Il Fatto 20.10.17
Piacere Mannarino, brasiliano capitolino
Esce
“Apriti cielo live”, primo album dal vivo dell’artista: “Ogni serata è
diversa Ci sono canzoni che funzionano più in una città, altre che
suscitano cose diverse in altri luoghi”
di Giampiero Calapà
“La
mia musica per reinventare il cantautorato italiano”. Alessandro
Mannarino ha vinto la partita del quarto album, un successo tradotto in
100 mila biglietti venduti per il tour appena concluso. Tanto che Apriti
cielo raddoppia e diventa Apriti cielo live, da oggi in cd. “Sento di
aver chiuso un ciclo”.
Nonostante tutto Mannarino rimane una specie di eterno outsider, non trova?
Dipende che significa outsider. Per i risultati, in termini di dischi venduti e di presenze ai concerti, appunto, non lo sono.
Per il mainstream sì però…
Sì,
perché sono un outsider per il modo di fare musica, faccio ricerca per
fare canzoni belle, non per il mercato inseguendo i “tormentoni”, ecco
quelli non li troverete mai nei miei dischi.
È giusto non collocarla nella categoria “indie pop”?
Sì, perché non mi ci ritrovo sicuramente, non solo a livello di estetica.
Ma i cantautori non ci sono più…
È
una figura sparita in Italia. Ho preso lezioni dai brasiliani infatti,
da Caetano Veloso a Gilberto Gil. Sono artisti di un’altra generazione
ma sanno ancora fare dischi che parlino anche alle giovani generazioni,
senza aver abbandonato i loro coetanei. Nei loro testi c’è ricerca,
critica politica, ma al ritmo ballabile. Una canzone di Chico Buarque si
può ballare sulla spiaggia, ma magari ti sta parlando delle atrocità
della dittