondo pubblicitario le immagini sono una resa semplificata della realtà, come nello spot del colesterolo: hanno il solo scopo di presentare il prodotto, scemi noi se ci crediamo.

Corriere 22.10.17
Camusso
«Non si può usare via Nazionale per regolare i conti nel partito»
La segretaria generale della Cgil: temo che tra noi prevarrà l’astensione alle Politiche
di Enrico Marro

ROMA Insieme coi segretari di Cisl e Uil, ha scritto una lettera al premier Gentiloni, chiedendo un incontro urgente. Perché? Ha avuto risposta?
«Ad oggi nessun cenno — risponde la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso —. L’incontro è importante perché con la manovra il governo ha creato un vulnus rispetto all’intesa col sindacato sulle pensioni. La manovra non affronta né i problemi della previdenza né quelli della sanità. Sarebbe un pessimo segnale dato al mondo del lavoro».
La Fiom già chiede lo sciopero generale. Lei che dice?
«Che bisogna fare la campagna di assemblee con i lavoratori decisa con Cisl e Uil. Poi prenderemo le necessarie risoluzioni. Certo non possiamo star fermi in attesa di un incontro che non arriva».
Sulle pensioni ci sono state già 8 salvaguardie per mandare in pensione anticipata 170mila lavoratori; l’Ape; gli interventi su precoci e usuranti. Ora volete pure il blocco dell’aumento dell’età pensionabile a 67 anni. Ma così non si smonta la riforma Fornero?
«Abbiamo sempre detto che volevamo cambiare la Fornero, perché ci deve essere un equilibrio tra la messa in sicurezza dei conti e la giustizia sociale. Gentiloni ci ha detto, sbagliando, che applicherà la legge sull’adeguamento dell’età alla speranza di vita. Ma un edile o un minatore non hanno la stessa aspettativa di vita di un magistrato. Sull’Ape poi stendo un velo pietoso».
44mila domande respinte, anche se è in corso una revisione per allargare la platea. L’ennesimo conflitto tra il sindacato e il presidente dell’Inps, Tito Boeri.
«Noi constatiamo la distanza tra la funzione che il presidente dell’Inps dovrebbe svolgere e l’ampio margine di manovra che invece si prende».
Volete un altro presidente?
«Chiediamo da lungo tempo che si ridefinisca la governance Inps, dove per la prima volta il Civ (consiglio di indirizzo e vigilanza, rappresentativo delle parti sociali, ndr.) ha bocciato il bilancio. Civ che, del resto, non viene preso in considerazione da un presidente che decide tutto. È un modello che non funziona».
Passiamo al lavoro. Il presidente della Bce, Mario Draghi, ha lodato il Jobs act, dicendo che ha creato mezzo milione di posti di lavoro.
«La metà di quelli che dice il Pd! Battute a parte, non li ha creati il Jobs act, ma la decontribuzione e a caro prezzo per il bilancio pubblico e con l’aggravante di un precariato in aumento, la maggioranza delle nuove assunzioni sono a termine e part time involontari».
Che ne pensa della mozione del Pd che di fatto ha sfiduciato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco?
«Che non si può usare Bankitalia per regolare i conti nel partito. Non c’è alcun capro espiatorio da cercare».
Ma non crede che la vigilanza, e dunque anche la banca centrale, sia stata carente nelle crisi bancarie?
«In Italia si è sottovalutato l’incrocio tra vigilanza europea e Bankitalia. E con il governo Monti si è scelto di dichiarare l’inesistenza di problemi sulle banche. Oggi abbiamo un drammatico ritardo sugli interventi da prendere. Se si pensa che servano regole diverse per la vigilanza si discuta di queste. Ma le istituzioni non si abbattono».
Referendum per la maggiore autonomia promosso da Lombardia e Veneto. Lei risiede a Milano. Che farà?
«Sono in partenza per qualche giorno per il congresso del sindacato americano. In ogni caso avrei votato no, perché si tratta di un gigantesco spreco, per guadagnare un consenso raccontando una cosa non vera, cioè che il risultato produrrà effetti. Sono contraria alla strategia del regionalismo differenziato. Siamo un Paese troppo piccolo per permetterci 20 staterelli».
Un giudizio sulla legge elettorale Rosato?
«Mi pare prefiguri un sistema pasticciato. Un legge più dettata dalle esigenza delle forze politiche che la sostengono che dalla volontà di garantire la più ampia partecipazione dei cittadini».
La sinistra può vincere le prossime elezioni? E a quali condizioni?
«Può farlo se si costruiranno proposte. Invece si discute tanto di persone e poco di contenuti. Bisognerebbe avere e mostrare un progetto, far capire che i governi non sono tutti uguali».
Auspica una sorta di nuovo Ulivo?
«Sì, è stata la punta più alta della nostra storia recente».
Giusto, quindi, il tentativo di Giuliano Pisapia, di un «campo largo» a sinistra?
«Sì, ma non si può costruire una sinistra che sia pronta a governi di larghe intese, altrimenti tutto si appanna».
Quale sarà il partito più votato dagli iscritti alla Cgil alle prossime elezioni?
«Temo “il partito dell’astensione”. C’è una questione che si chiama rappresentanza del lavoro che non trova risposta nei messaggi delle forze politiche».
Anche lei è tentata dall’astensione? Oppure voterà a sinistra del Pd?
«Ho una cultura, ed è il messaggio che ha sempre dato e darà la Cgil, secondo la quale non si rinuncia all’esercizio del diritto di voto, ma capisco la difficoltà di molti. Chi voterò? Valuterò le proposte in campo».
Nel 2018 scade il suo mandato alla guida della Cgil. Si candiderà alle politiche?
«No e poi no. Non so più in che lingua dirlo».

Repubblica 22.10.17
Scorciatoie populiste gli errori più gravi del leader
di Eugenio Scalfari

DOBBIAMO tornare sulla questione Renzi-Banca d’Italia non perché ci siano novità ma per esaminare le conseguenze e le varie interpretazioni. In favore di Renzi c’è un certo tipo di populismo: quei numerosi cittadini con patrimoni e redditi alquanto limitati, che — a torto o a ragione secondo i casi — maledicono le banche che per loro rappresentano gli interessi di un capitalismo ladro. È assai probabile che Renzi, conoscendo questo fenomeno che tutti conosciamo, abbia puntato su di loro per allargare la platea dei suoi ascoltatori e sperabilmente degli elettori per il Pd. Questa motivazione è tuttavia molto esile, rispetto alla mole dei contraccolpi che ha suscitato e susciterà.
Il primo è la contrarietà di una buona parte della classe dirigente del Pd, di quasi tutta la classe dirigente del Paese e della pubblica opinione.
Il secondo è un errore vero e proprio: gli italiani che se la prendono con le banche hanno di mira quelle operanti sul loro territorio, qualcuna grande e molte piccole e locali, ma non la Banca d’Italia della quale molti ignorano le funzioni. L’attacco di Renzi invece è stato soltanto nei confronti dell’Istituto di emissione e non alle banche e banchette che egli anzi difende. È curiosa questa dicotomia: lui spera di ottenere voti da chi odia le banche, ma parlando contro la Banca d’Italia dimentica che questa ha come compito di difendere le banche in difficoltà e di solito lo esplica.
IL terzo errore riguarda il suo rapporto con le personalità più autorevoli del Pd.
Nella celebrazione effettuata sabato della scorsa settimana al teatro Eliseo gremito nella platea e nelle tribune dalla parte migliore e più attiva del partito, Renzi ha riconosciuto la necessità che il partito non fosse chiuso ma aperto: un partito che aveva il compito di ringiovanire e ricostruire la sua struttura e la sinistra che è in crisi in tutti in Paesi d’Europa salvo finora in Italia. Prima di lui aveva parlato Walter Veltroni e poi Paolo Gentiloni. Veltroni in qualche modo aveva fatto la storia del partito, le origini, la sua cultura politica, e le sue caratteristiche strutturali. Quando Renzi ha preso per ultimo la parola ed ha concluso la celebrazione, ha riconosciuto a Gentiloni un’efficiente condotta del governo di cui il Pd ha la maggioranza, e a Veltroni addirittura una qualità di padre del partito e in qualche modo padre della patria. Sostenendo che queste persone facevano parte insieme a lui della dirigenza del Pd e che altre ancora ne avrebbe accolte accanto a sé per formare una vera e propria classe dirigente con la quale avrebbe discusso e concordato tutte le azioni importanti da svolgere. Insomma una sorta di super direzione con la quale il partito avrebbe avuto una guida collettiva, di cui naturalmente il segretario era il capo riconosciuto.
Sono passati pochi giorni da quella riunione ed è scoppiato il caso Banca d’Italia. Discuteremo a parte la sostanza di quel caso, ma voglio ora far notare ai lettori che del resto ne sono certamente al corrente, che Veltroni non è stato informato minimamente dell’attacco all’Istituto di emissione e nessuna delle personalità ne era stata informata a cominciare ovviamente da Romano Prodi. Nessuno sapeva nulla, neanche Gentiloni che ricevette però la mozione per sottoscriverla con l’accordo del governo.
Per fortuna del Paese a Gentiloni quella mozione non piacque affatto così come era stata redatta dal Renzi e dal suo “Cerchio magico”. Perciò mise al lavoro Anna Finocchiaro per modificarla non solo nella forma ma anche nella sostanza. Finocchiaro è molto brava in questo genere di questioni delicatissime e riuscì a modificarla in gran parte ma non totalmente. Tuttavia diventò accettabile per un governo come quello che abbiamo anche se però Renzi aveva già diffuso pubblicamente il testo originario. Quindi quello ufficiale contiene le correzioni notevoli di Finocchiaro ma quello del partito nella sua originaria integralità è comunque stato reso noto con tutti i mezzi di comunicazione. La reazione di Veltroni si compendia in due parole: «Documento incomprensibile e inaccettabile ». Oltre a lui e con analoghe motivazioni si è schierato il presidente del gruppo Pd al Senato Luigi Zanda e molte altre personalità del partito. Il sigillo a queste posizioni è la dichiarazione fatta da Giorgio Napolitano che in qualche modo rappresenta e sostiene in ogni occasione con le appropriate motivazioni il bene del Paese.
L’altro errore compiuto da Renzi con la sua mozione è il più complicato e il più devastante di tutti ed è la coincidenza della posizione renziana con quella di Grillo, di Salvini e di Meloni. Questi movimenti sono sostanzialmente populisti in una fase dove appunto populismo e antipopulismo sono i due grandi fronti che si combattono in tutta Europa. L’errore, di cui secondo me Renzi non si è minimamente reso conto, è per l’appunto una sorta di populismo ancora iniziale; se questo tipo di politica continuerà, diventerà la vera caratteristica d’un partito nato su tutte altre basi e tutt’altre finalità. Definisco populista l’attacco alla Banca d’Italia perché appunto Renzi cerca nuovi elettori in fasce sociali che praticano inconsapevolmente un populismo di notevole marca: attaccare le banche e le banchette in genere non è una posizione seria e motivata: è un modo di pensare che cerca il male dove non c’è o dove ci può essere ma non come categorie (banche e banchette) ma su singoli istituti di credito e in alcune specifiche occasioni.
Di tutto questo credo che Renzi non si sia reso conto e proprio per questo ha compiuto un ulteriore errore dal suo punto di vista: vuol ingraziarsi chi vede il proprio male economico nelle banche e attacca non quelle banche ma la Banca d’Italia accusandola di far del male al sistema mentre la funzione che la Banca d’Italia esercita e che in larga misura effettua è proprio quella di proteggere il sistema bancario. Si vedrà ora se Ignazio Visco, governatore dell’Istituto di emissione sia incline a ritirarsi dalla carica o viceversa desidera essere riconfermato per i prossimi sei anni.
Ho avuto occasione tre giorni fa di parlare telefonicamente col governatore e posso riferire che lui non pensa affatto di ritirarsi anche se, qualora le autorità competenti lo pregassero di dimettersi per dar luogo a un mutamento, lui certamente darebbe le dimissioni per comportarsi come richiesto. Ma se questo non avverrà (e sicuramente non avverrà) il governatore attenderà le decisioni del presidente della Repubblica, lieto se saranno una riconferma. Spiegherà poi tutte le sue azioni con opportune documentazioni quando sarà interrogato dalla commissione incaricata di approfondire il funzionamento del sistema bancario italiano.
***
Ho già scritto prima che in tutta Europa è in corso uno scontro tra democratici e populisti. Inizialmente i movimenti populisti europei erano di piccola taglia elettorale e rappresentavano appunto quei piccoli gruppi di elettori i quali detestano la democrazia, che secondo loro, è un regime che fa l’interesse di pochi e danneggia quello del popolo sovrano. Negli ultimi tempi però questi piccoli movimenti che spesso non arrivavano neppure ad oltrepassare la soglia di voti che bisogna avere per entrar nei vari Parlamenti, hanno avuto una crescita di rapidità impressionante e quantitativamente di notevole rilievo. In tutti i Paesi d’Europa a cominciare dalla Germania, dall’Olanda, dalla Spagna, dalla Grecia, dall’Italia. In Francia no, questa crescita non c’è stata. Non c’è stata neppure negli otto Paesi che non hanno la moneta comune. Essere fuori dall’Eurozona è già di per sé un motivo di populismo monetario che consente ad essi di non conformarsi alla politica europea ma di averne una propria che spesso è più aperta verso Mosca che verso Bruxelles.
Il fatto della massima importanza che da un paio di anni sta avvenendo in tutta Europa è la trasformazione profonda della politica. Fino a un paio d’anni fa la politica era alla ricerca di quali fossero i provvedimenti da adottare per conseguire il bene del popolo. Il bene in tutti i sensi: maggior benessere economico, sociale, culturale. E poi di rapporti possibilmente amichevoli con le altre nazioni e in particolare con quelle politicamente più importanti nel proprio continente e nel mondo intero specie in tempi di società globale.
Infine la politica doveva perseguire e tutelare i grandi valori della libertà e dell’eguaglianza, senza mai abbandonare la tutela di uno di quei due valori che in quel momento non aveva dalla sua la maggioranza del popolo, ma che non poteva e non doveva in nessun caso scomparire. Un paese che gode della massima libertà ma con notevole distacco dall’eguaglianza sociale deve tuttavia tutelarne quel valore e viceversa. Una libertà senza eguaglianza affida il bene comune ai gruppi più forti, specie economicamente, di quel Paese se invece è l’eguaglianza a trionfare e la libertà a scomparire siamo a un passo dalla dittatura come del resto è accaduto in Russia.
Quei due valori sono dunque fondamentali entrambi e per mantenerli come tali occorre realizzare il mandato che ci viene dal pensiero di Montesquieu: una struttura politica di poteri separati l’uno dall’altro anche se al vertice debbono condividere lo stesso obiettivo e cioè la realizzazione del bene sociale attraverso la separazione dei poteri: quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. Quei poteri separati debbono tuttavia perseguire il medesimo fine che è appunto il bene comune e questo è assicurato da un vertice che alla tutela di quel fine è dedicato. Di solito si tratta del presidente della Repubblica e di una Corte non giudiziaria ma costituzionale che giudica infatti la costituzionalità degli atti compiuti dai singoli poteri.
Per restaurare e rinnovare la democrazia occorre un partito che col populismo non abbia nulla a che vedere e che pensi alla politica che abbia una P maiuscola come usava Aristotele. Quella maiuscola significa appunto una politica che persegua il bene comune in tutti i suoi aspetti, che non sono soltanto quelli economici e sociali, ma si compendiano appunto nella libertà e nell’eguaglianza, entrambe tutelate da appositi organi istituzionali. Avevamo sperato che il Pd fosse lo strumento politico per la realizzazione o il mantenimento o la maggiore efficienza e comunque l’atmosfera politica del Paese e del continente cui apparteniamo e questo era infatti la finalità del Partito democratico quando è nato dieci anni fa. E non voglio dire che sia scomparsa questa finalità, ma dico che è in pericolo e che il Partito democratico oscilla molto da questo punto di vista. Purtroppo Renzi ha il carattere che ormai conosciamo. Speravo che l’avesse cambiato e ne ero felice. Vedo che non è avvenuto ed anzi ha rifatto un passo indietro dalla strada appena imboccata.
Ora deve scegliere tra ritorno all’idea del partito aperto e un organo di consultazione e di attuazione di quanto deciso, oppure populismo fino in fondo all’insegna del “comando io” e allora, come Grillo e Salvini, diventeremo il peggio del peggio.

Repubblica 22.10.17
La Sinistra e Bankitalia
Quel filo rosso mai spezzato prima
di Massimo Giannini

UN vero e proprio “divorzio”. Feroce, rancoroso, definitivo. Nelle dichiarazioni pubbliche Matteo Renzi mostra ora un’apparente moderazione: «L’eventuale riconferma di Visco non è una mia sconfitta, qualunque cosa decida Gentiloni a me va bene...». Ma nelle conversazioni private, il leader del Pd conferma la rottura totale con la Banca d’Italia. Due giorni fa, con chi gli faceva notare che il governatore sta preparando una controffensiva durissima contro di lui e Maria Elena Boschi, in vista dell’audizione in Commissione d’inchiesta, il leader del Pd non arretrava di un millimetro: «Si farà male lui, credetemi...». E a un amico che — rievocando i pasticci del Giglio Magico su Etruria e i ritardi del suo governo su “bail in” e Montepaschi — gli ricordava che “in politica chi tocca le banche muore”, rispondeva ancora più stizzito.
Parlava così, Renzi: «Antonveneta e Banca 121, non vi dicono niente? E Visco che voleva dare Etruria a Zonin ve lo siete dimenticato? A me non me ne frega nulla di morire: io sulle banche sono pulito. Per questo non sono ricattabile, per questo non schiero il Pd con i salotti buoni, ma a fianco dei risparmiatori... ».
Una posizione “di sinistra”, verrebbe da dire. Se non fosse che la sinistra italiana, storicamente, ha sempre guardato alla Banca d’Italia come un presidio istituzionale da difendere, piuttosto che un Palazzo d’Inverno da assediare. Renzi contesta anche questo, nelle sue sfuriate al Nazareno: “Tutti ipocriti, oggi, quelli che mi criticano da sinistra...”. Sullo smartphone, si dice, conserva un’agenzia del 29 agosto 2005, quando Romano Prodi capo della coalizione unionista tuonava contro il governatore di allora, travolto dagli scandali di Parmalat e dai baci in fronte con Fiorani: «Su Antonio Fazio il governo si assuma le sue responsabilità - scandiva allora il Professore - su questo l’Unione è unita: vogliamo un cambiamento di regole e anche un cambiamento nella gestione della Banca d’Italia...». E oggi, è il ragionamento renziano, «perché tutta questa indignazione per la mozione del Pd?».
Il segretario finge di non capire che in democrazia la forma è sostanza. E che un conto è contestare l’operato di un singolo governatore, un conto è mettere alla sbarra un’intera istituzione. È esattamente questo rischio che la sinistra, nei decenni passati, era sempre riuscita ad evitare. Fin dai tempi del Pci, per usare una formula gramsciana, Palazzo Koch non è mai stato una “casamatta del potere” da abbattere. I comunisti non hanno mai considerato la Banca d’Italia un “nemico di classe”. Gli attriti non mancavano: sulla legge istitutiva delle Partecipazioni Statali del ‘53, sulla nazionalizzazione dell’energia del ‘62 (quando Guido Carli cercava di convincere Riccardo Lombardi e Alfredo Reichlin a casa di Eugenio Scalfari), sulla fuga dei capitali del ‘69 (quando l’Unita’ scriveva «ancora una volta la Banca d’Italia lascia tutto lo spazio alle manovre della destra...»). Ma Enrico Berlinguer incontrava Guido Carli: una volta a Grottaferrata, nel 1970, discussero di politica monetaria guardando insieme una partita della Juventus.
Quando Baffi e Sarcinelli furono arrestati dai magistrati romani, “armati” dalla Dc andreottiana per coprire i traffici di Sindona, fu il Pci a schierarsi a difesa di Via Nazionale. Fu il Pci a tutelare la Banca dall’affondo di Craxi, che chiese la testa del governatore dopo la misteriosa operazione all’esto dell’Eni. Quando il segretario del Pci lanciò l’austerity e poi la “questione morale”, che rompeva con la stagione del consociativismo politico e del lassismo finanziario, la Banca d’Italia fu un interlocutore naturale di quella sinistra. A Botteghe Oscure personaggi come Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano non smisero mai di tessere la tela dei rapporti con via Nazionale. Carlo Azeglio Ciampi fu compagno di studi alla Normale di Pisa e amico personale di Alessandro Natta.
I “keynesiani” di Bankitalia allevati tra ufficio studi e direttorio, da Fabrizio Saccomanni a Tommaso Padoa- Schioppa e Pierluigi Ciocca, trovarono una sponda forte in quella piccola, preziosa enclave parlamentare riunita sotto le insegne della “Sinistra Indipendente”: Gustavo Minervini, Luigi Spaventa, Guido Rossi, Claudio Napoleoni, Stefano Rodota’, Filippo Cavazzuti, Vincenzo Visco. Non ci fu una sola battaglia a difesa dell’autonomia della Banca centrale che questo sparuto ma agguerrito drappello dell’elite non abbia combattuto.
Il filo diretto tra la sinistra e Via Nazionale non si è mai interrotto. Neanche negli anni più recenti. Nei primi anni ‘90 Achille Occhetto, appena “intronato” al Bottegone, va in visita a Palazzo Koch, da Ciampi. E nel ‘93, con lo stesso Ciampi presidente del Consiglio incaricato, gli manda Reichlin in missione segreta, per concordare l’ingresso del Pds nel governo. Ed è il Pds (insieme allo stesso Ciampi e a Scalfaro) a sventare la manovra berlusconiana per portare Lamberto Dini sul “soglio governatorio”. E sono i Ds ad arginare i primi attacchi di Tremonti, e poi a gettare acqua sul fuoco amico sparato nel luglio 2005 da Francesco Rutelli, che a Sergio Rizzo sul Corriere della Sera chiede praticamente “la cacciata di Fazio”. Gli risponde D’Alema due mesi dopo l’estate dei “furbetti del quartierino”, l’affare Bnl-Unipol, il famoso “abbiamo una banca” di Fassino: «Non si può sfiduciare il governatore in Parlamento, come chiede anche Enrico Letta - dice il Lider Maximo ad Alberto Statera su Repubblica - è una sgrammaticatura istituzionale... ». Sappiamo poi com’è andata a finire: Fazio travolto dallo scandalo e costretto a un’indecorosa uscita di scena. Renzi, chiedendo la “cacciata di Visco”, si fa paladino del popolo truffato dai banchieri. Non capisce che la politica, nelle crisi bancarie, non è meno colpevole della Banca d’Italia. Se da premier era così insoddisfatto degli organi di vigilanza, perché non ha convocato mai il Cicr, il Comitato per il credito e il risparmio? Per lucrare una manciata di voti, non si deve buttare via il bambino con l’acqua sporca. Per un modesto dividendo elettorale, non si può rottamare un altro pezzo di cultura politica della sinistra. Persino D’Alema, che sul credito si è bruciato più volte, disse “io non difendo Fazio, ma qualsiasi soluzione va ricercata avendo rispetto per la Banca d’Italia». E se dodici anni fa lo disse lui, che aveva nell’armadio lo scheletro di Siena, oggi dovrebbe dirlo anche Renzi, che ha sulle spalle il fardello di Etruria.

Repubblica 22
Roberto Speranza.
Il leader dei demo-progressisti chiede di verificare “se il filo col Pd si è spezzato o si può riannodare, senza fermarsi sui nomi”
Mdp svolta e sfida Renzi “Incontro subito per trattare destra forte, serve un’intesa”
intervista di Tommaso Ciriaco

ROMA. «Sono pronto a incontrare Renzi. Vogliamo discutere nel merito di legge elettorale, di bilancio e delle politiche sbagliate di questi anni, e farlo subito. Lo sfido, noi siamo disponibili già lunedì mattina. È l’ultima occasione per capire se il filo si è definitivamente spezzato o si può ancora riannodare». Ecco la proposta del leader di Mdp Roberto Speranza al segretario dem Matteo Renzi. Un incontro, domani stesso. Per capire se i giochi sono già chiusi o è possibile riaprire una discussione: «La destra, ovunque, è fortissima. E nessuno di noi può fare finta di niente. Io di certo non voglio».
Speranza, sta veramente dicendo che lunedì mattina, cioè domani, è pronto a incontrare l’arcinemico Renzi?
«Se si tratta di discutere di come cambiare la legge elettorale e la legge di bilancio, sono disposto a incontrare chiunque, anche lui. Lui è disponibile?».
Vuole trattare con Renzi, il segretario per il quale siete andati via dal Pd?
«Io parlo a tutto il Pd, ma so bene che non si può cambiare la legge elettorale e di bilancio senza che il suo segretario scelga di farlo. Per questo, ho deciso di sfidarli: riapriamo una discussione, a partire da questi due temi. Così si capiranno le reali intenzioni dei soggetti in campo».
È la solita tattica del cerino? Anche Renzi ha aperto a Mdp, ma nulla è cambiato.
«Ha aperto? Sicuro… poi ho sentito parlare di “traditori”. Vorrei essere chiaro: tra noi non c’è alcun problema personale, ma di linea politica. A meno che il segretario del Pd non continui ad avere più affinità a ragionare con Berlusconi, Salvini e Alfano ».
Questo incontro sarebbe la premessa per avviare un percorso di ricostruzione del centrosinistra in vista delle politiche?
«La rottura nel Pd è arrivata dopo una frattura nella società italiana. Con studenti, insegnanti, lavoratori e mondo ambientalista. Se si ha il coraggio di ricomporre questa frattura, e di ragionare di una politica di radicale discontinuità, allora anche noi dobbiamo avere il coraggio di confrontarci».
E se invece Renzi rifiuta di incontrarla?
«Allora è chiaro che per noi l’unica possibilità sarà quella di presentare un progetto alternativo, democratico e popolare, al quale tra l’altro stiamo già lavorando ».
Torniamo al merito della trattativa. Cosa chiedete a Renzi sul Rosatellum?
«Martedì in Senato si apre la discussione. Se vuole aprire un confronto reale, abbandoni la strada della fiducia ed eviti un’ulteriore violenza al Parlamento. Lavoriamo per migliorare il testo».
Niente fiducia, e poi?
«Il Rosatellum prevede che due terzi del Parlamento siano nominati dalle segreterie di partito. Modifichiamolo, introducendo le preferenze nelle liste bloccate proporzionali oppure aumentando il numero dei collegi uninominali. E si preveda anche il voto disgiunto, per ampliare la possibilità di scelta degli elettori e togliere la camicia di forza in cui vengono costretti oggi i soggetti politici».
E sulla legge di bilancio?
«Il testo attuale è molto debole, ancora con bonus e regalie fiscali. Rimettiamo al centro la dignità del lavoro. Siamo in un tempo in cui è in discussione la civiltà del lavoro. E il Jobs act, che si proponeva di stabilizzare i lavoratori, ha fallito: nel 2017 in Lombardia solo 12 contratti su 100 sono a tempo indeterminato. E poi c’è la Buona scuola, che ha fatto arrabbiare tutti, e l’alternanza scuola-lavoro, che sembra un modo per offrire manodopera a basso costo».
Ma voi su cosa siete disposti a cedere, in questa trattativa con Renzi?
«Noi non sediamo in consiglio dei ministri, né abbiamo ruoli. Io ho lasciato l’incarico di capogruppo e il Pd per contestare leggi sbagliate. Noi siamo pronti a confrontarci».
Certo, la questione Bankitalia non aiuta a ricostruire un confronto.
«Ho trovato irresponsabile l’inseguimento dei grillini in quella vicenda. Tra l’altro si sta scherzando col risparmio degli italiani».
Speranza, perché lancia questa sfida a Renzi? Cosa c’è sotto?
«La destra è molto forte, ovunque nel mondo. Mi ha molto colpito la vicenda austriaca. E ricordo il caso tedesco, dove l’Afd ha recuperato mezzo milione di voti dall’Spd, un dato impressionante. Questo è un problema per tutti. E io non voglio fare finta di nulla».
Davvero è possibile non rassegnarsi a due sinistre alle prossime elezioni?
«Il nostro obiettivo è battere la destra, ma per farlo bisogna cambiare radicalmente alcune politiche sbagliate dei governi progressisti che ci hanno allontanato dalla nostra gente e tirato la volata ai populisti».
In realtà c’è chi dice che avete già deciso di lanciare una sinistra radicale. È così?
«E chi sarebbe la sinistra radicale, Fratoianni e Vendola? Hanno governato la Puglia, descriverli come degli estremisti radicali è fuori dalla realtà. Le nostre biografie parlano di una sinistra di governo».
Ma a questo punto che differenza c’è tra voi e Pisapia? Dite le stesse cose… «Penso che Pisapia dovrebbe stare da questa parte. Ma il progetto non si può fermare sui nomi, né su una persona. Noi non perdiamo più tempo, Pisapia valuterà ».
Un’ultima cosa: finché c’è D’Alema, c’è un tabù per la ricostruzione del centrosinistra?
«Questa atteggiamento è stupido e inaccettabile. D’Alema è un grande protagonista della storia del centrosinistra».

Repubblica 22.10.17
Massimo Cacciari.
L’ex sindaco di Venezia, che insegna a Milano: “Non vado, questa consultazione è la campagna elettorale della Lega”
“Una risposta anacronistica a una domanda giusta è in gioco l’unità del Paese”
intervista di Giampaolo Visetti

VENEZIA. «Il futuro sarà dominato dagli imperi, che stanno organizzando la globalizzazione. Staterelli e micro-regioni chiuse saranno fatti fuori, schiacciati nella morsa di nazionalismi e i secessionismi. Solo un patto politico reale per costruire gli Stati uniti d’Europa, fondati su Stati federali, può evitare che il cuore dell’Occidente si fermi. Temo che oggi non ci siano le condizioni».
Massimo Cacciari, filosofo e politico, è veneto ma insegna a Milano. Trent’anni fa, assieme a Miglio e Napolitano, aveva cominciato a porre il problema di un nuovo federalismo italiano e continentale. Non è stato ascoltato e oggi, nella sua casa di Venezia, assiste alla Brexit, al dramma catalano e ai referendum autonomisti di Veneto e Lombardia. «Non voto – dice – non ho più tempo per atti inutili. Ma ciò non significa che la domanda di maggiore autonomia non sia sacrosanta. Il problema è che viene declinata in modo distorto».
Perché gli Stati nazionali faticano sempre di più a rappresentare i cittadini?
«Da una parte subiscono la pressione delle potenze globali, economiche e tecnologiche. Dall’altra, smarrendo potere e autorevolezza, non garantiscono efficienza a istituzioni locali autoreferenziali, rinvigorite da crisi e paure. Così sono loro a pagare il conto del disagio collettivo».
L’autonomia è il paradiso?
«No, ma rifugiarsi in casa quando piove è logico e legittimo. Il problema è che le forze autonomiste sono le prime a tradire l’autonomia. Presentarla in modo manipolato e falso è un colossale e rivelatore errore».
Trattenere in loco le tasse garantisce una spesa pubblica più efficace?
«No. La differenza tra Alto Adige e Sicilia è la prova. Conta il livello della classe dirigente, ma il punto essenziale è che nessuna autonomia locale può tenere per sé il disavanzo fiscale. Se succede, salta lo Stato. Con questa logica ognuno è legittimato a non pagare le tasse e ad arrangiarsi. Le nazioni si fondano sulla solidarietà dei loro popoli. Più è forte più prospera la comunità. Se non c’è, non c’è più il Paese».
I referendum di Veneto e Lombardia possono minare la sovranità nazionale?
«Il rischio c’è. La distanza tra Nord e Sud si allarga e non è più sostenibile. Non può crescere uno Stato in cui qualcuno solo dà e qualcuno solo prende. Il primo si sente truffato, il secondo soffoca vivendo di rendita. La questione settentrionale c’è e va affrontata prima che sia troppo tardi: ma non in questo modo».
Il voto popolare serve ad accelerare la trattativa Stato- Regioni, già prevista dalla Costituzione?
«No. Questi referendum sono la campagna elettorale della Lega e del centrodestra, di Maroni e di Zaia. Alla fine l’ha capito anche Berlusconi».
Un’alta affluenza alle urne sarà un campanello d’allarme anche per il Governo?
«Sono trent’anni che la campana dell’autonomia suona a distesa, sotto governi di ogni bandiera. Non l’ha ascoltata e non l’ascolterà nessuno. Certo, se non vota almeno il 50%, non si può parlare nemmeno di sondaggio».
La Lega, con questi referendum, abbandona ufficialmente la secessione padana per l’autonomia italiana: è una sconfitta o una prova di saggezza?
«Tra confusione e ambiguità la Lega di Salvini cerca di diventare un normale partito di destra che cavalca paura e nostalgia. Il suo autonomismo resta solo propaganda».
Il centrosinistra è diviso tra sì, no e astensione: perché sui temi cruciali non emerge una posizione unitaria?
«E’ l’ennesima figuraccia. Non c’è una visione strategica comune, partiti e capi vivono da separati in casa. Fino a quando la casa non crolla».
Chiesa e imprese sostengono sì e referendum: perché?
«Boh, non l’ho capito. Solidarietà e sfide sui mercati globali suggeriscono analisi più profonde. Forse pensano che sostenere ufficialmente l’autonomia sia il modo per rendere evidente che questo Stato non riesce più ad aiutare la gente a vivere. In privato però sento posizioni più articolate ».
Come si potrebbe garantire maggiore autonomia locale dentro Stati nazionali più moderni?
«All’Italia serve una riforma costituzionale in senso federalista. Si è provato invano a farla per tre volte. Venticinque anni fa si poteva sperare in una fase costituente, oggi suona politicamente ridicolo. Mancano le condizioni, a partire dalla cultura della classe dirigente. I partiti locali si legittimano con la propaganda autonomista, potere e burocrazia centralista resistono vivacchiando ».
Più autonomia a Veneto e Lombardia può essere un primo passo?
«No, non si può partire togliendo soldi allo Stato per fare da soli cose locali. Dobbiamo pensare a macroregioni diverse, anche trasnazionali, dentro la cornice di aggiornati Stati uniti d’Europa. Non ha senso pensare che, così come sono, Veneto e Lombardia, grazie all’autonomia, in futuro possano navigare nell’oceano globalizzato. La domanda è giustificata, la risposta è anacronistica».
Siamo a fine legislatura: davanti ad affluenza massiccia e scontato trionfo del sì, Roma concederà più competenze e più finanziamenti a Veneto e Lombardia?
«Neanche per sogno e non perché scade il parlamento. La realtà è che mancano le condizioni. Se Veneto e Lombardia, assieme all’Emilia Romagna e poi magari anche con Puglia e Piemonte, trattenessero l’avanzo fiscale, imploderebbe lo Stato. Europa e mercati lo sanno: per questo sono preoccupati dai toni pubblicamente dimessi di Zaia e Maroni. Certe dinamiche, acceso l’innesco, tendono a sfuggire di mano».

Repubblica 22.10.17
Altro che nazionalista, l’ultradestra si schiera per il Sì
Da Forza Nuova a Lealtà Azione, i gruppi dell’estremismo neofascista in campo con il centrodestra
La campagna sui social per l’affluenza Solo Casa Pound si smarca “È l’ora di togliere potere allo Stato e alle sue sovrastrutture”
di Paolo Berizzi

MILANO. Tutti in campo per il Sì con l’eccezione di CasaPound, secondo la quale la consultazione di oggi «è solo uno spreco di soldi pubblici e una mossa pre-elettorale ». Sovranista e nazionalista. Da sempre a favore dello Stato centrale. Eppure adesso l’ultradestra si scopre anche autonomista e si mobilita per il referendum lombardo veneto.
Da Forza Nuova a Lealtà Azione, da Progetto Nazionale al Movimento sociale Fiamma Tricolore, tra i partiti e i movimenti neofascisti è tutto un fiorire di inviti a recarsi ai seggi. «Vuoi che al Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?». È la domanda che gli elettori troveranno stampata sulla scheda referendaria alla quale noi invitiamo a rispondere Sì». L’invito arriva via Fb dal coordinatore veneto di Forza Nuova, Andrea Visentin. È la linea ufficiale del partito, ed è stata dettata già a settembre, all’indomani del raduno leghista di Pontida: i governatori Zaia e Maroni sul palco a indottrinare il popolo sulla “battaglia referendaria”, il “Capitano” Salvini a promettere che «se andiamo al governo cancelliamo le leggi Mancino e Fiano, perchè le idee non si processano...».
Musica per le orecchie dei camerati, sia quelli di FN sia le tartarughe nere di CasaPound. Che con la Lega salviniana sono già state alleate nel 2014. Il convinto sostegno alla causa da parte del partito di Roberto Fiore non si è fatto attendere: «FN vota Sì», recita la locandina diffusa sui social. «Siamo Nazionalisti da sempre – spiega ancora Visentin –. Ma togliere potere decisionale a sovrastrutture come lo Stato e la Regione, per darlo a Province e Comuni, diventerebbe strategico per la soluzione di tutti quei problemi, soprattutto burocratici, che attanagliano i nostri concittadini». Insomma: pur non senza un poco di confusione - alla “sovrastruttura” Regione il potere non verrebbe tolto affatto - affrancarsi da Roma ai fascisti non dispiacerebbe. Fa niente se le Regioni sono viste come “carrozzoni costosi” che «imbarcano i trombati».
Oggi per l’estrema destra è importante andare ai seggi e dire Si. È vero: per Fratelli d’Italia il referendum è “inutile propaganda”. Per CasaPound uno “spreco di soldi”. Ma per Lealtà Azione - formazione in forte ascesa al Nord, alleata proprio con CPI e in alcune realtà locali in asse con Fdi - è un’occasione da non perdere. Scrive il presidente “lealista” Stefano Del Miglio: «Sì al decentramento della politica, per ridare forza ai territori nell’interesse della Patria». Tutti a votare, dunque. Anche a Monza, dove Lealtà Azione - movimento di ispirazione neonazista dietro il quale opera il circuito Hammerskin - ha eletto (nelle liste di Fdi) l’assessore allo Sport, Andrea Arbizzoni. Schierati per il Sì sono anche le teste rasate veronesi di Progetto Nazionale, la formazione di Piero Puschiavo che è da sempre punto di riferimento dell’ultradestra scaligera. «Federare vuol dire coordinare gli interessi locali in un quadro nazionale», è la sintesi che campeggia sul sito di “Progetto”.

Corriere 22.10.17
Anche tra i giovani crescono le fratture
Le infinite vie della disuguaglianza
di Antonio Polito

In questi anni difficili e confusi, Dario Di Vico è stato tra noi (e non solo al «Corriere») quello che ci ha visto più lungo; trasformandosi in una specie di Censis del giornalismo di inchiesta sociale, capace di comprendere i mutamenti in corso ma anche di raccontarli, e ancor più di definirli. A lui si devono intuizioni che sono rimaste nel lessico della crisi italiana, come gli affanni della «quarta settimana», che nel 2006 anticipavano i segni di un impoverimento dei ceti medi. O come, nel 2010, la rivolta dei «piccoli», miriade di imprese e individui senza protezione colpiti dagli choc del cambiamento in corso nell’economia globale, prodromi dell’esplosione di rabbia che di lì a qualche anno avrebbe gonfiato le vele del «neo populismo».
Per riuscire nella sua impresa Di Vico ha dovuto nel tempo diventare intollerante nei confronti di generalizzazioni e semplificazioni, sviluppare una sempre maggiore acribia per distinguere e separare, specificare e precisare; il che ne ha fatto uno storico del presente molto eccentrico rispetto all’opinionismo da talk show.
La sua ultima indagine, per esempio, riguarda un fenomeno che oggi è tanto dibattuto nei convegni e in tv quanto poco compreso: la disuguaglianza. Ormai è diventata una di quelle formule magiche con cui si spiega tutto, sofferenza sociale, disperazione individuale, comportamenti politici. Il pregio di Nel Paese dei disuguali (Egea) sta proprio nel farci scoprire che «le vie che ha preso la disuguaglianza sono infinite, e se si vuole veramente fare i conti con essa bisogna percorrerle. Tutte. E non una sola, magari scelta perché si presta a confezionare una slide sfiziosa». Scopriamo così, percorrendo quelle vie, cose che non sapevamo e che spesso contraddicono senso comune e pregiudizi politici, e che somigliano molto alle «persone che incontriamo per strada», spesso dall’autore direttamente interpellate nella sua inchiesta. Per esempio che sono due le Cine che convivono nel nostro Paese, quella che è considerata un problema a Prato ma anche quella che è diventata una soluzione a Milano. Oppure che la classe operaia si è scomposta in tre, dagli operai «cognitivi», gente che controlla macchine da 300 milioni per 1.500 euro al mese, al proletariato dei servizi, per lo più «facchini della logistica», e che tutte e tre hanno divorziato dalla sinistra. O che sono quattro le tribù dei Neet, i ragazzi che non lavorano, non studiano e non sono in training, ma non sempre sono «inattivi totali», bensì volontari, o sportivi, o baby-sitter e camerieri in nero. E così via. Non voglio rovinare al lettore la sorpresa (spesso si tratta di vere e proprie sorprese, tipo la ricerca che spiega perché nella vita chi arriva terzo di solito è più appagato di chi arriva secondo, si chiama «deprivazione relativa»; oppure il grafico di Milanovic che assomiglia a un elefante, e spiega perché la nostra disuguaglianza significa più uguaglianza per i poveri del mondo).
Ciò che colpisce è però il solco che si è scavato nel tessuto sociale e morale dell’Italia di oggi. Nel Paese dove diminuiscono le nascite aumentano infatti i bambini in povertà assoluta e relativa (1,3 milioni i primi, uno su quattro i secondi). Nel Paese dove domina la retorica ugualitaria dei sindacati e della sinistra, il welfare ha accentuato le differenze sociali invece che ridurle. Nel Paese dove è nato l’indice della disuguaglianza, che prende il nome dallo statistico italiano Corrado Gini, non siamo capaci di uscire dal determinismo economico del Pil e capire che le differenze di reddito non spiegano tutto: per esempio il fatto che il vero «zoccolo duro» dell’ingiustizia sociale in Italia è il «fossato che si è aperto tra le generazioni».
Le nuove disuguaglianze sono infatti sempre più sottili per il setaccio dei misuratori classici. Prendete il cambiamento epocale che sta avvenendo nell’alimentazione, col pessimismo gastronomico dei giovani urbanizzati del Nord Italia (oltre un quinto dei Millennial compra solo prodotti biologici) e, al contrario, i tassi sorprendenti di obesità e sovrappeso riscontrabili al Sud, spesso connessi con un basso grado di istruzione (un massimo del 37,4% in Campania, contro il 19,5% del Nord Ovest).
Come avviene nella fisica quantistica con le particelle, il movimento sociale delle nuove generazioni è impossibile da misurare, se ne fotografi la velocità ti sfugge la posizione, e viceversa. È il caso dei coinquilini forzati, ragazzi che dividono l’appartamento, fenomeno in crescita e che convive con il record dei «bamboccioni» che restano in famiglia. Oppure dei ciclisti di Foodora che fanno ammattire i giuslavoristi (sono lavoratori autonomi, dipendenti, partite Iva?).
Tutta l’attrezzatura concettuale, contrattuale, sindacale, legislativa, del nostro Paese, appare insomma invecchiata, incapace di capire, prima ancora che di combattere, la nuova disuguaglianza. L’ascensore sociale non sale più perché mancano i piani alti, e lo sviluppo italiano non è sufficiente a crearne di nuovi. «Conoscere per deliberare», scriveva Luigi Einaudi nella sue Prediche inutili . Il libro di Di Vico è prezioso per conoscere. Auguriamoci che non sia inutile per chi deve deliberare .

Il Fatto 22.10.17
Biotestamento, le dimissioni mancate (sette volte) che bloccano la legge
Radicali - Cappato: “Se la De Biasi mollasse la commissione si finirebbe in Aula”
di Lorenzo Giarelli

Quel limbo sterminato che divide Camera e Senato ha risucchiato da mesi anche la legge sul biotestamento, che dovrebbe concedere la possibilità ai malati terminali di decidere sul proprio fine-vita e sull’eventuale sospensione delle cure. Lo scorso aprile la Camera, coi voti del Pd e dei 5 Stelle, aveva approvato la legge, ma da mesi il ddl è ferma in Commissione al Senato e lì rischia di impantanarsi, dovendo fare i conti con l’ostruzionismo delle opposizioni che hanno presentato oltre 3.000 emendamenti. Eppure una soluzione ci sarebbe: “Basterebbe che Emilia Grazia De Biasi si dimettesse da presidente della commissione Sanità del Senato e così la legge sarebbe subito mandata in Aula”. Lo spiega il radicale Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni che negli ultimi anni ha più volte sollecitato la necessità di una legge sul fine-vita, sostenendo le cause di diversi cittadini che hanno scelto di interrompere le cure. Il problema è che, come segnala l’associazione Luca Coscioni, da giugno a oggi De Biasi ha annunciato già sette volte le proprie dimissioni, senza però mai dar seguito concreto alle parole. Il motivo, secondo Cappato, è ormai chiaro: “La legge è finita vittima delle esigenze delle coalizioni e delle correnti interne dei partiti”.
Il peccato originale, ancora una volta, è ritrovarsi a discutere una legge fondamentale per i diritti a fine legislatura, con un calendario pieno e logiche di partito, specie in prossimità delle elezioni siciliane, che mettono in secondo piano il merito della legge.
Una melina infinita per una legge che, a detta di Cappato, è pure molto prudente: “Si limita a recepire le indicazioni della Corte Costituzionale sui casi Welby e Englaro”, con un’opinione pubblica ormai “largamente favorevole persino all’eutanasia, figurarsi al testamento biologico”. Quella sul fine-vita è una delle battaglie di disobbedienza civile che Cappato ha raccolto in Credere, disobbedire, combattere (Rizzoli). C’è il caso di Dj Fabo, che Cappato aiutò ad ottenere il suicidio assistito in Svizzera, ma anche lotte per l’aborto, per le unioni civili, per la depenalizzazione delle droghe leggere: “Quando il cittadino impone la propria storia e le proprie emergenze, anche al costo della disobbedienza civile, allora supplisce alla paralisi della politica, assorbita da troppe logiche di potere”.
Le stesse logiche che stanno bloccando la legge sul fine-vita in Commissione e che preoccupano Cappato: “Ogni giorno che passa senza le dimissioni della De Biasi è un giorno perso”. Ora o mai più, senatrice De Biasi.

Corriere 22.10.17
Nuovo divorzio, assegno leggero
di Giuseppe Alberto Falci e Ilaria Sacchettoni

C’è il comico di Zelig, Marco Della Noce, che si confessa in video («Mi hanno pignorato tutto»). E il signor Rossi qualunque, depauperato dagli alimenti che i giudici lo hanno costretto a versare per salvaguardare, immutato, il tenore di vita della coniuge di un tempo. C’è tutto questo. E poi c’è lo spiraglio aperto dalla Cassazione che, a maggio scorso, s’era pronunciata per la prima volta contro l’assegno monstre , sostenendo che il mantenimento mensile può non essere monumentale perché non si è tenuti a garantire all’ex moglie lo status precedente. Il pronunciamento riguardava il divorzio dell’ex ministro Vittorio Grilli nei confronti della prima moglie Lisa Lowenstein, e, va da sé, aveva alimentato la coda di divorziati che chiedeva di rinegoziare gli alimenti versati all’ex coniuge.
Anche per questo Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione giustizia alla Camera, ha deciso di presentare una nuova legge che modifica l’articolo 5 della normativa del 1970, laddove stabilisce l’obbligo di mantenimento per l’ex coniuge quando quest’ultimo non abbia «mezzi adeguati». «L’obiettivo — spiega — è evitare abusi, che cioè si utilizzi un divorzio per conseguire finalità di arricchimento personale a spese dell’altro». L’intuizione è chiara. In famiglia si lavora in due e un matrimonio non è un business . Quindi, in caso di separazione si volta pagina in due.
«In base alla nuova interpretazione (della Cassazione, ndr ) — premette Ferranti — l’ex coniuge che non percepisca quanto è strettamente necessario per vivere può pretendere solo gli alimenti senza che si possa fare alcun riferimento al rapporto matrimoniale ormai estinto». Secondo la proposta Ferranti il tribunale dovrà fissare l’assegno di mantenimento tenendo conto di una serie di parametri: dalle «condizioni economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito della fine del matrimonio» al «contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune». Dal «reddito di entrambi» alla «mancanza di un’adeguata formazione professionale quale conseguenza dell’adempimento di doveri coniugali». Ci si allontana così dall’automatismo separazione-mantenimento che la legge degli anni 70 prescriveva ai mariti. E che ancora oggi è motore di molti assegni record, fra i quali quello di Silvio Berlusconi all’ex moglie, Veronica Lario (2 milioni).
Secondo Ferranti «è molto avvertita anche l’esigenza di contenere nel tempo la durata dell’aiuto economico prevedendone una limitazione temporale che tenga conto della durata del matrimonio». Ferranti e il suo collega Walter Verini sperano in una condivisione maggioritaria della loro proposta in commissione per imboccare la procedura legislativa: in questo modo potrebbe guadagnare l’approvazione in tempi record.

il manifesto 22.10.17
Il precipizio balcanico
di Tommaso Di Francesco

Diranno che è una «modalità moderata» l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola scelta ieri dal premier spagnolo Rajoy per fermare la dichiarazione di indipendenza catalana: di fatto non c’è l’impossibile cancellazione dell’autonomia ma «solo» il commissariamento del govern e di Puigdemont; diranno che è soft perché tutto è rimandato al voto del Senato la prossima settimana e a nuove elezioni tra sei mesi. Siamo in realtà sull’orlo del precipizio, altro che soft.
La scelta di assumere di fatto i poteri della Generalitat catalana e delle forme del suo autogoverno è un vulnus che riguarda l’intera democrazia spagnola che si regge sul riconoscimento delle autonomie. Questo grida con ragione Podemos, purtroppo inascoltato
Una decisione che svela come l’unica via imboccata dal governo di Madrid sia quella della repressione e non del dialogo. Perché commissariare un governo di una autonomia garantita dalla stessa Costituzione, sospendere il processo democratico sovrano a «dopo» elezioni» eterodirette, apre una voragine di senso sulle istituzioni della Spagna. E che avrà comunque subito come risposta un acuirsi del clima già teso, dopo le violenze della polizia durante il voto referendario, gli arresti dei due Jordi, la messa sotto accusa dei Mossos – ora commissariati – con una esacerbazione delle istanze dell’indipendentismo. E che mette in chiaro l’origine delle responsabilità nella crisi.
Non solo quelle degli indipendentisti, spesso irresponsabili, che hanno premuto l’acceleratore sulla sovranità nazionale separata, ma anche quelle del centralismo statuale spagnolo e dei nodi sociali ed economici tutt’altro che risolti, come ha ricordato di recente perfino il Fondo monetario internazionale.
È la crisi del Patto della Moncloa del 1978, che ebbe il merito di inserire la Spagna in un nuovo processo democratico, facendola uscire dal buio nero della dittatura franchista, con un ruolo allora positivo della monarchia garante del ruolo dell’esercito (già golpista).
Ma dopo quasi 40 anni che resta di quella monarchia, ridotta a sedimento corrotto, nonostante il cambio da Juan Carlos a re Felipe, per gli scandali che l’hanno contraddistinta? Per una democrazia compiuta non è forse venuto il momento di decidere una statualità repubblicana liberamente decisa dai cittadini?
E non è forse chiaro che sia in crisi la leadership del Partito popolare, che ha conquistato due punti in più di Pil ma solo a costo di tanto lavoro precario (come in Italia); e che ora ben altro atteggiamento della compromissione fin qui manifestata dovrebbe venire dall’opposizione socialista del Psoe di Pedro Sanchéz che, sul baratro che si apre, dovrebbe chiedere elezioni anche a Madrid e invece, come Ciudadanos, sale sul carro del vincitore, promette aperture, si prepara magari ad entrare al governo?
E poi come dimenticare che dietro il conflitto con Barcellona c’è stata l’iniziativa scellerata del Partito popolare di Rajoy di far cancellare nel giugno 2010 dal Tribunale costituzionale – con un voto per il rotto della cuffia – lo statuto di Catalogna nonostante fosse stato approvato dai parlamenti sia di Barcellona che di Madrid? Il nodo fu la parte del preambolo che recitava «la Catalogna è una nazione».
Fu l’apertura del vaso di Pandora che ha radicalizzato l’indipendentismo – moltiplicato da quella decisione – in chiave «nazionalista», anche di fronte al fatto che nel 2008, con l’esplodere dell crisi economica mondiale, arrivarono processi di ulteriore centralizzazione di Madrid. Molte delle grandi banche, che in questi giorni grazie al provvedimento propizio del governo, hanno spostato la loro sede amministrativa dalla Catalogna, vennero salvate in questo periodo dal provvidenziale intervento centrale dei governi centrali. Oggi il potere finanziario – come in Grecia, come dovunque – rende l’omaggio, rompendo l’unità ambigua del fronte separatista catalano. Composto in parte da una borghesia concorrenziale, legata a filo doppio all’economia spagnola, e da un’ala social-radicale, la Cup e non solo, che a dire il vero ha pensato ad un «processo costituente» per una «Repubblica garante dei diritti sociali, femminista accogliente verso l’immigrazione, con al centro le persone e non il denaro», ma senza tenere conto dei rapporti di forza reali e di chi, in Catalogna, non vuole l’indipendenza. Non una «piccola patria» però ma una «destituente» del potere centralistico, sia spagnolo che dell’Unione europea «reale» ridotta ad equilibrio di due sole nazioni, Germania e Francia.
Già l’Unione europea, che fine ha fatto in questa crisi? Quell’Ue che, quando ha fatto comodo, ne ha riconosciute di piccole patrie, addirittura quelle proclamate su base etnica, come per l’ex Jugoslavia, e poi per la divisione tra Cechi e Slovacchi e per l’incredibile nazione del Kosovo? Avrebbe dovuto, senza dare il segno dell’ingerenza, diventare la sede del dialogo concreto e possibile, almeno dopo il disastro secessionista della Brexit. Invece alla fine si è schierata con il Pp di Rajoy forte di una leadership europea costituita proprio dai partiti popolari di centro-destra. Fino a battere le mani come nei giorni scorsi a re Felipe al premio Principe delle Asturie: questo ha fatto il presidente del Parlamento europeo Tajani, del resto di formazione monarchica.
Ora c’è il precipizio balcanico di un articolo 155 mai applicato finora, dirompente verso la Catalogna ma anche per gli equilibri e la pace della Spagna. E dell’Europa.

Corriere 22.10.17
Il salto nel buio e l’ombra della violenza
Salto nel buio in Catalogna ma la Costituzione va difesa
di Franco Venturini

Ora che l’inevitabile è accaduto, la partita tra Madrid e Barcellona entra nel tempo dei pericoli estremi. Era certo inevitabile, al punto in cui si era giunti, che il primo ministro Mariano Rajoy evocasse l’articolo 155 della Costituzione per sospendere l’autonomia e l’autogoverno della Catalogna
In primo luogo a causa della personalità umana e politica dei due protagonisti della contesa, Rajoy alla testa degli unionisti spagnoli e Carles Puigdemont alla guida degli indipendentisti catalani. Entrambi determinati, e propensi a vedere in ogni compromesso il segno di una sconfitta. Entrambi convinti delle loro buone ragioni ma anche deboli, perché privi di una maggioranza di governo (Rajoy a Madrid) oppure sostenuti da consensi parlamentari fragili (Puigdemont a Barcellona). Entrambi pressati dai falchi del proprio schieramento. Entrambi impegnati in una personale battaglia di sopravvivenza politica. Si somigliavano troppo, Rajoy e Puigdemont, perché uno di loro potesse prevalere sull’altro prima dell’ultima resa dei conti: articolo 155 contro dichiarazione di indipendenza. E ora, dopo le schermaglie tattiche volte a colpevolizzare la controparte, è a questo risolutivo braccio di ferro che siamo arrivati.
Rajoy ha voluto annunciare contemporaneamente l’amministrazione controllata della Catalogna e nuove elezioni regionali entro sei mesi. Forse per rispondere alle immediate accuse di «franchismo» e di repressione della volontà popolare dei catalani. Di sicuro per soddisfare le richieste appena udite al vertice europeo di Bruxelles: la Ue ti appoggia, siamo per il rispetto del dettato costituzionale in tutti i nostri Stati nazionali, non possiamo e non vogliamo interferire negli affari interni spagnoli, ma il governo di Madrid non prenda posizioni che possano apparire antidemocratiche all’opinione pubblica. Dopo le foto e i video delle manganellate dei poliziotti madrileni il giorno del referendum, era il meno che Rajoy potesse sentirsi dire. E l’appuntamento elettorale, per quanto generico, risponde bene a questa esigenza. Per ora, perché non è detto che i calcoli del primo ministro risultino esatti.
L’articolo 155 è la versione costituzionale di un salto nel buio. La sua vaghezza affida al capo dell’esecutivo, previa (e scontata) ratifica del Senato, il potere di scegliere i mezzi più opportuni per far cessare lo stato di illegalità. Ed è non a caso soltanto questo che Rajoy ha annunciato ieri di voler fare. Ben sapendo, bisogna ritenere, che ogni passo del governo unionista in Catalogna comporterà rischi altissimi anche per le istituzioni centrali.
Puigdemont potrebbe non essere destituito ma soltanto privato di tutti i suoi poteri che passeranno a un organismo transitorio espresso dal governo di Madrid. Lo stesso accadrà per gli altri membri del governo catalano e per il Parlamento di Barcellona, che conserverà soltanto funzioni di rappresentanza. E se Puigdemont, che ieri sera ha confermato in piazza la sua volontà di andare avanti, disobbedisse? Se i parlamentari si ribellassero all’imposizione? Bisognerebbe arrestarli. Come, di notte? Usando la forza (errore già fatto) ? Oppure in Catalogna ci sarebbero due governi paralleli, e il mondo intero riderebbe?
Lo stesso vale per il controllo della polizia catalana, gli ormai celebri Mossos d’Esquadra. Se gli agenti si rifiutassero di eseguire gli ordini? E se tv e radio respingessero i controllori paracadutati da Madrid? Un caso di repressione della volontà di opinione, in uno dei più importanti soci europei? Uno scenario turco sulle Ramblas?
C’è dell’altro. Una parte della popolazione è ormai mobilitata a favore dell’indipendenza e ha cominciato subito a far sentire la sua protesta. Gran parte della burocrazia catalana non lavorerà per Rajoy. Nel tempo episodi di violenza non possono essere esclusi. La situazione economica continuerà a peggiorare (proseguono l’esodo delle imprese e il calo di investimenti e turismo) inasprendo ulteriormente gli animi. Altre regioni autonome della Spagna potrebbero non volere che in Catalogna si crei un precedente. E alla fine le elezioni saranno sì più regolari del referendum indipendentista, ma avranno su di esse il timbro di Madrid. Un timbro che potrebbe spostare la maggioranza dei consensi, che secondo i sondaggi oggi è unionista, dalla parte degli indipendentisti. Chiudendo la partita.
Mariano Rajoy ha tirato il dado nella sua Madrid, con l’unica opposizione di Podemos che parla di sospensione della democrazia. La sua difesa della Costituzione avrebbe potuto avere il conforto di scelte migliori, ma è giusta e democratica. Eppure a Barcellona la storia sarà diversa. E non è detto che basti spiegare, per l’ennesima volta, che la secessione non garantirebbe alla Catalogna un posto in Europa. Semmai il contrario. Ma a quello scenario l’Europa preferisce non pensare, fintanto che può permetterselo.

Repubblica 22.10.17
Una nuova cortina di ferro dilaga a destra della vecchia Europa
di Paolo Garimberti

L’ATTRAZIONE per l’uomo forte è radicata nel Dna di quella parte di Europa che per decenni è stata racchiusa al di là della “cortina di ferro”, quella linea divisoria tra democrazie e totalitarismi, tra la libertà e la repressione, che dal 1945 al 1989 ha spaccato in due il continente.
La caduta del muro di Berlino e, a seguire, la fine dell’Unione Sovietica e del suo impero satellitare, sembravano aver provocato una mutazione genetica, sollecitata nella coscienza popolare da una generazione di leader visionari, che avevano patito l’emarginazione e il carcere negli anni del comunismo e avevano impersonato la riscossa raccogliendo nelle piazze decine di migliaia di persone osannanti quando gli oppressori erano fuggiti in modo disonorevole.
Ma le “primavere” democratiche di Walesa, di Havel e dei loro epigoni non ebbero lunga durata, nonostante l’assistenza e l’accoglienza di quell’altra Europa, che da tempo aveva voluto chiamarsi Comunità e poi Unione e che a partire dal 2004 fece diventare membri del suo club gli ex satelliti dell’Urss. L’“intelligentsija” liberal-democratica, che aveva preso la guida della transizione post-comunista, finì per essere travolta dalla sua stessa ingenuità politica e di un approccio amatoriale ai grandi temi dell’economia e dei bisogni della popolazione, cedendo il passo a un’ondata demagogica e populista, che ha portato al governo i partiti di personaggi improbabili, come Jaroslaw Kaczynski in Polonia, Viktor Orban in Ungheria, lo stesso Robert Fico in Slovacchia, con il denominatore comune dell’euroscetticismo e dell’ostilità agli immigrati. L’ultimo della serie è Andrej Babis, vincitore ieri delle elezioni nella Repubblica Ceca con un partito il cui nome è già un manifesto programmatico: Ano (che in ceco vuol dire “sì”, acronimo di “Azione per i cittadini insoddisfatti”). Babis è un condensato di una tipologia politica che ha forti connotati comuni con gli oligarchi che hanno popolato la galassia russa dopo la fine dell’Urss. È molto facoltoso (ma le origini della sua fortuna sono opache), tanto da essere definito «il Trump ceco», ha un padre che faceva parte della “nomenklatura” comunista, ha tracce di servizi segreti nel suo passato, che evocano una vaga somiglianza con Vladimir Putin. E, comunque, come ha detto un giornalista ceco, è «un populista universale».
Il paradosso è che la deriva nazional-populista ed euroscettica degli ex satelliti dell’impero sovietico è cresciuta parallelamente al loro inserimento nell’Europa comunitaria. Come se il loro passaporto biologico reclamasse delle coordinate storiche insopprimibili, che si sono manifestate perfino nei dati elettorali della vecchia Germania Est, mai del tutto integrata e convinta dell’unificazione voluta da Helmut Kohl e benedetta allora da Mikhail Gorbaciov come auspicio di un’Europa che andasse davvero «dall’Atlantico agli Urali». Il cosiddetto “gruppo di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), che era nato appunto nel segno di quella «casa comune europea» evocata dall’ultimo leader sovietico, è diventato il capofila dell’ostilità alla «euroburocrazia», al centralismo di Bruxelles, alla politica dell’accoglienza, e il vociante portavoce della lotta contro la «discriminazione basata sulla moneta» (l’eurozona). Con il risultato che gli ultimi arrivati dall’Est hanno sopravanzato i vecchi campioni dell’euroscetticismo, da Silvio Berlusconi a Le Pen per finire con i “brexiters”, attraendo nuovi alleati a Ovest, come Sebastian Kurz, vincitore delle recenti elezioni austriache.
La vecchia Mitteleuropa diventa così il bacino dove confluiscono tutti i rivoli dello scontento, sia di quei Paesi che della Ue sono già membri, ma si sentono di “serie B” (come la Romania e la Bulgaria, sia di quelli che avrebbero voluto entrare ma sono ancora fuori dall’uscio. A cominciare dai Balcani, dove ci sono ben sei aspiranti: cinque (Albania, Bosnia, Kosovo, Macedonia e Montenegro) più la Serbia, il pesce più grosso dove il disincanto è ai più alti livelli: solo il 43 percento dei serbi dice oggi di voler entrare in Europa contro il 67 percento nel 2009. Con Putin che alimenta il fuoco, sventolando la bandiera della fratellanza slava. Così come minaccia rappresaglie verso le ex repubbliche sovietiche che dal 2009 sono oggetto delle attenzioni della Ue con un programma di “partnership”, che langue sempre di più: dall’Armenia alla Georgia per finire alla più concupita (e più minacciata da Putin), cioè l’Ucraina.
Così una serie di fattori (interessi nazionali, differenti valori, divergenti visioni sul futuro) hanno reso la vecchia Mitteleuropa e le vestigia dell’impero sovietico un terreno minato per l’Unione europea. Come se la cortina di ferro, che sembrava sradicata per sempre, fosse rinata dalla sue ceneri.

Repubblica 22.10.17
“Anche Praga ha scelto il populismo addio all’eredità libertaria di Havel”
Schwarzenberg, consigliere del primo presidente democratico: “Babis è un pericolo”
di Andrea Tarquini

Svolta a destra da terremoto alle elezioni parlamentari anticipate nella Repubblica ceca. Secondo dati oltre il 60 per cento dei seggi “Babisconi”, il Berlusconi ceco, cioè il 63 enne miliardario Andrej Babis, stravince con il 31% promettendo no a migranti, un paese governato come un’azienda, euroscetticismo. Seconda forza politica gli ultrà xenofobi guidati dal ceco-giapponese Tomio Okamura. I socialdemocratici, partito di governo uscente, crollano al 7%, peggior risultato storico. Karel Schwarzenberg è la coscienza critica del Paese, aristocratico liberal perseguitato dai comunisti, poi superconsigliere di Havel, e il ministro degli Esteri che portó Praga nella Ue.
Principe, quanto è grave la situazione?
«Euroscetticismo, populismo, anche corruzione piacciono, sono sdoganati. Questa Repubblica cèca tradisce l’eredità di Vaclav Havel. È scandaloso, ma potremmo avere un prossimo premier ex informatore della StB, la polizia segreta comunista.
Eredità di Havel in pericolo?
«Sì, in grande pericolo. Lo dicono i risultati, oltre ogni misura. Da lungo tempo l´eredità di Havel è in pericolo: l’hanno tradita due presidenti della repubblica, prima Klaus ora Zeman. E oggi il vincitore delle elezioni sembra essere stato al servizio della polizia segreta comunista, e anche gli ultrá populisti e tutti gli euroscettici la minacciano».
Cosa pensa di Babis?
«Ho per lui ben scarsa considerazione. La magistratura slovacca ha riaperto il dossier di accuse a suo carico, secondo cui sotto il comunismo sarebbe stato un informatore della polizia segreta che incarcerava Havel, reprimeva i dissidenti, perseguitava il popolo. Ci sono pochi dubbi: è irritante e scandaloso. Poi dopo il 1989 ha cominciato la vita pubblica non da politico, bensí da uomo ricco che approfitta in modo illecito di sovvenzioni europee e finanziamenti pubblici Ue e nazionali. Ha acquistato cosí migliaia di ettari di proprietà restando ministro delle Finanze, possiede e controlla molti media».
Eppure ha vinto, è pericoloso?
«È molto pericoloso. Lo sfondo è l´atmosfera generale. La convinzione diffusa che sia giusto servirsi da soli con la cosa pubblica. Piace a molti per la sua abile intelligenza, il suo successo economico, l´euroscetticismo, i toni populisti. La gente è convinta che tutti i politici siano disonesti, quindi non lo biasima, la morale è in secondo piano».
Babis somiglia a Trump o a Berlusconi?
«Berlusconi aveva almeno un fascino di stile italiano. Babis è piú immediato, diretto. Ma certo anche lui è un uomo ricco che usa ricchezza e populismo per scalare il potere. A differenza di Berlusconi non cela di non avere nessuna idea concreta per il Paese. Trasformerebbe lo Stato in un´azienda da lui guidata e posseduta, strumento di vantaggio personale. Sarebbe un pericolo anche per l´ulteriore integrazione Ue, è un euroscettico contrario ad approfondire l´integrazione».
Con Babis al potere e forti leader euroscettici a Varsavia e Budapest il gruppo di Visègrad dminaccia la Ue?
«Il pericolo maggiore è la sintonia tra Viségrad e la nuova Austria. Non esageriamo il peso del gruppo di Viségrad preso da solo. Ci sono altri gruppi interni alla Ue, dal Benelux ai paesi nordici. Forti ed europeisti. Pesano di piú i rapporti tra la neodestra austriaca. Ma attenti a come ora i leader di Viségrad si muoveranno con la neodestra austriaca».

il manifesto 22.10.17
Stravince Babiš, débâcle a sinistra
Repubblica Ceca. Nelle elezioni politiche trionfa al 30% "Ano 2011" del secondo uomo più ricco del Paese. L’estrema destra razzista di Okamura all’11%. Socialdemocratici dal 20% al 7%, comunisti sotto il 10%. Ma all’11% il Partito dei Pirati
di Jakub Hornacek

PRAGA A trionfare nelle elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati è, oltre le più rosee attese, il Movimento dei Cittadini Insoddisfatti (Ano 2011) del secondo uomo più ricco del Paese, Andrej Babiš. Il suo movimento vince le elezioni con circa il 30% delle preferenze dei voti.
La posizione di Babiš è rafforzato anche dal sistema di conteggio in vigore nel Paese. Grazie a ciò, Ano 2011 potrebbe aggiudicarsi ben ottanta seggi. «Il sistema è stato ideato dai socialdemocratici e dal Partito Civico (Ods, di destra) per creare un sistema sostanzialmente bipartitico» nota il commentatore Petr Novácek. Per ironia della sorte entrambi le formazioni sono ora a margine della scena politica.
La Camera dei Deputati ceca sarà fortemente rinnovata. Ad aggiudicarsi i seggi sono ben tre nuove formazioni politiche. Raccoglie circa l’11% il Movimento Libertà e Democrazia Politica (Spd) dell’imprenditore populista e di estrema destra Tomio Okamura.
Il personaggio, di origini giapponesi e coreane, ha puntato sull’islamofobia, su una retorica contro i parassiti (in Repubblica Ceca eufemismo per i Rom) e sul referendum sulla permanenza nell’Ue. Con la stessa percentuale entrano tra i banchi parlamentari anche il Partito Pirata.
I pirati hanno puntato nella campagna elettorale sulla trasparenza e l’efficienza delle istituzioni democratiche. Ma il programma è molto più vasto con temi come l’antiproibizionismo, nuove forme di welfare, il supermanento del copyright e l’ecologia. Sconvolgimento anche al centro: a superare la soglia del 5% è il Movimento dei Sindaci, una formazione di centrodestra che ha puntato sullo «spirito civico».
I partiti tradizionali, che sono stati bersagliati dalle formazioni come Ano 2011, Spd o i Pirati, hanno subìto un forte ridimensionamento. Può essere soddisfatto il Partito Civico, la principale forza di centrodestra nel Paese, che ottiene l’11% e qualche seggio in più. Ma l’attuale partito è solo una pallida ombra dell’originaria Ods abituata a prendere almeno il 20%.
Perdono preferenze sia i popolari e i liberalconservatori di Top 09. Una vera débâcle si registra a sinistra. I socialdemocratici conquistano appena il 7% dei voti. Rispetto a quattro anni fa il principale partito di governo perde il 13% e 40 sui 55 seggi. Anche i comunisti di Kscm scendono fortemente e per la prima volta negli ultimi vent’anni sotto la soglia del 10%.
Alla Camera dei Deputati sederanno nove partiti politici. Ma sarà una composizione da Biancaneve e otto nani. «Nelle elezioni precedenti tra il vincitore delle elezioni e il secondo arrivato c’erano al massimo venti seggi di differenza» sottolinea l’analista Jan Harmann.
Ora la differenza sarà almeno di cinquanta seggi e il movimento Ano 2011 potrà scegliersi il suo partner minore di governo. «Dovremmo incontrare per i primi i socialdemocratici e i popolari» dice Jaroslav Faltynek, vicepresidente del movimento Ano 2011 dando una preferenza per la continuazione dell’attuale maggioranza, seppure a parti invertite.
Durante la campagna elettorale sono fioccati i veti contro Andrej Babiš in virtù di un affaire di truffa di fondi europei. «Andrej Babiš dovrebbe essere nominato premier, visto anche il fatto che ha preso il più alto numero di preferenze nel Paese» ha detto a caldo Faltynek. Anche il presidente della Repubblica Zeman ha annunciato di voler nominare premier il vincitore delle elezioni.
Le elezioni ceche marcano la fine delle teorie, per cui la Repubblica ceca sarebbe la faccia più aperta e presentabile del gruppo di Visegrad. Gli elettori hanno deciso di liquidare i partiti tradizionali che ormai possono sperare solo in un posto dignitoso all’opposizione o in ruolo subordinato al governo. Inoltre, la distanza percepita rispetto all’Europa occidentale ha più o meno la stessa intensità che in Ungheria e in Polonia.
Oltre alla questione dei migranti il Paese si sente escluso dal circuito del benessere dell’Occidente. I cechi si considerano i parenti poveri dell’Occidente pur considerando la loro economia all’altezza di Austria e Germania e, ovviamente, dei Paesi dell’ala meridionale dell’Europa. La questione, per ora aperta, è cosa farà Babiš del potere conquistato.

Corriere 22.10.17
Il successo del miliardario Babis che porta il populismo a Praga  Alle elezioni ceche vince il partito antisistema. Bene Pirati e ultradestra
di Paolo Salom

È miliardario, populista e con grande probabilità guiderà il prossimo governo dopo il trionfo (annunciato) alle elezioni. Il copione si ripete in un’Europa percorsa da nuovi fantasmi, nuove paure. Questa volta è la Repubblica Ceca a spingere il partito antisistema ed euroscettico Ano (Akce Nespokojených Obcanu, Azione dei Cittadini Scontenti) del businessman ed ex ministro delle Finanze Andrej Babis, 63 anni, verso il trionfo.  Con quasi il 30% dei suffragi, la formazione del «Trump ceco» — come è soprannominato — è il primo partito. Al secondo posto, con l’11,3% dei voti, è arrivato invece il Partito Democratico Civico (Ods), di destra e anch’esso critico con l’Ue. Quindi i Pirati fanno il loro debutto in Parlamento con il 10,8%. Quarto — per un’inezia — l’Spd, l’estrema destra xenofoba e antieuropeista dell’imprenditore di origine giapponese Tomio Okamura (10,7%). Quinti i comunisti — anti Ue anche loro — al 7,8%.  Le urne hanno punito i socialdemocratici del premier uscente Bohuslav Sobotka: il suo partito (Cssd) ha ottenuto soltanto il 7,3% dei suffragi quando nel 2013 era oltre il 20. Male anche le altre formazioni che hanno governato la Repubblica centroeuropea in coalizione: tutti sono stati ignorati dagli elettori che hanno promosso alla Camera Bassa di Praga (200 seggi) sopratutto chi ha fatto campagna contro l’Europa e il «pericolo immigrati».  Il risultato uscito dalle urne darebbe alla formazione di Babis 78 deputati, un numero comunque non sufficiente a governare da solo: la maggioranza assoluta si attesta infatti a 101 seggi. Ai conservatori di Ods vanno invece 24 seggi e al Partito pirata 22. Babis ha fatto sapere che dialogherà con tutti. Ma il capo di Ods, Petr Fiala, ha chiarito che non intende far parte di un governo insieme ai populisti del miliardario.  Una mossa per ottenere condizioni — ovvero dicasteri — più favorevoli? In ogni caso, Babis è una figura controversa se non altro per le sue scelte politiche (fino a ieri era al governo con i socialdemocratici filoeuropei) e anche per gli scandali che lo hanno raggiunto. Babis, con una fortuna stimata in 4 miliardi di dollari, è il secondo uomo più ricco del Paese. Di recente il suo nome è emerso in diverse inchieste, incluse accuse di frode, mentre circolano voci secondo le quali il «Trump ceco» — che è nato a Bratislava — sarebbe un ex agente della polizia segreta cecoslovacca dell’era comunista, di quando cioè Cechia e Slovacchia erano una cosa sola.

il manifesto 22.10.17
Kubitschek, «il profeta della nuova destra»
Germania. Editore e giornalista, è ritenuto fautore della rinata cultura identitaria e nazionalista. Legato al movimento degli Identitari e dopo aver avuto qualche rapporto con l’Npd, il principale partito neonazista della Rft, è emerso come uno degli ideologi del movimento anti-islamico Pegida
di Guido Caldiron

Il New York Times, che gli ha dedicato un ampio ritratto nell’ultimo numero del suo magazine lo ha definito «il profeta della nuova destra», mentre lo Spiegel, grazie ad un osservatorio più ravvicinato, lo ha da tempo ribattezzato semplicemente come «il cavaliere nero».
Quel che è certo è che Götz Kubitschek, 47 anni, ex ufficiale di un corpo di ricognizione della Bundeswehr, l’esercito tedesco, da cui è stato cacciato proprio a causa del suo impegno al fianco dei gruppi estremisti, è considerato in maniera unanime come uno dei maggiori protagonisti della nuova cultura nazionalista e identitaria che alimenta i successi crescenti dell’Alternative für Deutschland come il tentativo di costruire dei ponti tra la destra radicale e il mondo conservatore.
Giornalista ed editore, è stata la casa editrice che ha fondato e dirige insieme alla moglie, la scrittrice Ellen Kositza, autrice di pamphlet «anti-femministi», la Antaios, a scatenare aspre polemiche e contestazioni, invitando alla recente Buchmesse di Francoforte l’esponente dell’AfD Björn Höcke, balzato agli onori della cronaca per aver definito un «monumento alla vergogna» il memoriale della Shoah di Berlino, Kubitschek ha fatto a lungo parte della redazione di Junge Freiheit, il principale settimanale della nuova destra tedesca che ha fatto conoscere nel paese le tesi di Alain de Benoist e il cosiddetto «etno-differenzialismo» con cui questi ambienti hanno cercato di camuffare il vecchio razzismo di stampo fascista.
Da questa esperienza, nella quale convergevano rimandi agli intellettuali della cosiddetta Rivoluzione Conservatrice, che anticipò nazionalsocialismo, ma anche al revisionismo storico di Ernst Nolte, Kubitschek ha preso avvio per dare vita negli ultimi anni alla rivista Sezession e all’Institut für Staatspolitik, l’Istituto per la politica statale, vagamente ispirato all’opera di Carl Schmitt, che cerca di accreditarsi come un think tank nazionalista, immaginando di poter competere in futuro con il blasonato Studienzentrum Weikersheim, il centro-studi conservatore, vicino all’ala destra del blocco Cdu/Csu.
I reali obiettivi dell’impresa, annunciata come «un percorso di ricostruzione dalla cultura nazionale tedesca annichilita da decenni di colpevolizzazione e rinuncia all’orgoglio», sono in realtà più direttamente politici che intellettuali.
Insieme ad un pugno di altri giornalisti, scrittori e studiosi, come Marc Jongen, nativo di Merano, che prima di essere eletto recentemente al Bundestag per l’Afd è stato assistente del filosofo Peter Sloterdijk, Kubitschek sta cercando di trasformare l’auspicato risveglio nazionale in consensi politici per la nuova destra.
Legato al movimento degli Identitari e dopo aver avuto qualche rapporto con l’Npd, il principale partito neonazista della Rft, e i Republikaner, oggi pressoché scomparsi, l’ex militare è infatti emerso come uno degli ideologi del movimento anti-islamico Pegida. Ha diviso il palco a Dresda con il leader dell’estrema destra olandese Wilders e nel 2015 ha partecipato alla grande manifestazione della Lega Nord in piazza del Popolo a Roma proprio come rappresentante di Pegida.
In seguito si è avvicinato sempre di più all’Afd, si dice sia stato uno degli artefici della svolta in senso radicale assunta dal partito negli ultimi anni, ed una figura molto ascoltata dai suoi leader specie nell’est del paese. Zona dove lui stesso vive in una fattoria della Sassonia-Anhalt in cui l’Afd è il partito di maggioranza relativa.

il manifesto 22.10.17
La crescente deriva xenofoba del Partito popolare europeo
Ultranazionalismi. Dopo la recente vittoria di Kurz in Austria, il baricentro dei popolari si sposta sempre più a destra. Normalizzazione degli estremisti di destra e del discorso razzista e le ripetute aperture di credito del mondo conservatore verso questi ambienti ha fatto sì che i partiti conservatori ne hanno di fatto sposato i programmi
di Guido Caldiron

Quando, nell’autunno del 2000 l’allora cancelliere Schüssel, esponente del Partito Popolare aprì la strada del governo di Vienna ai liberal-nazionali dell’Fpö di Haider spiegò che per quella via si sarebbe neutralizzata la spinta della nuova destra.
La recente affermazione elettorale di Sebastian Kurz, tra gli eredi di Schüssel alla guida dei democristiani, segnata dal recupero delle parole d’ordine degli ultranazionalisti su migranti, Islam e Europa, indica come sia avvenuto esattamente il contrario.
Da un lato la progressiva «normalizzazione» degli estremisti di destra e del discorso razzista nel dibattito pubblico, accompagnata dall’acquisizione costante di temi securitari e identitari – deriva da cui non è esente anche una parte del centro-sinistra -, ha finito per legittimare tali partiti.
Dall’altro, le ripetute aperture di credito del mondo conservatore verso questi ambienti e il prendere corpo di un’inedita area di «destra della destra» dove presunti moderati e estremisti conclamati intrecciano scambi, relazioni, progetti, si è tradotto in un significativo spostamento verso destra dello stesso «centro».
Al punto che al termine del ciclo elettorale del 2017 si può rilevare come la temuta affermazione dei «populisti di destra» sia spesso stata evitata ma al prezzo di veder trionfare partiti conservatori che ne hanno di fatto sposato i programmi.
Così, se all’inizio del nuovo millennio il varo della coalizione Schüssel-Haider faceva seguito a quanto accaduto nel laboratorio italiano della «destra plurale», formatasi sotto l’egida di Silvio Berlusconi fin dagli anni Novanta, cui il Ppe ha ribadito del resto il proprio sostegno nel vertice che si è svolto giovedi a Bruxelles, oggi il profilo e la strategia di Sebastian Kurz, che si appresta a governare con l’estrema destra e ad applicarne in gran parte le odiose ricette, rappresentano tutt’altro che un’eccezione.
Appartengono infatti al Partito popolare europeo sia il movimento Fidesz dell’ungherese Viktor Orbán, fautore della «democrazia illiberale», che il Partito conservatore norvegese di Erna Solberg che ha appena rinnovato il proprio patto di governo con il Fremskrittpartiet, movimento nazionalista e anti-immigrati a cui era iscritto lo stragista di Oslo, Anders Behring Breivik.
Del resto, proprio in Scandinavia, per 10 degli ultimi 16 anni, l’esecutivo di centrodestra danese guidato dai liberali, che governano ancora a Copenhagen, ha vissuto solo grazie all’appoggio esterno del Partito del popolo, già alleato del Front National francese, che ha imposto una drastica stretta in materia di immigrazione e diritto d’asilo.
Liberal-conservatore è inoltre anche l’olandese Mark Rutte, riconfermato primo ministro, che ha fermato gli islamofobi di Geert Wilders, legati a Le Pen, ma grazie ad una campagna elettorale talmente ispirata alla xenofobia da far parlare Amnesty di «retorica tossica».
E alla famiglia liberale appartiene anche l’Azione dei Cittadini Insoddisfatti, Ano 2011, il movimento populista guidato dal miliardario Andrej Babiš, soprannominato dalla stampa locale «Babisconi» per le similitudini con il fondatore di Forza Italia, che i sondaggi indicano come probabile vincitore delle elezioni in corso nella Repubblica Ceca.
In Francia, dove alcuni politologi hanno paragonato Kurz a Nicolas Sarkozy, che ha inseguito a lungo l’estrema destra, il probabile nuovo leader dei Républicains, anch’essi nel Ppe, Laurent Wauquiez, ha spiegato di volere «una destra che sia veramente di destra: patriottica e contro immigrazione e islamismo».
Quando poi la concorrenza sui medesimi contenuti non è sufficiente, il centrodestra rischia di dividersi proprio sull’adozione o meno di politiche in linea con gli estremisti.
Come ha indicato la Brexit, che ha spaccato i Conservatori britannici, per altro già partner in Europa dei nazional-cattolici polacchi di Diritto e giustizia che governano a Varsavia dal 2015, o lo stesso caso dell’Alternative für Deutschland che raccoglie anche i consensi dei neonazisti ma è guidata da ex esponenti della Cdu di Angela Merkel, partito da cui provengono anche metà dei circa 6 milioni di voti che ha raccolto di recente.

il manifesto 22.10.17
Pablo Neruda non è morto a causa di un cancro
Dopo quattro anni di indagini, un'equipe di esperti ribalta la tesi ufficiale che ha attribuito le cause della morte del premio Nobel a un tumore; sarebbe invece stata una tossina; riemerge così l'ipotesi dell'omocidio politico
di Alessandra Pigliaru

Era il 23 settembre del 1973 quando Pablo Neruda morì nella clinica Santa Maria di Santiago del Cile. Il bollettino medico ne dichiarò il decesso fornendo come causa la degenerazione di un tumore. Grazie a un’equipe internazionale di esperti, oggi si può invece escludere che il poeta sia defunto per una malattia neoplastica. Questo non significa si possa confermare l’omicidio politico, come hanno sempre sostenuto il Partito comunista e l’assistente personale del Nobel, Manuel Araya. Tuttavia il patologo Aurelio Luna – figura centrale del gruppo di esperti – ha indicato, senza tema di smentita, l’individuazione di una tossina nelle ossa dello scrittore.
Si riaprono così le discussioni sulla morte avvenuta non per cause naturali ma per avvelenamento e si rimettono in gioco le controverse, seppure assai plausibili, accuse che in questi decenni sono provenute dalla famiglia di Neruda (nonostante Matilde Urrutia, sua terza e ultima moglie, non parlò mai di veleno ma escluse si potesse trattare di cancro). Le date intorno a cui il poeta scomparve da questa terra, e la sua adorata Isla Negra (dove dal 1992 è seppellito insieme a Matilde), concorrono certo a una seria presa in carico delle dinamiche effettive, senza facili complottismi: muore infatti 12 giorni dopo il golpe di Augusto Pinochet di cui era un acerrimo oppositore, e poco prima di partire in esilio in Messico, luogo da cui avrebbe certo potuto inasprire la sua già radicale avversione verso lo scellerato regime argentino. Desiderarne la sparizione non sarebbe stato poi così assurdo.
La svolta decisiva per ricostruire quanto avvenne è stata avviata 4 anni fa quando il giudice Mario Carroza autorizzò l’apertura delle indagini e la riesumazione del corpo. Nonostante il deperimento dei tessuti, soprattutto quelli molli, fosse in un legittimo stato di avanzata decomposizione, il gruppo di esperti ha potuto isolare la tossina di cui verrà ulteriormente interrogato il ceppo e le sue componenti entro un anno, tempo che gli scienziati si sono riservati per dare l’esito definitivo sull’avvelenamento o meno.
Se fosse così, oltre a non destare alcuno stupore, si potrebbe annoverare come ulteriore barbarie ordinata da un regime tra i più feroci che il Novecento abbia conosciuto. E inferta a un testimone tra i più lucidi che il Cile abbia conosciuto. «Ho vissuto tanto che un giorno dovrete per forza dimenticarmi – scriveva con placida veggenza Neruda – cancellarmi dalla lavagna: il mio cuore è stato interminabile».

Il Fatto 22.10.17
Facce da Weinstein: adesso per gli Usa i sessisti saremmo noi
“Asia scappa dall’Italia” - NYT, Vanity & C: ci accusano di aver attaccato l’attrice che ha denunciato 20 anni dopo i fatti il produttore porco
di Selvaggia Lucarelli

Facciamo che però adesso la facciamo finita con le leggende metropolitane sul caso Argento, eh? Facciamo che con questa manfrina che siamo un paese misogino (vero, ma non sarà questo caso a scoperchiare la pentola), che abbiamo umiliato e costretto Asia Argento a fuggire a Berlino perché lei ha denunciato e noi siamo tutti ultrà di Weinstein, ora la smettiamo. Facciamo che con le ramanzine dei giornali americani all’Italia che colpevolizza la Argento la chiudiamo per sempre. Cazzate. Sonore, roboanti cazzate, buone solo a farci del male e a partorire titoli a effetto, in cui pare che il paese si divida tra quelli che “Asia Argento ha fatto bene a denunciare” e “Asia Argento è una puttana che se l’è cercata”. Balle.
Partiamo da qui. Open Democracy, Qz, Vanity Fair, Mashable, New York Times, Slate e altre numerose testate americane hanno pubblicato articoli (spesso scritti da italiani ahimè) da titoli tipo “Nel fare a pezzi Asia Argento l’Italia sta mostrando la sua profonda natura misogina” (Quarz), “Asia Argento scappa dall’Italia dopo che l’opinione pubblica l’ha condannata per la denuncia” (Nyt) o “I giornali italiani hanno fatto così tanto slut shaming (mortificazione della puttana) su Asia Argento che lei sta lasciando l’Italia” (Mashable). Ora. A parte che anche a voler sostenere che gli italiani siano dei laidi sessisti, io vorrei ricordare agli americani che Weinstein lo stupratore è americano ed era uno degli uomini più potenti del paese idolatrato da attori e registi americani complici silenziosi. Va poi rammentato ai giornalisti americani senza macchia che i LORO giornalisti sapevano di Weinstein e della sua mano più veloce di quella dei pistoleri di Tarantino (che ora fa mea culpa) e hanno taciuto per decenni. Insabbiato reportage. Infilato nel tritacarta articoli che avrebbero chiuso per sempre la cerniera a Mr Weinstein. Ergo, le lezioni di moralità o di giornalismo da loro, in questo contesto, le rispedirei al mittente come certe avance non richieste.
In più, e forse questo è l’aspetto più grave, loro e pure tanti giornalisti italiani che parlano di linciaggio e di una fuga della Argento da un paese misogino, parlano di fuffa. Cazzate. Ripeto, cazzate. Vediamo i dati. La stampa italiana ha sostenuto in massa Asia Argento. Credo non ci siano precedenti nella storia di una discesa in campo a favore di qualcuno come nel caso di Asia. Eppure di povere signorine nessuno che denunciano stupri nell’indifferenza generale ce ne sono eh. Per lei si sono scomodate le firme più prestigiose del paese, intellettuali, editorialisti, scrittori, uomini e femministe della prima ora, nonché conduttori televisivi, registi e politici. Qualche esempio? La scrittrice Michela Murgia, la scrittrice Teresa Ciabatti, il direttore editoriale Condè Nast Luca Dini su Vanity Fair, l’ex ministro Emma Bonino, la presidente della Camera Laura Boldrini, la cantante Fiorella Mannoia, la regista Lina Wertmuller, Daniela Fedi de Il Giornale, la giornalista Giulia Innocenzi, il regista Giovanni Veronesi, il comico Maurizio Crozza, Irene Graziosi su Vice, vari blogger e giornalisti su Huffinghton Post, altri tre giornalisti sempre su Vice, Paolo Armelli su Wired, Massimo Gramellini, Giusi Fasano, Beatrice Montini e altri giornalisti sul Corriere della sera, Gianmaria Tammaro su La Stampa, Daria Bignardi su Vanity Fair, Bianca Berlinguer che l’ha intervistata a Carta Bianca, ma ci sono altre centinaia di articoli su tutte le testate grandi e piccole che è impossibile riportare per intero. Tutti a favore di Asia Argento. Se parliamo di web poi, c’è stato l’hashtag #quellavoltache ideato dalla scrittrice Giulia Blasi a supporto della Argento e dell’importanza di denunciare la violenza, che non solo ha generato 6700 tweet, 14 000 retweet e una viralità mondiale, ma è stato argomento di editoriali su web e carta. Su twitter i messaggi a favore della Argento sono stati la maggioranza, sia da parte di comuni mortali che di personaggi illustri, e chi ha provato ad esprimere anche solo perplessità sul caso è stato censurato, dileggiato e ricoperto di insulti.
Ecco. Tutto questo sembra non contare nulla. Parliamo allora di questa Italia misogina che invece ha fatto scappare la Argento in terre più giuste ed accoglienti. Quella che suggerisce fughe, giudizi e titoloni. Il giornale Libero, è vero, si è espresso con volgarità sulla questione. Solo che stiamo parlando di Libero. Non lo prendono seriamente gli italiani Libero, mi stupisce che lo ritengano rappresentativo del nostro giornalismo gli americani. L’unico Feltri lucido ormai è quello di Crozza. Poi c’è la Aspesi, ma qui la faccenda si fa delicata perché è vero che ha espresso delle perplessità sulla Argento ma è pure una delle femministe storiche del paese, quindi definirla sessista o misogina è un po’ azzardato. Poi chi sarebbero gli altri altissimi rappresentanti del giornalismo italiano che hanno criticato la Argento? Nessuno, a meno che non si considerino Adinolfi e Cruciani gli eredi di Montanelli.
Ah già, poi ci sono i vip. La conduttrice Rossella Brescia, per aver scritto “Oh, sarò racchia, ma con me non ci ha mai provato nessuno”, è stata insultata per due giorni sui social e alla fine Facebook le ha rimosso pure il post. In pratica non è neppure legittimo avere un’idea che non sia “Beatifichiamo Asia Argento”. Vladimir Luxuria ha detto che alle molestie ci si può ribellare ed è stata accusata di misoginia. Lei che da uomo ha desiderato diventare donna. Ah, poi ci sono io che avrei osato dire sulla mia bacheca facebook (neanche sul mio giornale) che “io credo al racconto di Asia Argento ma per me le eroine sono quelle che dicono NO e diventano invisibili perché non hanno più fatto carriera al cinema o in qualche ufficio”. Apriti cielo. Per questo sono stata ricoperta di insulti (pure da parte della Argento che su twitter mi ha dato della “analfabeta e tirapiedi”) e citata da articoli italiani e americani in quanto compagna di merende di Feltri, Adinolfi e dei tantissimi misogini italiani. Roba che dall’Italia dovrei scappare io anche solo per l’accostamento.
Ah, poi certo, ci sono “gli hater”. Peccato che quelli ci siano sempre. Pure se scrivo “Hey, che bel sole oggi!”, ci sono gli hater a dirmi “Hey, cos’hai contro la luna, stronza?”. C’è stata una minoranza (una grossa minoranza) che ha scritto che Asia Argento è una puttana, è vero, ma lo scrivono anche di me tutti i giorni. Io non penso che loro siano IL PAESE. Penso che siano una minima parte del paese che però fa danni enormi. Tipo essere elevata dalla stampa a “opinione pubblica italiana”, come in questo caso. Non è vero. L’hashtag #ioNONstoconasia non è esistito. È esistito invece il tormentone “Basta victim blaming!”, roba che gli italiani fino a ieri manco sapevano cosa volesse dire. Vuole dire “colpevolizzare la vittima”. Ecco, facciamo che se qualche sparuto fesso ha fatto victim blaming, in tanti, troppi (sia americani che connazionali) hanno fatto “journalist blaming”. Hanno colpevolizzato i giornalisti italiani, per distogliere l’attenzione da un fatto incontrovertibile: colei che ha denunciato Weinstein è italiana, il giornalismo italiano l’ha sostenuta, l’opinione pubblica pure e per una volta non abbiamo fatto figure di merda.

Il Fatto 22.10.17
Anche Report lancia l’appello alla Rai per Milena Gabanelli
“Credo che la Rai sia in debito con Milena Gabanelli”, ha detto il capostruttura di Rai 3, Anna Maria Catricalà, durante la conferenza stampa per la presentazione della nuova stagione di Report, il programma di giornalismo investigativo che Milena Gabanelli ha condotto per 20 anni fino al 2016. La conferenza è invece diventata l’occasione per un appello alla Rai perché non rinunci alla professionalità della giornalista. “Il merito del successo duraturo di Report – ha commentato Catricalà – è nella squadra che Milena Gabanelli ha saputo creare”. Alla giornalista, dopo l’addio al programma, era stata offerta la vicedirezione di una testata, e non la guida dell’informazione online della Rai come promesso, e per questo Milena Gabanelli si è messa in aspettativa non retribuita. “A 10 giorni dalla fine della sua aspettativa – prosegue Catricalà – auspico quindi che la Rai sappia dare delle risposte per non perdere una grandissima professionista”. All’appello rivolto alla Rai in sostegno di Milena Gabanelli si sono subito associati l’attuale conduttore Sigfrido Ranucci e gli altri autori di Report, insieme al direttore di Rai3 Stefano Coletta.

il manifesto 22.10.17
Comunisti alla riscossa in Giappone
Oggi si vota. Dopo il successo a Tokyo, il Partito ha la chance di guidare l’opposizione. Con la mano tesa agli epurati democratici e ai movimenti di sinistra
di Stefano Lippiello

Per il Partito comunista giapponese quella in corso è una campagna elettorale storica. Sul Partito grava la responsabilità di reggere la bandiera della sinistra giapponese dopo la dissoluzione del Partito democratico, che era stato fino ad ora la principale forza di opposizione del paese.
Pochi giorni dopo lo scioglimento della camera bassa è arrivato l’annuncio da parte della governatrice di Tokyo, Yuriko Koike, della formazione di un suo Partito della speranza. Seiji Maehara, il capo del Partito democratico, è saltato sul carro, finora vincente, della governatrice portandosi dietro i deputati a lei graditi e le cospicue casse del partito. Fuori, invece, sono restati tutti i candidati giudicati troppo a sinistra dalla governatrice.
IL CONGRESSO del Partito democratico a inizio settembre è stata la premessa di questo cambiamento di rotta. Maehara – oppositore dell’alleanza con i comunisti – si era imposto su Yukio Edano, tra i fautori del fronte unito delle opposizioni.
Dopo la dissoluzione del Pd, il Partito comunista ha scelto di sostenere i candidati rifiutati da Koike nei collegi uninominali, portando così avanti la politica di unità delle opposizioni e dei movimenti.
Il fronte comune è frutto anche del paziente e pragmatico lavoro degli ultimi anni dell’Alleanza Civica per la pace e il costituzionalismo, un gruppo di associazioni e movimenti che punta proprio ad allargare la partecipazione elettorale e ad avvicinare i partiti di sinistra in una piattaforma comune.
Per i leader dell’Alleanza il ruolo dell’astensionismo, da anni vicino al 50%, sarebbe stato determinante nelle vittorie del Partito liberaldemocratico dal 2012 in poi.
LA RISCOSSA DEGLI EPURATI del Pd è partita da Twitter. Edano, il punto di riferimento della sinistra liberale, è stato abbandonato dal partito, ma non dagli elettori e ha avuto in breve tempo più sostenitori sul social media del partito stesso.
Ha scelto così di raggruppare le forze della sinistra liberale nel nuovo Partito democratico costituzionale, al quale anche l’Alleanza civica e la Rengo (la principale federazione sindacale giapponese) hanno dato il proprio supporto.
Sul campo la collaborazione procede, però, a macchia di leopardo.
Troppo profonde sarebbero le differenze, e soprattutto le diffidenze, in certi distretti. Infatti, non in tutti i collegi uninominali è riuscita la presentazione di un candidato unico.
Al centro la leader del Partito della Speranza e governatrice di Tokyo, Yuriko Koike
Al centro la leader del Partito della Speranza e governatrice di Tokyo, Yuriko Koike
Raccontano degli attivisti di ritorno da un incontro tra le due liste nella periferia di Osaka che l’atmosfera dell’incontro però era molto buona e al momento gli sguardi sono più che altro puntati sulla possibile collaborazione di lungo periodo. Questo è soprattutto dovuto ai tempi ristretti di queste elezioni anticipate, spiegano. Il Partito democratico costituzionale è nato così in fretta da non aver avuto un vero dibattito interno.
Lo studioso di politica giapponese Shirai Satoshi spiega che la diffidenza verso i comunisti è un fattore determinante per molti appartenenti alla sinistra liberale. Questo sarebbe dovuto in primo luogo al supporto della Rengo per il Partito democratico costituzionale in queste elezioni.
La Rengo è in netta opposizione ai sindacati comunisti su molte scelte di fondo. Questo conflitto, continua Shirai, affonda a sua volta le sue radici nella storica competizione tra il Partito comunista giapponese e il Partito socialista (entrato poi nel Pd) per l’egemonia a sinistra.
Se gli anni più duri del conflitto sono ormai alle spalle, resta nella mente di molti dirigenti un ostacolo a una sincera collaborazione.
QUESTA DIVERGENZA ha altre ripercussioni concrete. Una delle questioni politiche più pressanti, ma meno dibattute in campagna elettorale, è posta dalla politica nucleare della Corea del Nord. Nel dibattito interno ciò si allaccia alla riforma della clausola di pace della costituzione, con la quale il Giappone rinuncia alla guerra.
Il Partito liberaldemocratico del premier Shinzo Abe ne vuole la revisione, mentre il Partito comunista la difende, ma vorrebbe la fine del trattato militare con gli Stati uniti.
Per Shirai questo sarà il terreno su cui il fronte comune con il nuovo Partito democratico costituzionale – difensore della clausola di pace, ma più ambiguo sull’alleanza con gli Usa – vedrà la sua prova maggiore, in particolare sulla questione della nuova base americana a Okinawa, che incontra una forte resistenza locale.
IL MOTTO DEL PARTITO comunista al congresso di gennaio era stato di trasformare le «tre ondate di avanzamento» in una «corrente in piena», riferimento questo all’aumento progressivo di voti ottenuto nelle tre passate elezioni.
Poi è arrivata l’estate con il successo oltre le aspettative nella città di Tokyo e ora la chance di guidare l’opposizione con la mano tesa agli alleati. La marea sembra montante.

Corriere 22.10.17
Caporetto
Intervista al generale Graziano, capo delle forze armate
«Fu una sconfitta, non una disfatta
Lo sbaglio del comandante Cadorna è stato quello di incolpare i suoi soldati»
di Aldo Cazzullo


Generale Graziano, lei comanda le forze armate italiane. Che cent’anni fa, a Caporetto, vissero la loro disfatta più terribile.
«Non fu una disfatta. L’8 settembre fu una disfatta».
E Caporetto?
«Fu una gravissima sconfitta. Che portò alla vittoria. Senza Caporetto non ci sarebbe stata Vittorio Veneto. L’esercito si riprese. Accadde una cosa mai accaduta, né prima né dopo: il Paese intero scese in guerra. E, brutto a dirsi, cominciammo a odiare il nemico. Capimmo che era in gioco la sopravvivenza dell’Italia. Fu la nascita, o la rinascita, della nazione».
Com’è stato possibile il crollo?
«C’erano i tedeschi. Le forze imperiali germaniche furono fondamentali nello sfondamento. Due mesi prima sulla Bainsizza eravamo andati vicini a vincere la guerra, anche se non ce n’eravamo accorti. Alla spallata successiva l’Austria sarebbe crollata; per questo chiese aiuto alla Germania».
Quale fu la responsabilità di Cadorna?
«Il comandante in capo è sempre il primo responsabile; anche se Capello, il comandante della seconda Armata, non mise in atto tutte le prescrizioni. C’era stata una regressione nella qualità di comando. Mancò il controllo dell’artiglieria».
Come mai i cannoni di Badoglio tacquero?
«La commissione d’inchiesta fu severa con tutti tranne lui, che al fianco di Diaz stava riorganizzando l’esercito. Ma a Caporetto sbagliò: non riuscì a far arrivare l’ordine di aprire il fuoco, e i suoi ufficiali non avevano l’autonomia che avevano i pari grado tedeschi».
Quali sono le altre cause di Caporetto?
«Venne usato il gas. Non vi fu la percezione del disastro: era una giornata di nebbia e pioggia. Le prime linee combatterono. Poi le retrovie crollarono. La stanchezza per due anni e mezzo di “inutile strage”, la propaganda disfattista, gli effetti della rivoluzione russa: queste percezioni filtravano. Purtroppo Cadorna non colse quella stanchezza morale».
I soldati andavano all’assalto piangendo.
«Sull’Ortigara si comprese che era finita la fase eroica delle prime battaglie. I fanti andavano alla morte rassegnati. Eppure continuavano ad attaccare, con un’abnegazione ammirata più dai nemici che dagli alleati, come i francesi, che continuavano a criticarci».
Ci sono troppe vie dedicate a Cadorna?
«Cent’anni dopo non si può mettere in discussione la memoria. Ho studiato la personalità di Cadorna alla Scuola di guerra americana. Era un uomo rigido, con problemi di comunicazione e poca capacità di empatia. Ed era un comandante vigoroso, che seppe gestire due momenti fondamentali: fermò la spedizione punitiva sugli altopiani, e preparò le linee sul Piave e sul Grappa, dando sia pure in ritardo gli ordini che hanno permesso di salvare il Paese. L’elemento negativo fu la tentazione iniziale di dare la colpa di Caporetto ai soldati. Questo un capo non può farlo. Mai. I soldati caduti o che stanno combattendo li devi sostenere. Rimpiazzare chi ha ceduto, ricreare il morale. Purtroppo il generale delle battaglie non ha mai saputo diventare il generale della vittoria».
È giusto riabilitare i fucilati?
«Nessun Paese l’ha fatto. Gli inglesi hanno decretato il “perdono collettivo”, e questa mi sembra una via condivisibile. All’epoca il senso della vittoria prevaleva su altri sentimenti; il codice militare risaliva all’800 ed era molto rigido; ci furono eccessi nell’applicazione della pena di morte. Nei momenti di crisi c’era l’esigenza di mantenere la solidità dell’esercito».
Ci furono fucilazioni di massa.
«Infatti è giusto distinguere tra i processi celebrati regolarmente, dove non ci può essere revisione di giudizio, e le esecuzioni sommarie. Tra chi ha commesso il fatto rischiando di mettere a rischio la stabilità del fronte, e le vittime delle decimazioni. Tra chi ha combattuto e chi è fuggito. I friulani e i veneti delle terre occupate videro soldati battersi per proteggerli e altri ritirarsi. Oggi noi dobbiamo riconoscere il giusto merito ai valorosi, e pensare con pietà a tutti i caduti. Una forma di rispetto nazionale».
Ma quella guerra era meglio non farla.
«Non potevamo non farla. Tutti i Paesi europei, le potenze ma anche gli Stati balcanici, stavano combattendo. E noi non eravamo isolati come la Spagna. Prima o poi saremmo stati coinvolti».
Come spiega la rinascita sul Piave?
«Tutto accade in pochi giorni. La linea tiene sul Grappa. Il 16 novembre nella battaglia di Fagaré entrano in linea i ragazzi del ’99, accanto ai fanti della Terza Armata ritiratisi dal Carso. Quella prima vittoria fu un raggio di luce nel momento della disperazione. A dicembre la grande battaglia d’arresto sul Piave era vinta. I tedeschi ritirarono i loro contingenti».
Come fu possibile?
«I fanti compresero che la sconfitta non avrebbe portato la pace, ma la disgregazione nazionale. Realizzarono che non c’era altra via che resistere e vincere. Combattevano per salvare le loro famiglie e il Paese. Fu anche merito del vecchio capo, che aveva costruito linee e riserve. E poi per la prima e unica volta nella storia l’esercito ebbe dietro tutto il Paese. Comincia la guerra totale, animata da una totale volontà di vittoria. Le fabbriche costruiscono più aeroplani nell’anno tra Caporetto e Vittorio Veneto che in tutta la seconda guerra mondiale. Le donne dimostrano di saper fare gli stessi lavori degli uomini, magari meglio. Si impongono regole militari anche ai civili. E si sviluppano l’odio e l’aggressività verso il nemico».
Fino a quel momento non odiavamo gli austriaci?
«No, tranne alcuni di noi. I bergamaschi, intrisi di cultura risorgimentale e garibaldina. I valdostani, considerati i soldati perfetti: rudi montanari e cacciatori, da sempre erano la guardia dei Savoia, combattevano gli austriaci da sei generazioni. Infatti bergamaschi e valdostani ebbero la più alta percentuale di caduti. Tutto cambia di fronte allo stupro del Friuli, all’occupazione, alla violenza contro i civili».
Nella seconda guerra mondiale l’Italia non ritrovò quello spirito.
«No. L’Italia entrò in guerra convinta che fosse già finita, senza capirla, senza sapere quel che stava facendo. Poi arrivò l’8 settembre. Badoglio, che si era battuto bene sul Sabotino, sul Piave, in Etiopia, concluse male la sua lunga carriera, lasciando le truppe senza ordini. Quello sì fu un disastro senza rimedio. Ci sono voluti decenni all’esercito per riprendersi».
Quale fu la svolta?
«Libano 1982. Le forze armate italiane, già apprezzate per l’intervento dopo il Vajont, il Friuli, l’Irpinia, tornano a svolgere il compito fondamentale: impugnare le armi per la sicurezza internazionale. Poi vengono il Mozambico, la Somalia, i Balcani, l’Afghanistan, l’Iraq. C’è il riconoscimento identitario delle forze armate come un lavoro importante, che dà prestigio al Paese. Si abolisce la leva perché gli italiani non vogliono più pagarne il prezzo sociale, e anche perché le missioni di pace richiedono militari professionisti».
Anche questo è brutto a dirsi, ma i soldati italiani hanno ripreso a morire.
«Hanno dimostrato che sono pronti a dare la vita per la patria. Da loro viene un fortissimo messaggio etico e di forza morale: ci si mette al servizio di altri Paesi, e dei compatrioti con l’operazione Strade sicure».
Come mai finora il terrorismo non ha colpito l’Italia?
«Nessuno è al riparo. L’Italia sa far cooperare Esteri, Interni, Difesa, servizi. Lavoriamo sulla sicurezza interna e sulla difesa avanzata in Iraq, Afghanistan, Medio Oriente. Il terrorismo è sempre esistito. Ora è più pericoloso a causa del fondamentalismo islamico, della disgregazione di Stati come Siria e Libia, dell’emigrazione senza controllo».
Teme che i «foreign fighter» sconfitti a Mosul e a Racca possano tornare in Europa nascondendosi tra i migranti?
«I migranti non sono terroristi, sono vittime dei trafficanti. Ma questi irriducibili esistono. Li dobbiamo individuare e bloccare, con l’aiuto dell’intelligence internazionale».
Lei due anni fa disse al «Corriere» che fermare gli scafisti non era impossibile.
«Lo confermo. Quel che non si può fermare è la migrazione. Nella storia nessuna migrazione è mai stata fermata. Si può limitare, governare, è una questione epocale, che ci accompagnerà per anni».
Qual è il ruolo dell’Italia in Libia?
«Stiamo aiutando i libici perché ce l’hanno chiesto. Contribuiamo a costruire organismi di sicurezza. Siamo nell’operazione “Mare sicuro” per proteggere le linee di comunicazione. Abbiamo la guida di “Sofia”, l’operazione internazionale contro i trafficanti che coinvolge unità navali spagnole, tedesche, irlandesi, olandesi. Addestriamo la guardia costiera libica. La Tremiti è nel porto di Tripoli. Abbiamo un ospedale a Misurata per curare i feriti negli scontri con Daesh e formare i medici libici».
Quando torneremo dall’Afghanistan?
«Stabilizzare i Paesi è un lavoro lungo. Siamo in Kosovo da quasi vent’anni. Il Libano, dove siamo dal 2007, adesso è relativamente stabile. In Afghanistan abbiamo 900 uomini, il secondo contingente dopo gli americani. Nel 2005-2006 ero comandante di brigata, l’esercito afghano aveva poche migliaia di soldati, male armati e male equipaggiati: ora sono centinaia di migliaia, ma si battono in un’area dove agiscono l’Isis, i talebani, i trafficanti droga. Non è il momento per abbandonare l’Afghanistan».


Corriere 22.10.17
La lingua del popolo
Siena celebra la pittura di Lorenzetti
di Francesca Bonazzoli

All’inizio del Trecento, nella Siena ghibellina, si parlavano due linguaggi artistici: il greco e il gotico, perfettamente distinguibili nelle due «Vergini in maestà» commissionate rispettivamente per il Duomo e il Palazzo Comunale. Una era la lingua aulica delle élite, ereditata da Bisanzio; la seconda era quella alla moda nelle corti del nord Europa degli ideali cavallereschi. Il campione del greco era Duccio da Buoninsegna che nel 1311 aveva terminato la sua Maestà così grande e dorata da sembrare un’iconostasi. Solo quattro anni più tardi, nel 1315, toccò al cavaliere del gotico, Simone Martini, il compito di riequilibrare il potere religioso di quell’immagine con un’altrettanto magnifica Maestà affrescata nello spazio laico del Palazzo Pubblico. Intanto, però, tutt’intorno a Siena, da Pisa a Firenze ad Assisi, si sentiva parlare un nuovo idioma: il «volgare» che Giotto andava diffondendo sostenuto da intellettuali come Dante.
Anche nell’arte stava avvenendo la prima grandiosa affermazione della lingua del «sì» e Siena doveva trovare i suoi bardi. I fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti svolsero proprio questo compito: scrivere in volgare testi originali che costituissero il peculiare contributo senese allo stile moderno. Né greci, né gotici, né fiorentini. Della vita dei Lorenzetti sappiamo poco. Pietro era il maggiore e lo vediamo documentato dal 1306 mentre le prime testimonianze su Ambrogio risalgono al 1319. Il decesso, invece, viene fissato per entrambi al 1348, l’anno della «morte nera», la famigerata epidemia europea di peste che quasi dimezzò gli abitanti di Firenze e Siena. Gli storici hanno fatto fatica a mettere a fuoco vicende biografiche, catalogo e addirittura ad attribuire a ciascuno dei fratelli una fisionomia autonoma. Di Ambrogio non esiste ancora un’aggiornata monografia scientifica e dunque la convocazione a Siena (che conserva circa il 70% delle sue opere) della quasi totalità di quelle disperse nei musei del mondo, assieme alle ricerche e ai restauri fatti in occasione di questa mostra, è un’occasione speciale. La lacuna storiografica comincia già con Lorenzo Ghiberti, lo scultore fiorentino che nei suoi Commentari considera Ambrogio, accanto a Giotto, il più grande artista del Trecento, pittore «singularissimo», del quale difende anche la primazia su Simone Martini.
Pietro, invece, viene completamente ignorato tanto che Vasari non riuscirà nemmeno più a collegare la parentela tra il «Pietro Laurati per tutta Toscana chiamato e carezzato» e il fratello minore trasformato ormai in un pittore gentiluomo. Così lo tratteggiò Vasari: «Furono i costumi d’Ambruogio in tutte le parti lodevoli e più tosto di gentiluomo e di filosofo che di artefice». A consacrarne la fama di dotto furono senz’altro le allegorie del Cattivo e del Buon Governo affrescate nel Palazzo Pubblico di Siena, considerate anche da Giulio Carlo Argan, nella sequenza della storia dell’arte italiana, «la prima opera civile, con un contenuto non più soltanto religioso ma filosofico e politico». Quel gran paesaggio dell’ ager senensis è infatti niente meno che l’illustrazione della concezione del mondo della società comunale dove l’ordine delle città serrate nelle mura si estende al contado con i campi squadrati, i filari allineati, le colline. Ambrogio fu il regista di questa narrazione voluta dal governo di straordinaria durata chiamato dei Nove (dal 1287 al 1355), un regime filopapale di mercanti, che chiese di essere rappresentato come orgoglioso garante del buon governo. Duccio e Simone Martini ponevano il loro ideale altissimo di bellezza in Vergini in maestà fuori del tempo e dello spazio; la parlata in volgare di Ambrogio sapeva invece trovare la bellezza nell’accordo di tutti i valori civici costruiti con il lavoro dell’uomo.
La sua fu però una parentesi. La peste nera del 1348 mandò in frantumi il Buon Governo e diede avvio a una crisi che, come raccontato nel celebre saggio di Millard Meiss, porterà al disordine e al terrore dell’insicurezza nei villaggi. L’arte della generazione successiva ad Ambrogio registrerà questo clima con il ritorno all’arcaismo duecentesco e proprio attraverso l’irrazionalità della fiaba Siena darà un contributo essenziale allo sviluppo di un nuovo stile europeo chiamato «gotico internazionale».

Corriere 22.10.17
Dall’Annunciazione alla Madonna del latte, l’emozione del realismo
di Marco Gasperetti

Benvenuti nell’avanguardia del Trecento. E se la definizione vi sembra esagerata, avvicinatevi alle tavole e agli affreschi di Ambrogio Lorenzetti, il «Magnifico» pittore che rivoluzionò l’arte del suo tempo, sfidando il vento dell’incomprensione, con uno sguardo profetico verso il futuro.
Guardatele prima da una certa distanza e con quella visione globale e distaccata che serve a introiettare la struttura dell’opera. E poi, lentamente, passo dopo passo, avvicinatevi sino a individuare i particolari più straordinari e di un realismo, sublimato nell’arte e nella religiosità dei soggetti, molto avanzati per i tempi. C’è da emozionarsi, sino quasi alla commozione, nell’osservare la Madonna del Latte (vestita di rosso), con il seno quasi deformato dal neonato che guarda l’osservatore come potrebbe fare un qualsiasi pargolo postmoderno davanti alla fotocamera di uno smartphone. La sorpresa si ripete davanti all’immagine di un’altra Madonna con Bambino, custodita al Louvre, dove il piccolo mangia un fico, simbolo del peccato, e che invece Ambrogio nobilita.
Camminando tra le dieci sale, ma meglio sarebbe chiamarle ambientazioni, nelle quali trionfa la mostra «Ambrogio Lorenzetti» (dal 22 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018) visitata in anteprima dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si ha una visione non solo complessiva di questo straordinario campione dell’arte medievale (e non solo), ma si cancella la visione un po’ stereotipata del pittore dell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo, il grandioso ciclo di affreschi della Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena.
Lorenzetti si presenta per ciò che è realmente, uno dei tre grandi pittori del suo tempo, insieme a Giotto e Simone Martini (come scrive il Ghiberti) dalla natura innovativa. «Un artista geniale, un intellettuale dall’idea di una pittura nella quale l’intelletto e l’innovazione iconografica sono molto forti — spiega Roberto Bartalini, uno dei curatori insieme ad Alessandro Bagnoli e Max Seide —. Dipinge i fenomeni naturali, il vento, la grandine, la luce, la notte. Dà immagini a idee complesse. Descrive negli affreschi un’Annunciazione che nessuno aveva immaginato, con una Madonna impaurita che cade a terra, così fuori dai canoni che appena finisce la sua opera i committenti la fanno modificare».
Quella di Siena non è solo una mostra svelatrice del genio di Lorenzetti, ma completa. Non solo perché nei dieci ambienti del percorso si trovano le opere dell’artista conservate a Siena (sono il 70% della sua produzione), ma perché è stata arricchita da una serie di prestiti provenienti dal Louvre di Parigi, dalla National Gallery di Londra, dalle Gallerie degli Uffizi, dai Musei Vaticani, dallo Städel Museum di Francoforte, dalla Yale University Art Gallery. «Con l’obiettivo di reintegrare pressoché interamente la vicenda artistica dell’artista — afferma il direttore del Santa Maria Daniele Pittèri — facendo nuovamente convergere a Siena dei dipinti che in larghissima parte furono prodotti proprio per cittadini senesi e per chiese della città».
La razionale disposizione delle opere e l’inserimento di spazi multimediali accompagna il visitatore a conoscere l’evoluzione di Lorenzetti in un crescendo d’emozioni. La sua modernità ci abbaglia.

Correre La Lettura 22.10.17
Andrea Camilleri Due cose mi dispiace non vedere: i colori e mia nipote che cresce
intervista di Teresa Ciabatti

Il nuovo libro di Andrea Camilleri, Esercizi di memoria (Rizzoli), è fondamentale per i tanti lettori che qui troveranno svelata l’origine dell’immaginario dello scrittore: che sia Montalbano, l’amore per i gatti, o la vera anima del vigatese che non è esattamente siciliano. Ventitré racconti scritti in ventitré giorni — «i ricordi tornavano su vividi, con precisione di dettagli» — dove si può capire molto di Camilleri scrittore, una rievocazione minuziosa contro il buio, «essendo ormai cieco» scrive Camilleri, più precisamente detta. In realtà ricorda, torna ragazzo, regista teatrale, delegato di produzione Rai, amico di Eduardo, uno dei tanti giovani rimbeccati da Vincenzo Cardarelli («siete giovani di merda»), e poi di colpo bambino in mezzo agli animali. Quindi sì, un esercizio di memoria questo libro, un «alla ricerca delle fonti», come lo definisce Camilleri stesso.
Un luogo che torna più volte è la casa in campagna dei nonni, l’inizio di tutto?
«Ne scrissi anche su “AD”. Era una grande casa, superstite di antiche ricchezze testimoniate da oggetti in disuso come due biliardi, una vecchia automobile marca SCAT senza più ruote su cui io salivo e manovravo il volante sognando di diventare campione di automobilismo. Poi c’era la cappella privata, e un cortile pieno di animali».
Il ruolo della nonna nell’immaginazione di Andrea Camilleri?
«Nonna Elvira era piena di fantasia, mi presentava il signor Grillo e gli altri animali. Fu lei a raccontarmi per prima Alice nel paese delle meraviglie , mi parlò di Alice, del gatto senza ghigno, del cappellaio matto. Solo anni dopo lessi il libro».
E?
«Meglio la versione della nonna».
Qui dice che Montalbano ha qualcosa di suo zio Carmelo, altrove di suo padre, chi è Montalbano?
«Credevo fosse un personaggio inventato di sana pianta, invece un giorno mia moglie osserva: “Ti rendi conto che ha il modo di pensare di tuo padre?”. Per me quella è stata la prima scoperta. Anni dopo mi è tornata alla mente la storia di zio Carmelo che per affermare la sua verità è stato condannato a cinque anni di confino, sacrificando la carriera in polizia. Un uomo che ha molto a che fare con Montalbano. Allora mi sono detto: non è che, convinto di averla inventata, sto raccontando una storia familiare?».
Lo stava facendo?
«Tutti i romanzi hanno dati realistici, di fantasia, di memoria. Qualche volta una delle tre, fra realtà-fantasia-memoria, prende il sopravvento».
Come si comporta lei?
«Ho padronanza del pericolo che ogni romanzo ha di andare per la sua strada. Mi succedeva i primi tempi col computer. Quello tentava di scrivere il romanzo da sé. Io scrivevo ge , e lui scriveva Genova , quando io volevo scrivere gemito . Alla fine ci siamo messi d’accordo».
Anche con Montalbano?
«È una presenza ingombrante. Se scrivo un libro che non lo riguarda, al momento che ho un intoppo, arriva lui: “Il commissariato già era mezzo romanzo”».
Nel senso?
«Che se avessi scritto di lui sarei stato già a metà romanzo, solo la vita del commissariato sono pagine e pagine. Del resto Montalbano è invadente, e ricattatorio: ogni volta che esce un suo romanzo, si vendono anche gli altri miei libri. La verità è che Montalbano mi mantiene in catalogo da trent’anni».
Invadente, ricattatorio, padre o zio, chi è Montalbano?
«Un gioco della memoria. La memoria a volte si disvela in quanto tale, altre gioca a nascondino e solo dopo ti accorgi che era memoria».
«Esercizi di memoria» è uno svelamento a posteriori?
«È un libro che non si poteva scrivere a quaranta o cinquanta o sessant’anni, ma solo a novanta».
Perché?
«La vita è prima, e poi te la ricordi».
In molti racconti lei lascia spazio al prima, una specie di dichiarazione di poetica: la storia vera, dunque l’esperienza, è nella preparazione.
«Quando arriva il fatto centrale è tutto già avvenuto, conta il viaggio preparatorio. E non c’è il dopo, non c’è il peso della memoria acquistata».
Come quando va a trovare Eduardo De Filippo nel racconto «Il paradiso a mille lire»?
«Eduardo si era fatto questo paradiso personale su un’isola di sua proprietà davanti a Positano. Laggiù c’era solo la sua villa dove abitava col figlio Luca e una governante. Per prima cosa mi portò a visitare l’isola, ci impiegammo sette minuti. Poi mi mostrò l’enorme gruppo autogeno che forniva energia elettrica. Mi disse: “Così la sera accendo la televisione e mi guardo mio fratello Peppino”».
Nel suo paradiso personale Eduardo metteva anche il fratello non amatissimo?
«In qualche modo».
Qual è il paradiso personale di Andrea Camilleri?
«A me il paradiso di questo tipo va bene per una settimana, diciamo che non sarei sopravvissuto fino a scoprire l’orma di Venerdì, mi sarei suicidato prima. Nel mio paradiso personale io manderei messaggi per chiamare a raccolta amici e amiche».
Al fine?
«Di condividere. Il paradiso solitario non fa per me».
Neanche per scrivere?
«Una volta mia moglie è entrata nello studio, io stavo scrivendo con due nipoti sotto il tavolo, uno tra le gambe, insomma, una gran confusione. Al che lei dice: “Tu non sei uno scrittore, sei un corrispondente di guerra”».
Nel libro lei parla anche di premi letterari, per esempio lo Strega...
«Ho partecipato allo Strega una sola volta. Ottenni quattro voti. Ma erano voti buoni».
Ovvero?
«Antonio Giolitti, e sua moglie. Sandro D’Amico, e un quarto che non ricordo. Mi ritenni soddisfatto».
Di premi ne ha ricevuti molti, il preferito?
«Un giorno mi scrissero dal Comune di Ouessant, un’isola a nord della Francia. Nella lettera il sindaco mi comunicava di aver istituito un premio letterario destinato a un romanzo insulare, nel senso che gli autori dovevano essere nati su un’isola, qualsiasi isola del mondo. Mi comunicava quindi che il mio romanzo, Il birraio di Preston , era entrato in finale. Tempo dopo ricevetti una seconda lettera in cui sempre il sindaco mi informava che la giuria, riunitasi a bordo di un peschereccio, aveva dichiarato vincitore il mio romanzo. Si congratulava, e mi pregava di mandargli le coordinate bancarie per il premio, non era richiesta la mia presenza. Gente concreta».
Lei è lo scrittore italiano più famoso all’estero, conta ammiratori in tutto il mondo, fra cui Bill Clinton.
«Una notte mi squilla il telefono: “Buongiorno dottor Camilleri, sono Matteo Renzi, la chiamo da New York, siccome mi è capitata una cosa che mi è molto piaciuta gliela volevo raccontare”. La cosa era questa: durante una cena Bill Clinton aveva preso da parte Renzi per chiedergli se mi conoscesse, e nel caso, se potesse organizzare un incontro poiché lui era un ammiratore del “papà di Montalbano”. Renzi mi dice: “Siccome Clinton mi ha dato la sua email, forse dottore, se gli manda due parole”».
E lei?
«Ho mandato due parole».
E Clinton?
«Rispose con una mail che iniziava: “Caro Andrea!” e finiva: “Teniamoci in contatto, non perdiamoci di vista”».
Che succede quando arrivano ammiratori che non stima?
«Si ricevono con lo stesso sorriso».
E ammiratori che sbagliano, come racconta in «La montagna e io»?
«Arrivai in montagna nell’albergo dove alloggiava la mia famiglia. Diedi la carta d’identità al portiere che, dopo aver letto il nome mi chiese ammirato: “Ma lei è il Camilleri, Camilleri?”. Risposi di sì, e lui mi fece i complimenti per le mie scalate. Esisteva un Andrea Camilleri rocciatore».
Niente di più lontano da lei che dichiara di odiare la montagna.
«L’unica volta che sono andato è stata quella, e ho resistito bevendo grappa. Anni dopo mi hanno scritto da Bolzano: un club alpino che diceva di gradire la mia presenza durante una serata in onore di Andrea Camilleri rocciatore. Non andai».
Lo spettro del rocciatore la perseguita?
«Di recente mia figlia è andata in settimana bianca e le hanno chiesto: “Figlia di Andrea Camilleri?”. Lei ha risposto di sì, e l’altro: “Suo padre mi ha insegnato la roccia”».
Se lei non avesse scritto più di cento libri, se dovesse scrivere il suo primo libro adesso, che romanzo scriverebbe?
«Non commetterei l’errore di scrivere un poliziesco, oggi tutti scrivono polizieschi. Scriverei la storia di un bambino».
Perché?
«Al momento i bambini sono in una situazione squilibrata. A quattro anni sono capaci di usare il computer. Questo comporta una conoscenza della vita degli adulti superiore a quella che avevo io alla loro età».
Conseguenza?
«I bambini ci giudicano. C’era il film di De Sica, I bambini ci guardano ».
Differenza tra guardare e giudicare?
«A guardare uno poi se ne può fregare di quel che ha visto. Il giudizio invece entra nel merito delle azioni delle altre persone».
Sono bambini diversi da un tempo?
«Il bambino di oggi parla un italiano perfetto, difficile trovarne uno che sbaglia il congiuntivo. Loro capiscono bene l’uso delle parole. E le parole sono cose. Le parole pesano».
Troppo peso?
«Da quando mia nipote, bisnipote, di quattro anni ha saputo che la madre aspetta un bambino, ha cominciato a soffrire di mal di pancia. L’hanno portata da diversi medici, controlli, analisi. Risultato: la bambina non ha niente. Alla fine è stata proprio lei a dire di aver capito la causa del mal di pancia: “Sono incinta di un fratellino”, ha detto alla madre».
Ha detto che quello che più le manca con la cecità è non poter vedere sua nipote crescere.
«In realtà l’accarezzo, lei mi prende per mano, e la sento crescere».
Cosa ha significato perdere completamente la vista?
«La perdita dei colori. Per fortuna vengo ripagato nei sogni, faccio sogni coloratissimi».
Per esempio?
«L’altra notte ho sognato che ero alla stazione di Milano vestito da clown. Pensi i colori che avevo addosso».
E?
«Con una valigetta in mano, e gli scarponi da clown, correvo per prendere il treno. Sui binari a destra c’era un vagone pieno di clown coloratissimi che m’incitavano a correre, a sinistra un vagone di persone normali che applaudivano vedendomi cadere perché pensavano fosse un numero comico».
Torniamo al cortile dei nonni, quello pieno di animali...
«C’erano conigli, cavalli, muli, caprette. Il pulcino senza una zampa a cui mio zio costruì una protesi di cannuccia. Una storia vera che è diventata un libro per ragazzi: Topiopì ».
In «Esercizi di memoria» lei racconta della capretta di quando era bambino.
«La capra Beba torna in molti miei romanzi, per esempio ne Il sonaglio il mandriano adolescente s’innamora di una capra. La mia Beba era una capra girgentana, pelo lungo marrone, corna alte, attorcigliate. Purtroppo ho scoperto che di capre girgentane ne sono rimaste solo centocinquanta esemplari in tutta la Sicilia, è una razza che si sta estinguendo».
Cosa prova al pensiero che la capretta della sua infanzia si stia estinguendo?
«Fraternità. Una fraternità che continua nella vecchiaia. Anch’io sono una razza in estinzione».

Repubblica Robinson 22.10.17
Se Gramsci diventa un’opera d’arte
di Olga Gambari

A Cagliari esposti i lavori dedicati all’autore dei “Quaderni dal carcere” Un’ennesima prova della centralità della sua figura e del suo pensiero ancora oggi attualissimo
Gramsci è una figura contemporanea. Non un personaggio ma un pensiero e un ideale. Le sue analisi riescono ancora a interpretare il mondo di oggi, una guida attualissima per i giovani che scoprono in lui un pensatore puro e libero, un eroe idealista e concreto di cui viene voglia di stamparsi il volto sulle t-shirt. Anche gli artisti, quelli storici come Alfredo Jaar e quelli emergenti guardano a lui. A loro si è rivolto il progetto “ I want you for Museum’s Army — Gramsci”, sfociato nella mostra “Verso Gramsci” al Cartec di Cagliari), promosso dal Comune e dai Musei Civici con la Fondazione Bartoli Felter, a cura di Alessandra Menesini e Patrizia Rossello.
A un gruppo di artisti di Piemonte e Sardegna (le regioni che ne videro la nascita e gli studi) è stato chiesto di ispirarsi all’eredità di Gramsci. Ne sono nate installazioni che mescolano linguaggi e diversi piani di lettura. La serie di cartoline di Antonio La Grotta è un grand tour geografico e poetico attraverso l’Italia, una ricerca che ha scoperto come la maggior parte delle città abbia una via o una piazza dedicate a Gramsci, luoghi che lui non poté visitare. Trentatré cartoline originali del secondo Novecento, lo stesso numero dei Quaderni dal carcere, più una, per il quaderno che non è mai stato ritrovato. Altri luoghi, invece, di memoria biografica, quelli della Sardegna natia del pensatore, da Ales a Ghilarza passando per Santu Lussurgiu, scandiscono il viaggio fotografico di Marcello Nocera, virate in rosso quelle di esterni, in bianco e nero quelle di interni abbandonati. La nostalgia è parte dell’atmosfera che pervade anche il lavoro di Simone Martinetto, incentrato sulla famosa questione meridionale, argomento contemporaneo che l’artista ha sviluppato insieme a tre migranti arrivati in Italia in cerca di lavoro, ma anche di salvezza e di pace. Nella videoinstallazione il gioco di rimandi tra la loro voce e le pagine scritte da Gramsci assume la forma di un dialogo. Concetti e parole che non sono teoria astratta ma mattoni di una possibile società migliore, come l’edificio di cui getta le fondamenta Marta Fontana, fatto di libri, uno sopra l’altro. Eppure questa costruzione è decorata da trappole per uccellini in forma di delicati e attraenti oggetti. Perché la cultura offre la via dell’affrancamento, della libertà di pensiero e poi di cuore, ma spesso ha un caro prezzo. Lo sanno bene le prime donne che tentarono l’emancipazione — a cui sono dedicati i raffinati dipinti di Cornelia Badelita giocati sul doppio — come fece il personaggio di Nora in Casa di Bambola di Ibsen. In Nora, scrivendo una recensione teatrale, Gramsci vide la nascita della nuova donna. E fu scandalo.
Per lui la cultura in forma di espressione artistica ha la forza e la responsabilità di cambiare le cose.
L’indifferenza è il suo peggiore nemico.

Repubblica Robinson 22.10.17
Sossio Giametta
di Antonio Gnoli,

Nella casa di Isabella Ducrot, in un’ora che sembra propiziare qualche assaggio di pasticcini con relativo tè, incontro Sossio Giametta. Siede a capotavola, sotto bassi soffitti di una bella casa nel centro di Roma e conciona di filosofia davanti a ridotto uditorio che attento e paziente lo ascolta. Un piccolo simposio si direbbe dove si vola, o si tenta di volare, alto. La serata si annuncia particolarmente calda, ma Sossio — un nome che nelle sue declinazioni antiche rimanda al significato di salvo, illeso e perfino di sosia, cioè di doppio — sembra decisamente ignorare. Qualcuno attende che la cena bussi la sua ora, qualcun altro chiede chiarimenti su Nietzsche, di cui Giametta è stato uno dei traduttori (per l’edizione critica adelphiana Colli-Montinari). Mi pare un testimone attendibile di un’epoca che si è totalmente chiusa. I quasi novant’anni sono ben portati; non avendo mai, sospetto, avuto vere e grandi aspettative speculative è potuto passare inosservato sotto il fuoco incrociato degli scontri filosofici. Mi incuriosisce la sua avventura di pensatore uscito indenne, come un involontario ospite del Titanic, dagli iceberg della vita.
C’è una cosa che mi piace di te: metti tutti sullo stesso piano, grandi e piccoli filosofi.
« Un momento. I grandi, quei pochi che possono ambire al pantheon, sono lo sfondo imprescindibile. Il resto è puro prêt- à- porter. Qualche star e molte le ballerine di fila».
E tu dove ti collochi?
«Me lo chiedi! Partecipo al can-can. Con la differenza che conosco perfettamente i miei limiti».
Come dicevano gli antichi: conosci te stesso.
«Ma, sai, c’hanno campato in molti su questa frase attribuita a Socrate. Preferisco Nietzsche che diceva che ognuno è il più lontano da sé stesso. Siamo meteore sconosciute. Quel meraviglioso provocatore di François Villon disse con largo anticipo “conosco tutto, tranne che me stesso”».
E tu convieni?
«Convengo, ciò che conosciamo di noi avviene attraverso l’esperienza. Lascio volentieri l’esplorazione dell’interiorità ai confessori e agli psicoanalisti. Sono un meridionale estroflesso».
Dove sei nato?
«A Frattamaggiore che è più famosa perché c’è nato Insigne, il calciatore, che per aver dato i natali a Francesco Durante, il massimo sinfonista del Settecento secondo Rousseau».
Tuo padre cosa faceva?
« Era ragioniere. Teneva la contabilità in un’azienda della canapa. All’epoca eravamo il solo paese nella provincia di Napoli che avesse un’industria. La lavorazione della canapa andò per aria con la crisi del 1929, l’anno in cui sono nato. Per tenere a bada i creditori, papà li fronteggiava anche di notte. Si ammalò di tubercolosi. La penicillina non era ancora stata inventata e lui morì in un sanatorio di Trento. Lo seppellirono in una fossa comune ».
E tua madre?
«Si sarebbe dovuta costituire parte civile contro la vita per tutto quella che le aveva negato e invece si mise di buona lena a lavorare e a mantenermi agli studi. Era sarta e crebbe me e mia sorella con il suo mestiere».
Ti ha condizionato essere nato in provincia?
«Sono “cafone ’e fora”, come i napoletani chiamano il provinciale. Ma non mi dispiace. Fratta era allora la metà di quella che è oggi e la popolazione, a parte i pochissimi ricchi, era in preda alla miseria, come constatai quando, per un breve periodo, feci l’ufficiale di censimento. Se la cavavano un po’ meglio i piccoli artigiani, come appunto mia madre. Della provincia non ho assorbito né le cose buone né quelle non buone. Mi sono sviluppato liberamente, seguendo più l’istinto che i progetti. In fondo non ho mai voluto diventare niente».
Per non cercare niente qualcosa hai trovato. Hai lavorato in banca, hai imparato bene il tedesco, traduci e scrivi di filosofia. L’ultimo tuo libro apparso per Bompiani è “Grandi problemi risolti in piccoli spazi”. Perché arrivasti a occuparti del mondo tedesco?
« Non l’ho scelto, mi è accaduto. Coltivai da giovane una visione romantica della Germania, nutrita da Tacito. Fu allora che mi accostai alle poesie di Goethe, con il desiderio di leggerle in originale. A quel tempo lavoravo alla Comit e decisi che avrei passato tutte le mie vacanze in Germania. Conobbi Gerlinde, una tedesca che sarebbe diventata mia moglie. Più tardi feci un soggiorno ad Amburgo per perfezionarmi».
Che vita conducevi in Germania?
«Erano gli anni Cinquanta, alternavo la scuola di tedesco con la scuola di vita. Mi capitava di passare il pomeriggio in qualche biblioteca, ma anche di pranzare o cenare in ristoranti frequentati dai magliari che parlavano in napoletano convinti che nessuno li capisse. A quel tempo smaltivo i postumi di una malattia per me grave».
A quale malattia alludi?
« Oggi la cosa ti apparirà comica ma ho sofferto di adenoidi operate troppo tardi. Rendono, si dice, idioti o geni».
E tu da quale parte pendevi?
«Temo di essere stato più dalla prima parte che dalla seconda. L’adenoideo respira a bocca aperta, come appunto l’idiota. Come adenoideo sono psichicamente cresciuto non con gradualità ma a sbalzi. Ricordo che a causa di una di quelle improvvise crescite rasentai la malattia mentale».
Eri preda di cosa?
«Avvertivo un magma incandescente di sensazioni fluire nella mia testa. I miei occhi si divaricavano e le visioni che avevo sarebbero state giustificabili in un cavernicolo, non in un uomo del Ventesimo secolo!».
Come ti curasti?
«Assumendo farmaci e leggendo Spinoza. Fu questo filosofo a farmi riconnettere alle galassie mentali che si stavano allontanando. Da allora ho considerato la filosofia una terapia necessaria per chi soffre di malattie dell’anima. Per gratitudine verso Spinoza ho tradotto il suo capolavoro l’Etica e questo mi consentì, in modo imprevedibile, di conoscere Giorgio Colli».
Come avvenne il vostro incontro?
«Aveva sentito in giro che c’era un bancario che si traduceva Spinoza per conto suo e non per pubblicare. Credo che la cosa lo avesse incuriosito. Mi arrivò un biglietto in cui mi invitava a raggiungerlo a Firenze. Parlammo un intero pomeriggio. Mi chiese che cosa conoscessi di Nietzsche. Risposi che non avevo nessuna frequentazione con il filosofo tedesco. Peccato, disse lui accendendosi l’ennesima sigaretta egiziana: insieme a Bruno, Spinoza, Kant e Schopenhauer è il solo che vale la pena salvare. Poi mi offrì una Turmac. Lo guardai, elegante e serafico avvolto in
«Avevo smesso di fumare e rifiutai più volte, ma dalla sua insistenza capii che insieme alle sigarette mi offriva una collaborazione stabile. Ripresi a fumare. Mi propose di tradurre sia l’Etica che il De bello gallico e soprattutto mi volle nella sua équipe che stava lavorando all’edizione delle opere di Nietzsche».
Non ti sorprese quella offerta? In fondo tu stesso avevi detto di non sapere nulla di Nietzsche.
« Mi meravigliai di quella proposta perché ero e mi consideravo un ignorante, un buono a nulla. Probabilmente Colli pensava che a una edizione critica era preferibile una mente sgombra da pregiudizi filologici e da letture condizionanti. Non dimenticare che su Nietzsche pesava la condanna marxista e comunista. E poi, c’era sempre Mazzino Montinari, l’uomo più umano che abbia conosciuto, in grado di guidare un giovane di ventinove anni ».
In seguito che idea ti facesti di Colli?
«L’ho sempre visto come un personaggio imponente e severo con una filosofia profondamente visionaria e solitaria, ma non esente da eccessi. Mi sorprese una volta in cui disse che capiva le ragioni per cui Nietzsche ammetteva la schiavitù. Guardai stupefatto la sua faccia mentre la piega del sorriso mi comunicava ironia o forse sarcasmo».
Forse ti prendeva in giro.
«Non lo so, sinceramente. Era antifascista per cui fu costretto a una fuga in Svizzera negli anni della guerra. Tendeva, quasi istintivamente, a una specie di comunità pitagorica e iniziatica. Era dotato di un’energia militare tutta piemontese, una capacità di intraprendere ed eseguire notevoli imprese e di assumersi grandi responsabilità. Il suo carattere aristocratico ed esclusivo cozzava con quello aperto e sorridente di Montinari».
Com’erano i rapporti fra i due?
«Bisogna intanto tener conto che Mazzino era stato dirigente del partito comunista e dislocato a Berlino. Fu dunque un legame insolito il loro. Colli aveva per lui un trasporto viscerale e lo considerava il discepolo per eccellenza. Non credo che l’altro si sentisse tale. Certo, amava Colli e lo serviva puntualmente con le sue straordinarie capacità di filologo. Ma le loro origini erano troppo diverse perché alla fine non dovessero prevalere».
Intendi alludere ai loro contrasti?
« Tra i due per lungo tempo ci fu una grande intesa sia sul piano filologico che umano. Tra l’altro fu proprio Montinari ad aiutare Colli a espatriare in Svizzera. Era stato suo allievo al liceo, ma poi alla Normale di Pisa Montinari subì l’influenza di Delio Cantimori, grande storico, con un passato fascista, poi diventato comunista e traduttore di Marx. La sua presenza fu come un’ombra che alimentò il contrasto su Nietzsche. Per Colli, Nietzsche era un pensiero compiuto sottratto alla storia; per Montinari era soprattutto un critico della società borghese. Montinari, insomma, restò sempre ligio al suo ideale comunista».
La rottura pubblica quando avvenne?
« Dopo vari screzi, nel 1974, si scontrarono sulle colonne del
Corriere della Sera. Montinari giudicò piuttosto lesiva un’intervista in cui Colli, a suo dire, non gli rendeva giustizia del grande lavoro svolto e rivendicò pubblicamente i suoi meriti nell’edizione di Nietzsche. La mia sensazione è che i due a forza di litigare e di avvinghiarsi rimasero, come avrebbe detto Hegel, abbracciati come due lottatori che non riescono a sciogliersi».
Tu di Nietzsche cosa hai conservato?
« Non mi sento un filosofo di professione, anche perché non ho mai insegnato in accademie e università. Oltretutto per trent’anni ho lavorato a Bruxelles al Consiglio dei ministri dell’Unione europea, nel servizio linguistico. Penso che Nietzsche andrebbe letto nelle aule del Parlamento europeo perché il suo pensiero è la risposta alla crisi europea nei suoi tre aspetti: crisi della filosofia, crisi della civiltà, crisi della religione. Nietzsche è stata una creatura di queste crisi ma anche del bisogno del loro superamento».
Ti pesa essere considerato un outsider della filosofia?
«Di’ pure un intruso. No, anzi me ne vanto. Perché troppa parte della filosofia è oggi fatta di chiacchiere. Mi sono considerato per quasi tutta la vita un citrullo e un ignorante e tale mi ritengo ancora oggi. Non rinuncio alla lotta delle idee che è la sostanza stessa della filosofia. Ma credo di essere dotato di un pensiero umile. L’umiltà consiste nell’investirsi delle esigenze degli uomini comuni e nel parlare il linguaggio chiaro, nel seguire la logica delle cose sotto la logica delle parole e nell’onorare come mia maestra suprema non l’erudizione, ma la vita. Poi credo di essere afflitto da molti difetti».
Il più grave?
«Forse l’impulsività. Ne ho in realtà di peggiori, ma l’impulsività tocca gli altri. Tutta la mia audacia, il mio coraggio, il mio bisogno di indipendenza li esprimo nella filosofia. Nella vita sono spesso un allocco, un credulone, un imbranato. E anche un po’ noioso. Una volta, dopo un discorso tenuto in pubblico, dissi a mia moglie: sono stato un po’ pesantuccio, è vero? Mia moglie mi guardò come sfinita da quella serata e poi commentò: Sossio non sei stato pesante, sei stato pesantissimo. In fondo come molti napoletani mi considero un comico sbagliato anche se la filosofia di oggi è piena di comici. Ma non ci posso fare nulla se non guardare con il leggero disincanto che l’età ormai avanzata induce ».
Come vivi la tua vecchiaia?
«Sento che è la mia età più luminosa, creativa e felice. Tutte le cose “inutili” ma libere di cui ho vissuto, senza nutrire per esse alcuna ambizione o aspirazione, si sono rivelate alla fine importanti. Perciò sono attaccato alla vita, malgrado gli orrori del mondo. Malgrado l’uomo non abbia mai imparato le dure lezioni della storia. E non credo che la religione possa essere ancora il rifugio, la speranza, l’approdo per una vita futura e migliore».
Non c’è Dio nel tuo orizzonte?
«C’è un Dio, ma è troppo lontano, forse un Dio laico, che non è amore, non è protezione, non è saggezza. Ma è solo potenza Vedendo come Dio avesse disertato il creato, Pascal si angosciò al punto da indursi alla scommessa, al tuffo nella religione. Ma anche quella fu, dopo tutto, un’illusione. Una partita persa. Tutta l’acuta sofferenza nasce da questo fallimento».

una nuvola di fumo azzurrino». E cosa accadde?
l’ennesima sigaretta egiziana: insieme a Bruno, Spinoza, Kant e Schopenhauer è il solo che vale la pena salvare. Poi mi offrì una Turmac. Lo guardai, elegante e serafico avvolto in
«Avevo smesso di fumare e rifiutai più volte, ma dalla sua insistenza capii che insieme alle sigarette mi offriva una collaborazione stabile. Ripresi a fumare. Mi propose di tradurre sia l’Etica che il De bello gallico e soprattutto mi volle nella sua équipe che stava lavorando all’edizione delle opere di Nietzsche».
Non ti sorprese quella offerta? In fondo tu stesso avevi detto di non sapere nulla di Nietzsche.
« Mi meravigliai di quella proposta perché ero e mi consideravo un ignorante, un buono a nulla. Probabilmente Colli pensava che a una edizione critica era preferibile una mente sgombra da pregiudizi filologici e da letture condizionanti. Non dimenticare che su Nietzsche pesava la condanna marxista e comunista. E poi, c’era sempre Mazzino Montinari, l’uomo più umano che abbia conosciuto, in grado di guidare un giovane di ventinove anni ».
In seguito che idea ti facesti di Colli?
«L’ho sempre visto come un personaggio imponente e severo con una filosofia profondamente visionaria e solitaria, ma non esente da eccessi. Mi sorprese una volta in cui disse che capiva le ragioni per cui Nietzsche ammetteva la schiavitù. Guardai stupefatto la sua faccia mentre la piega del sorriso mi comunicava ironia o forse sarcasmo».
Forse ti prendeva in giro.
«Non lo so, sinceramente. Era antifascista per cui fu costretto a una fuga in Svizzera negli anni della guerra. Tendeva, quasi istintivamente, a una specie di comunità pitagorica e iniziatica. Era dotato di un’energia militare tutta piemontese, una capacità di intraprendere ed eseguire notevoli imprese e di assumersi grandi responsabilità. Il suo carattere aristocratico ed esclusivo cozzava con quello aperto e sorridente di Montinari».
Com’erano i rapporti fra i due?
«Bisogna intanto tener conto che Mazzino era stato dirigente del partito comunista e dislocato a Berlino. Fu dunque un legame insolito il loro. Colli aveva per lui un trasporto viscerale e lo considerava il discepolo per eccellenza. Non credo che l’altro si sentisse tale. Certo, amava Colli e lo serviva puntualmente con le sue straordinarie capacità di filologo. Ma le loro origini erano troppo diverse perché alla fine non dovessero prevalere».
Intendi alludere ai loro contrasti?
« Tra i due per lungo tempo ci fu una grande intesa sia sul piano filologico che umano. Tra l’altro fu proprio Montinari ad aiutare Colli a espatriare in Svizzera. Era stato suo allievo al liceo, ma poi alla Normale di Pisa Montinari subì l’influenza di Delio Cantimori, grande storico, con un passato fascista, poi diventato comunista e traduttore di Marx. La sua presenza fu come un’ombra che alimentò il contrasto su Nietzsche. Per Colli, Nietzsche era un pensiero compiuto sottratto alla storia; per Montinari era soprattutto un critico della società borghese. Montinari, insomma, restò sempre ligio al suo ideale comunista».
La rottura pubblica quando avvenne?
« Dopo vari screzi, nel 1974, si scontrarono sulle colonne del
Corriere della Sera. Montinari giudicò piuttosto lesiva un’intervista in cui Colli, a suo dire, non gli rendeva giustizia del grande lavoro svolto e rivendicò pubblicamente i suoi meriti nell’edizione di Nietzsche. La mia sensazione è che i due a forza di litigare e di avvinghiarsi rimasero, come avrebbe detto Hegel, abbracciati come due lottatori che non riescono a sciogliersi».
Tu di Nietzsche cosa hai conservato?
« Non mi sento un filosofo di professione, anche perché non ho mai insegnato in accademie e università. Oltretutto per trent’anni ho lavorato a Bruxelles al Consiglio dei ministri dell’Unione europea, nel servizio linguistico. Penso che Nietzsche andrebbe letto nelle aule del Parlamento europeo perché il suo pensiero è la risposta alla crisi europea nei suoi tre aspetti: crisi della filosofia, crisi della civiltà, crisi della religione. Nietzsche è stata una creatura di queste crisi ma anche del bisogno del loro superamento».
Ti pesa essere considerato un outsider della filosofia?
«Di’ pure un intruso. No, anzi me ne vanto. Perché troppa parte della filosofia è oggi fatta di chiacchiere. Mi sono considerato per quasi tutta la vita un citrullo e un ignorante e tale mi ritengo ancora oggi. Non rinuncio alla lotta delle idee che è la sostanza stessa della filosofia. Ma credo di essere dotato di un pensiero umile. L’umiltà consiste nell’investirsi delle esigenze degli uomini comuni e nel parlare il linguaggio chiaro, nel seguire la logica delle cose sotto la logica delle parole e nell’onorare come mia maestra suprema non l’erudizione, ma la vita. Poi credo di essere afflitto da molti difetti».
Il più grave?
«Forse l’impulsività. Ne ho in realtà di peggiori, ma l’impulsività tocca gli altri. Tutta la mia audacia, il mio coraggio, il mio bisogno di indipendenza li esprimo nella filosofia. Nella vita sono spesso un allocco, un credulone, un imbranato. E anche un po’ noioso. Una volta, dopo un discorso tenuto in pubblico, dissi a mia moglie: sono stato un po’ pesantuccio, è vero? Mia moglie mi guardò come sfinita da quella serata e poi commentò: Sossio non sei stato pesante, sei stato pesantissimo. In fondo come molti napoletani mi considero un comico sbagliato anche se la filosofia di oggi è piena di comici. Ma non ci posso fare nulla se non guardare con il leggero disincanto che l’età ormai avanzata induce ».
Come vivi la tua vecchiaia?
«Sento che è la mia età più luminosa, creativa e felice. Tutte le cose “inutili” ma libere di cui ho vissuto, senza nutrire per esse alcuna ambizione o aspirazione, si sono rivelate alla fine importanti. Perciò sono attaccato alla vita, malgrado gli orrori del mondo. Malgrado l’uomo non abbia mai imparato le dure lezioni della storia. E non credo che la religione possa essere ancora il rifugio, la speranza, l’approdo per una vita futura e migliore».
Non c’è Dio nel tuo orizzonte?
«C’è un Dio, ma è troppo lontano, forse un Dio laico, che non è amore, non è protezione, non è saggezza. Ma è solo potenza. Vedendo come Dio avesse disertato il creato, Pascal si angosciò al punto da indursi alla scommessa, al tuffo nella religione. Ma anche quella fu, dopo tutto, un’illusione. Una partita persa. Tutta l’acuta sofferenza nasce da questo fallimento».

Il Sole Domenica 22.10.17
Giovanni De Luna
Una storia narrativa del 1946-48

Il 25 aprile 1945, due anni dopo la caduta del fascismo, il Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia proclamava l’insurrezione nei territori ancora occupati dai nazi-fascisti. Il 3 maggio finiva la guerra. Iniziava così un triennio inquieto, violento, rissoso, in un’Italia povera, agricola, con trasporti difficili, distrutta (salvo le strutture industriali principali), con pochi generi alimentari, afflitta da disastri naturali, con un potere paternalistico, senza senso dello Stato, divisa in due, occupata dalle forze alleate, spesso colpevoli di brutalità, dominata da spinte centrifughe.
Il primo governo, guidato da Parri, dura 172 giorni, deve subire i condizionamenti degli alleati, gestire episodi di violenza, ma sceglie la linea continuista, che sarà accentuata dal successivo governo De Gasperi, che deve gestire la transizione alla Repubblica, tener conto della pochezza dei Savoia, del ruolo degli uomini del prefascismo, del qualunquismo, delle difficoltà della proclamazione del nuovo regime. Il 2 giugno 1946 e l’inizio della vita repubblicana costituiscono una cesura: l’impronta partitocratica viene data dalle tre principali forze politiche, le difficoltà si susseguono (riparazioni di guerra, contrasti sul confine italo – jugoslavo, amnistia, malcontento); dopo il 18 aprile, separatismo siciliano, debolezza dello Stato, violenze, sgretolamento del patto del comitato di liberazione. L’ultima crisi è quella prodotta dall’attentato a Togliatti, il 14 luglio 1948.
Dedicato a questo difficile triennio e scandito in due parti, il libro di De Luna è un bell’esempio di storia narrativa, scritto in maniera vivace, come un romanzo, ma con una partecipazione trattenuta, che punta sulla forza evocativa delle testimonianze, delle lettere, dei diari, fa parlare i verbali del Consigli dei ministri. L’Italia di quel triennio è vista dal basso, c’è la politica più che le istituzioni, Bartali, Togliatti e De Gasperi, ma senza quell’alone che la storia e il passaggio del tempo hanno costruito intorno alle loro figure.
Il lettore di questo libro si pone tre domande. La prima: perché questi tre anni e perché fermarsi all’attentato a Togliatti? L’autore spiega, alla fine, questa scelta. L’attentato a Togliatti segna il termine di un periodo di violenza politica, l’inizio del miracolo economico e del benessere.
La seconda domanda: perché, nell’esame di questo periodo, nel quale opera l’Assemblea costituente ed entra in vigore la Costituzione, c’è, tuttavia, appena qualche cenno alla Costituzione? L’autore non spiega questa esclusione, che è tuttavia, grave, perché così il libro analizza quel che l’Italia è stata nel triennio, non quel che ci ha lasciato quel triennio. Con la conseguenza di mettere da parte le idealità, di puntare soltanto sulla dura realtà di quegli anni di passaggio. E di ripetere, nel brevissimo cenno finale sulla Costituzione, il “cliché” di un testo frutto del compromesso tra le tre forze, liberale, cattolica e socialista/comunista.
L’ultima domanda: perché, ora che sono disponibili tanti archivi, la ricostruzione è tessuta su tanti dati di fatto, ma senza usare le carte di archivio nelle quali – come scrisse in un brano autobiografico Tocqueville – si apre tutta intera la storia di una nazione?
C’è un passaggio, nelle ultime pagine, che merita di esser citato, perché rappresenta una lezione per la politica di oggi: «I partiti scelsero allora di rinunciare a pezzi importanti dei rispettivi impianti programmatici e ideologici pur di blindare il testo costituzionale».
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Giovanni De Luna, La Repubblica inquieta. L’Italia della Costituzione. 1946 – 1948 , Feltrinelli, Milano,
pagg. 304, € 22
Sabino Cassese

Il Sole Domenica 22.10.17
Filosofia politica
Marx contro Rawls
di Sebastiano Maffettone
Gerald Allan Cohen, Per l’eguaglianza e la giustizia , L’asino d’oro, Roma, pagg. 520, € 25

Gerald Allan Cohen, “Jerry” per amici e colleghi, era titolare della prestigiosa Chichele Chair di Social and Political Theory a Oxford (dove era succeduto a Isaiah Berlin). Canadese, figlio di immigrati russi, ebreo e socialista, Cohen era un personaggio anomalo nel panorama della filosofia politica anglo-americana usualmente dominato dal main stream liberal. Bene hanno fatto così le edizioni Asino d’oro a pubblicare in italiano questa sua raccolta di saggi intitolata Per l’eguaglianza e la giustizia (originale inglese Harvard University Press con il titolo Rescuing Justice and Equality, ma lo stesso Cohen riconosce che per lui l’eguaglianza viene prima della giustizia e quindi bene ha avuto ragione il traduttore a invertire l’ordine delle due parole).
Due sono state le stelle polari di Cohen, Karl Marx e John Rawls. Su Marx, Cohen ha scritto un libro importante Karl Marx’s Theory of History, A Defense (1978). In questo libro, Cohen mostra la validità di alcuni assunti politici di Marx pur rifiutandone la dialettica di matrice hegeliana. Interessante in particolare resta la ricostruzione analitica del materialismo storico, che darà la stura alla nascita di un “marxismo analitico” che vedrà tra i suoi autori più significativi Roemer e Elster.
Su Rawls, Cohen ha scritto molto, non lesinando critiche anche aspre ma riconoscendo il valore straordinario della sua opera. Due sono gli aspetti della dottrina di Rawls che Cohen critica con maggiore convinzione e assiduità. Il primo è di sostanza, il secondo di metodo. Dal punto di vista teorico, Cohen non è d’accordo con il principio di differenza di Rawls, cioè con il nucleo centrale della sua teoria della giustizia distributiva. Questo principio è egualitario ma al tempo stesso lascia ampio spazio all’ineguaglianza. La ragione a favore dell’ineguaglianza è vista da Rawls, seguendo i dettami dell’economia classica, nella necessità di offrire incentivi economici a quanti – essendo dotati di talento - sono in grado di contribuire più della media al prodotto sociale. Costoro, si ritiene, senza incentivi non si darebbero da fare più dello stretto necessario. Cohen rifiuta questa tesi standard. Vede al suo interno una tensione: senza un ethos egualitario – a parer suo - non si può convintamente difendere l’eguaglianza politica. La seconda obiezione è, invece, di natura meta-etica, e riguarda la natura stessa del concetto di giustizia. Da questo punto di vista, Cohen critica il costruttivismo rawlsiano, che giudica in qualche modo troppo ambizioso, in nome delle nostre intuizioni etico-politiche. Volendo ridurre tutto al minimo, si potrebbe anche dire che la prima critica, quella di sostanza, dipende dal fatto che Cohen è socialista e non liberale, e la seconda, quella di metodo, dal fatto che è (accademicamente) inglese e non americano. Quello che è certo, però, è che ci troviamo di fronte a un libro serio e ben argomentato, ancorché difficile, che fa riflettere sui destini del socialismo in un’età di crisi.
Gerald Allan Cohen, Per l’eguaglianza e la giustizia , L’asino d’oro, Roma, pagg. 520, € 25

Il Sole Domenica 22.10.17
Estetica
Il bello, il brutto e il tragico
di Remo Bodei

Nel Novecento il brutto e il tragico sembrano confluire in un’unica corrente. Gli orrori delle guerre e degli stermini hanno acuito la consapevolezza di una condizione umana di fondo che l’armonia del bello classico ha fatto spesso dimenticare. In questa prospettiva, il tragico (e non solo le considerazioni precedenti sulla tragedia) riflette su ciò che mette potentemente in contatto gli uomini con nuclei di esperienza traumatici che necessitano di infinita elaborazione. Si tratta, infatti, di forme e contenuti eccedenti (che racchiudono i momenti decisivi o più solenni dell’esistenza: la nascita, il dolore, la malattia, il passare inesorabile del tempo, i conflitti, le passioni intense, il distacco dalla patria e dalle persone care, la morte) che, come specie e come individui, non siamo capaci di accettare, elaborare e decifrare completamente.
L’emozione estetica prodotta dalle tragedie – e, in una certa misura, dalle opere d’arte in genere – aiuta a scontare in parte e, per così dire, a rate l’importo traumatico, mettendoci a contatto, pur con un margine di sicurezza, con quelle sofferenze che ogni vita e ogni cultura comporta. Questo perché l’arte tragica esibisce una famiglia di metodi per consentire una re-immersione non rischiosa e distruttiva nel perturbante […] Non si deve però intendere la funzione della tragedia (e del tragico che la interpreta) semplicemente come una mitridatizzazione, un vaccino per abituarsi e rendersi insensibili al perturbante, bensì – anche e soprattutto – come un percorso per elaborarlo senza sopprimerlo, uno strumento per mettersi in rapporto con esso in tutta la sua serietà […]. Si è attratti da ciò che turba, perché lo si vuole conoscere e far proprio, pur senza consumarlo per intero a favore di convinzioni tranquillizanti o di frettolose razionalizzazioni. L’emozione estetica appare allora intimamente connessa all’esperienza del disincagliarsi dalla banalità del quotidiano e alla contrastante spinta a ripercorrere e rielaborare determinati traumi in forma attenuata o, comunque, intrecciata al tentativo di far fronte a interrogativi che non possono essere immediatamente assorbiti dalla coscienza e che, in quanto tali, premono sordamente su di essa senza ottenere plausibili risposte.
Non si tratta, dunque, di acclimatare e depotenziare il perturbante, bensì di restarne coinvolti, senza, tuttavia, lasciarsene vincere. È questo, probabilmente, il motivo per cui la tragedia e l’arte in genere mantengono il mirabile equilibrio tra l’apparente serenità della loro espressione estetica e l’eccesso sregolato di coinvolgimento psichico che caratterizza l’esperienza extra-artistica, incapace di mantenere le distanze rispetto alle tragedie dell’esistenza ed esposta pertanto al pericolo di sprofondare in un abisso informe.
Diversamente da quanto accade per lo più nel vissuto, dove si passa dall’insensibilità e dalla prostrazione allo slancio sregolato o al tumulto delle passioni, le grandi opere d’arte (come esemplarmente mostrano l’Edipo re di Sofocle, il Cristo morto del Mantegna o la Pietà di Michelangelo) condensano all’estremo in forme ’belle’ i loro dirompenti contenuti, li comprimono sino a provocare idealmente, al loro contatto, l’esplosione dei vari significati e lo scatenamento dell’emozione. Ed è, forse, proprio per questo che l’opera d’arte mantiene la razionalità in tensione, evitando il suo inaridimento in una logica piatta, non agitata da interni squilibri o conflitti, e lasciando, invece, che i prepotenti agglomerati di pensieri, passioni, fantasie e sensazioni in essa accolti si facciano strada da soli, si scompongano e si diramino per molte vie. Da tale punto di vista, si potrebbe leggere l’emozione estetica come il contraccolpo di una ingovernabile eccedenza di senso capace di scuotere e mettere in moto sia la fantasia, sia la ragione: essa non costituirebbe, quindi, un fattore irrazionale, bensì un cantiere sempre aperto al cui interno si ’lavorano’ blocchi emotivi che contengono implicitamente nuclei di ’verità’ psicologicamente o culturalmente non ancora completamente riconosciuti e accettati, ma carichi di tensione. Si tratta, per un verso, di grumi d’angoscia, di dolore e, per un altro, di speranze deluse.
Se così è, può allora ricevere qualche lume anche la continuità e la fruibilità di lunga durata delle tragedie e delle grandi opere d’arte in genere, vale a dire il perché sia possibile goderne anche dopo millenni di sconvolgimenti culturali e di rivoluzioni del gusto. L’estetica storicistica – con ragioni polemiche, talvolta condivisibili, contro astratte generalizzazioni – insiste sul carattere storicamente determinato delle opere d’arte, ma perde di vista il costante, ossessivo ritorno, pur nelle loro infinite variazioni, di nuclei tematici perturbanti ed eccedenti. La comune natura umana, cui si fa in qualche caso riferimento per offrire una spiegazione di simile persistenza, è segnata dalla rielaborazione continua di esperienze incomplete, insature. L’opera d’arte non rispecchia, dunque, soltanto il proprio mondo storico, di cui costituirebbe una semplice testimonianza: è, piuttosto, essa stessa ad aprirne il senso profondo e a renderlo intuitivamente riconoscibile.
In sostanza, l’arte non rappresenta solo una terapia di lunga durata che ha la funzione di porre i singoli e i gruppi sociali in relazione con il perturbante, ma una strategia, cognitiva ed emotiva insieme, che comunica i propri contenuti senza passare attraverso i normali filtri logici e senza subire passivamente il predominio della prova di realtà, ma che, non per questo, rimane priva di una sua specifica ’verità’, coinvolgente e stravolgente rispetto alla comune esperienza ’normalizzata’. Il tragico e l’arte in genere – ma, in particolare, la poesia e la letteratura –, non hanno, in altri termini, né un puro valore logico o percettivo (teso verso il principio di realtà), né un puro valore edonistico (teso verso il principio del piacere). Non sono né realtà, né illusione.
Brano tratto dalla nuova edizione, ampiamente accresciuta, del saggio di Remo Bodei, Le forme del bello (il Mulino, pagg. 220, € 16) in libreria in questi giorni

Il Sole Domenica 22.10.17
A 100 anni da Caporetto / Il trauma nazionale
Esame di coscienza dell’Italia
di Emilio Gentile

Dopo la disfatta, studiosi e combattenti costituirono un Comitato per un’analisi scientifica e politica dei fatti Una riflessione forse da ripetere per la storia recente italiana
Si suicidò il 4 novembre 1917 il senatore Leopoldo Franchetti. Aveva settanta anni, e ne aveva dedicati oltre quaranta, come studioso e come politico, all’emancipazione dei contadini e del Mezzogiorno, che da giovane aveva percorso a cavallo per conoscere personalmente le condizioni economiche e amministrative delle province meridionali. Di famiglia ebraica livornese, ricco proprietario terriero, conservatore liberale, lasciò le sue terre ai contadini, che le lavoravano, e il suo patrimonio a un istituto di beneficenza. Fautore dell’intervento italiano nella Grande Guerra, si uccise perché affranto dalla catastrofe di Caporetto.
Per lo stesso motivo, fu sul punto di farsi «saltare le cervella» Leonida Bissolati: «È finita per noi. Noi dobbiamo scomparire. Noi siamo stati coloro che hanno fatto il sogno della più grande Italia. Abbiamo voluto creare un’Italia militare. Abbiamo errato. Costruivamo sul vuoto. Gli italiani non erano preparati. Noi ci facevamo illusioni: noi abbiamo con questo trascinato l’Italia a questo punto. Perciò dobbiamo pagare, e scomparire». Bissolati non era un nazionalista: era un socialista riformista, interventista democratico, volontario e combattente a 58 anni, assertore del principio di nazionalità, tanto che dopo la guerra si oppose all’annessione all’Italia di territori dove la popolazione non era in maggioranza italiana.
Il proposito del suicidio non sfiorò il generale Luigi Cadorna, capo di Stato maggiore dell’esercito, che addossò la colpa della disfatta alla viltà dei soldati e alla propaganda disfattista dei neutralisti. Altri considerarono la rotta di Caporetto uno «sciopero militare», fomentato dai socialisti e suscitato dall’esempio della rivoluzione in Russia, oppure una rivolta dei fanti contadini che versavano maggior copia di sangue nella «guerra dei signori», costretti a combattere e a morire sotto la sferza di una ferrea e spietata disciplina.
Nessuna di queste spiegazioni era prossima alla verità di un disastro che aveva origini e cause esclusivamente militari, anche se la gravità delle sue conseguenze indusse molti contemporanei a considerare la rotta di Caporetto la rivelazione di una profonda crisi morale, che coinvolgeva, nell’attribuzione delle responsabilità, oltre ai comandi militari, l’intera classe dirigente.
«Catastrofi come la presente non si esauriscono in una causa occasionale, ma sono il risultato di fattori complessi, molteplici, remoti», scriveva Giuseppe Prezzolini, interventista e volontario in guerra, all’indomani di Caporetto, in una delle più acute analisi delle carenze militari, politiche e sociali, che avevano reso possibile la trasformazione di una disfatta militare in una catastrofe nazionale, che pareva travolgere l’esistenza stessa dell’Italia unita, mostrando la fragilità delle sue precarie fondamenta statali e morali.
Anche se, un decennio più tardi, un grande storico come Gioacchino Volpe, militante nazionalista e fascista, ironizzava su quanti, per spiegare Caporetto, «la pigliavano di lontano e rivangavano tutta la storia d’Italia, presentandola quasi come teologicamente orientata verso Caporetto», all’indomani della catastrofe, con il nemico che occupava gran parte del Veneto, intellettuali e politici non afflitti da retorica ritennero necessario affiancare, alla resistenza armata dell’esercito, un «esame nazionale» per suscitare una resistenza morale non occasionale ma tale da operare nel profondo della coscienza collettiva. Nel novembre 1917, alcuni studiosi e combattenti di vario orientamento costituirono un Comitato per l’esame nazionale, col proposito di riscrivere la storia italiana dal Rinascimento alla Grande Guerra alla luce della rotta di Caporetto.
La premessa dell’iniziativa non era soltanto scientifica, ma esplicitamente politica, perché i promotori facevano risalire le «responsabilità mediate e profonde» di Caporetto, «a cinquant’anni di mal governo, di corruzione politica, di dittature parlamentari, di menzogne elettorali, di assenza della scuola popolare, di voluto e sistematicamente procurato servilismo in tutti i rami di funzionari, di assenza di dignità, di forza, di volontà nei rappresentanti dello Stato». L’iniziativa ebbe molte adesioni. Benedetto Croce, che pure era stato contrario all’intervento italiano, lodò «l’ottimo proposito di promuovere un esame di coscienza della vita nazionale» perché, avendo da «sempre frugato con animo ansioso e doloroso le pagine della storia d’Italia», aveva potuto «osservare che la storia, la storia vera d’Italia, è quasi ignota a tutti».
Non fu tuttavia con i libri di storia che l’Italia resistette dopo Caporetto fino a Vittorio Veneto, dove concluse vittoriosamente la guerra. Eppure, se vinse, fu perché fu in grado di trarre una lezione efficace dall’esame nazionale al quale Caporetto l’aveva costretta.
Può apparire oggi ingenua l’iniziativa di un esame di coscienza nazionale per fronteggiare una disfatta militare. Eppure, una simile ingenuità fu condivisa, due decenni più tardi, da uno dei grandi storici del Novecento, Marc Bloch, di fronte al crollo della Francia invasa dalle armate hitleriane nel giugno 1940, che certamente fu catastrofe nazionale di più vaste e gravi dimensioni di quella subita dall’Italia con Caporetto. Bloch aveva combattuto nella Grande Guerra e di nuovo era stato mobilitato all’inizio della Seconda guerra mondiale. Anch’egli volle rendersi conto della «strana disfatta», come la definì, del suo Paese, domandandosi: «Di chi la colpa?». E Bloch pensava, come i suoi predecessori italiani dopo Caporetto, che la ricerca doveva svolgersi non solo nel campo militare, ma si doveva scovarne le radici «più lontano e più in profondità». E sotto l’occupazione tedesca, Bloch scrisse un esame di coscienza in quanto francese, per comprendere «il più atroce crollo della nostra storia», confessando che non affrontava «a cuor leggero questa parte del mio compito. Francese, mi vedrà costretto, parlando della mia patria, a non dirne soltanto bene; ed è penoso dover denunciare le debolezze della madre dolente». L’esame di coscienza portò Bloch a combattere nella resistenza francese e a morire fucilato dai tedeschi il 16 giugno 1944, dopo essere stato per mesi torturato.
A cento anni da Caporetto, a quasi ottant’anni dalla «strana disfatta» francese, gli esami nazionali possono apparire ingenui o anacronistici. Tale può apparire anche il suicidio di Franchetti. Altre catastrofi ha subito l’Italia nel corso degli ultimi cento anni, sia pure di diversa gravità: l’8 settembre 1943; la «Caporetto economica» del 1973; il disfacimento della «repubblica dei partiti» dopo il 1993. Ma non risulta che ci siano stati altri nuovi esami nazionali. O, se ci sono stati, l’Italia non li ha superati. Forse per questo l’Italia vive da decenni sotto il segno di una perenne disfatta. Tentare allora un nuovo esame nazionale?

Il Sole Domenica 22.10.17
Luigi Cadorna
Il «generalissimo» della sconfitta
di Raffaele Liucci

«Quale disastro più grande del mio? In dieci giorni io, l’idolo dell’Italia e dell’Europa, si può dire, sono giunto al fondo della miseria». La parabola del piemontese Luigi Cadorna (1850-1928), il «generalissimo» travolto da Caporetto, sembra una metafora dell’esistenza umana, spesso soggetta a crolli fulminei. Lui, il capo di Stato maggiore detentore di un potere pressoché assoluto su oltre due milioni di uomini, costretto a subire l’onta d’una Commissione d’inchiesta! Figlio di un generale che nel 1870 aveva liberato Roma, non riuscirà mai a raggiungere Trieste (conquistata invece dal successore, il napoletano Armando Diaz). Nel nuovo clima di concordia nazionale, il regime fascista lo seppellì con tutti gli onori, dedicandogli strade, piazze e un famedio nella natia Pallanza, ma sarà soltanto un modo per rimuoverlo un po’ più in fretta.
Ancora oggi è difficile fare i conti con una personalità tanto ingombrante, scrive lo storico Marco Mondini: autore non di una biografia in senso stretto, quanto di un affascinante scavo nell’universo mentale e antropologico del «cadornismo», basato sulla riscoperta del vastissimo archivio della Commissione d’inchiesta su Caporetto, ma anche sullo spoglio di molta inesplorata pubblicistica militare del tempo. Soltanto adagiandolo su un più ampio contesto storico è infatti possibile affrancare Cadorna dagli stereotipi apologetici o denigratori.
Mondini non tace le innegabili pecche di un uomo reputato dai suoi critici un «macellaio», reo di aver costretto centinaia di migliaia di fanti a una morte inutile. Però scansa anche ogni lettura anacronistica, come quella di Emilio Lussu, autore di Un anno sull’altipiano, uscito per la prima volta a Parigi nel 1938. Celebrato in molte antologie scolastiche, questo memoir «a forti tinte ideologiche» ha imposto definitivamente nell’immaginario collettivo la vulgata della Grande Guerra sul fronte italiano «come un sadico gioco al massacro da parte di una banda di generali psicopatici».
È vero, scrive Mondini, Cadorna fu l’uomo dei tribunali speciali, delle decimazioni, delle insensate e sanguinose offensive lungo l’Isonzo. Ma Cadorna non sbucava dal nulla. Era «un generale tra altri generali», figlio di una cultura militare ultraconservatrice nella quale i coscritti non erano titolari di «diritti», l’esercito restava un corpo separato e chi assaltava un avamposto con la baionetta godeva di una superiorità morale e tecnica rispetto a chi lo difendeva («vincere significa avanzare»). Gli Stati Maggiori europei, figli dell’Ottocento, assimileranno con estrema lentezza le novità introdotte dalla guerra industriale di massa novecentesca: le fortificazioni rese pressoché inespugnabili dalla precisione e rapidità delle nuove armi difensive; la necessità di governare un esercito di cittadini-soldati guadagnandosi la fiducia della truppa; l’inevitabile sinergia fra il ceto militare e quello politico.
Cadorna commise l’errore tipico di tutti i personaggi imperiosi: circondarsi di un cerchio magico di fedelissimi. Il che ne rafforzò l’isolamento fisico e culturale. Il capitolo dedicato alla sua «corte feudale», pullulante di vassalli e scudieri, è uno dei più suggestivi del libro. Dispotico, impulsivo, solipsista, il misantropo che si aggira nervosamente fra i corridoi e i saloni dell’aereo Castello di Udine (sede del Comando Supremo italiano) silurando in modo compulsivo centinaia di alti ufficiali «inetti», sembra uscito dalla penna di un Gadda o un Thomas Bernhard.
Tra i consiglieri di Cadorna ci fu anche un altro monarca assoluto, Luigi Albertini, direttore del «Corriere della Sera», il quale nutrì per il Capo un «feticismo» che imbarazzava persino i fedelissimi. Ma la presenza di Albertini richiama anche il ruolo ricoperto da altri giornalisti e letterati (Barzini sr, d’Annunzio, Ojetti) nella costruzione del mito di Cadorna, accettato supinamente «da una nazione in cronica penuria di eroi», pronta però incolparlo di ogni rovina, una volta caduto in disgrazia.
Esponente emblematico – «per certi versi persino mediocre» – della sua generazione, Cadorna era un cattolico praticante, fatto inconsueto per un generale formatosi in età liberale e proveniente dall’aristocrazia militare sabauda. Riteneva l’irreligiosità diffusa nelle forze armate un ostacolo al mantenimento della disciplina, «fiamma spirituale della vittoria». Giudicherà sempre Caporetto un’autobiografia della nazione. Tracollo dovuto non agli alti comandi militari, bensì al cedimento morale della truppa, complice la «propaganda disfattista» e pacifista nutrita dai «partiti sovversivi che hanno inquinato l’esercito». Una versione autoassolutoria, ormai smentita dalla storiografia.
Marco Mondini, Il Capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna , il Mulino, Bologna, pagg. 388, € 26

Il Sole Domenica 22.10.17
Agrippina degli Imperatori
La «lectio magistralis» sulla figlia di Germanico, sorella di Caligola, nipote e moglie di Claudio, madre di Nerone
di Andrea Carandini

Conosciamo la storia di Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone per come si è svolta anno per anno grazie a Tacito e a Cassio Dione e in modo sintetico vita per vita grazie a Svetonio. È un patrimonio straordinario di notizie, ma a me pare che manchino due dimensioni necessarie al senso della vita: un punto di vista interessato e individuale e i paesaggi e le architetture nei quali gli eventi si sono svolti, componenti al contrario presentissime nel romanzo moderno. Così mi è venuto il desiderio di reimpossessarmi delle vite dei Cesari da un punto di vista autorevole ma insolito, usando le mie conoscenze archeologiche per capire il racconto a partire dai luoghi e dalle costruzioni. Gli storici giudicano gli spazi irrilevanti, ma sbagliano. Capiremmo Luigi XIV senza Versailles?
Un precedente narrativo clamoroso è rappresentato da I Claudius di Robert Graves, del 1934, ma il punto di vista non è insolito, trattandosi di un principe, e mancano del tutto le scene tridimensionali. Da oltre un trentennio passo le mie estati a Deià nell’isola di Mallorca, il villaggio dove Graves ha vissuto. Così, da lui ispirato, mi è venuto in mente di scrivere un pendant: Io Agrippina. la nipote e moglie di Claudio.
Parrebbe una impresa antistorica, eppure non lo è, ché se i Cesari hanno scritto loro memorie, anche Agrippina – caso straordinario – ha scritto Commentarii, come se fosse stata un magistrato e un comandante di legioni. Era una delle tante donne che hanno anche le qualità degli uomini, realtà che oggi apprezziamo, ma che gli antichi mal sopportavano per il loro supremo maschilismo. Infatti a Roma non sono esistite ufficiamente principesse o imperatrici, ma nella realtà?
Allora ho cominciato a rileggere le fonti, sempre considerandole da quella che potrebbe essere stata l’ottica di Agrippina – gli autori parlano sovente di lei, citando anche fatti tratti dai Commentarii – rispettando gli anni quanto i luoghi. Operazione non facile, perché i Commentarii – orribile perdita – non sono giunti fino a noi. Pierre Grimal ha tentato di risuscitarli, a mio avviso senza riuscirvi, per cui ho pensato di ritentare l’esperimento mettendo al centro il punto di vista di una femmina (anche al maschile) che vive e si muove in paesaggi dell’anima e in paesaggi del mondo, che tra loro si incontrano e scontrano(e l’editore Laterza in ciò mi ha incoraggiato).
Il dramma comincia con Augusto che abbandona sua moglie Scribonia che nel ventre ha una bambina, Giulia. Lui ha perso la testa per Livia, che anche lei ha nel ventre un bambino, Druso, avuto dal marito, un Domizio Enobarbo. Ma Livia non darà figli ad Augusto: problema enorme per un principe, cioè un monarca anche se in veste repubblicana. E allora, come dar vita alla dinastia dei Cesari, senza regolare la successione, che sarebbe con ammettere una regalità, impossibile a Roma?
Dal punto di vista dei Giuli - famiglia dal sangue celeste perché discendeva da Venere – ad Augusto doveva succedere uno dei tre figli di sua figlia Giulia. Invece, dal punto di vista dei Claudi - famiglia nobilissima ma priva di sangue divino – doveva succedere Tiberio, il primogenito di Livia.
Ha provveduto la crudele sorte e la mortifera Livia a spianare la strada al figlio: i tre figli di Giulia sono morti tutti giovani, uno o due eliminati da Livia, e Tiberio succederà ad un Augusto scontento di avere come erede il figlio di un nemico. Alla fine Livia ha prevalso su Augusto, anche perché è stata lei a finirlo con funghi avvelenati: non voleva che riabilitasse il terso figlio di Giulia, Agrippa, come era intenzionato di fare.
Ma Giulia aveva avuto anche una figlia, Agrippina, che ha sposato Germanico figlio di Druso, il secondogenito di Livia. Nei piani di Augusto, Germanico avrebbe dovuto succedere a Tiberio, ma Tiberio e Livia lo hanno fatto avvelenare e Agrippina è stata esiliata a Ventotene, dove era stata relegata Giulia, sua madre.
Tiberio, per spianare il futuro al proprio figlio Druso, ha proceduto nelle stragi, eliminando i figli maschi di Agrippina, possibili rivali, salvo uno, Caligola, che poi gli è succeduto, ma con pessimo risultato essendo un folle. Era innamorato di sua sorella Drusilla e detestava detestato le altre due sorelle, tra cui era Agrippina, l’autrice dei Commentarii, l’ultima donna nelle cui vene scorreva il sangue celeste dei Giuli.
Agrippina è riuscita nell’impossibile: sposare il successore di Caligola e cioè suo zio Claudio, succedendo alla libidinosa Messalina morta ammazzata. Ha sposato il principe con una sola idea in testa, che a succedere a Claudio fosse, non Britannico figlio di Messalina, ma il proprio figlio, dovuto a un altro Domizio Enobarbo, che Claudio avrebbe dovuto adottare. Agrippina ha vinto Claudio come Livia aveva vinto Augusto, anche perché ha ucciso suo marito con funghi avvelenati. Così suo figlio, che era riuscito a farsi adottare da Claudio con il nome di Nerone, è diventato imperatore. Nerone avvelenerà poi l’ultimo possibile ingombro, cioè Britannico figlio di Claudio, di cui aveva sposato la sorella, Ottavia.
Come Tiberio non sopportava le pressioni di sua madre Livia, tanto da rifugiarsi a Capri, così Nerone non sopportava le pressioni di Agrippina, tanto da farla ammazzare nel più rocambolesco matricidio che la storia conosca. Ma le memorie di Agrippina sopravviveranno nell’antichità - anche se non fino a noi –, nonostante la furia distruttrice di Nerone (io penso grazie all'astuzia dell'autrice e a un fedele liberto).
Insomma, Agrippina era figlia di Germanico, l’imperatore che aveva trionfato sui Germani, ed era sorella di Caligola, nipote e moglie di Claudio e madre di Nerone. A essere imperatore toccava a lui ma a imperare doveva essere lei, e per questo è stata esiliata.
Nessuno più di Agrippina conosceva le verità dell’augusta casata, salvo i muri del palazzo. Ma i muri parlano con le mani come i muti, cioè per icone, mentre Agrippina sapeva apprezzare le architetture ed era anche una letterata.
Un’ultima curiosità. Agrippina è stata partorita da sua madre Agrippina in un campo militare sul Reno, Ara Ubiorum. Ma lei, come un generale vittorioso, ha promosso l’elevazione di quell'abitato al rango di colonia: Colonia Agrippinensium: la gran signora di Roma era diventata la patrona degli Ubii, ormai chiamati Agrippinenses. E questa Colonia è l’attuale Colonia, cioè Koeln.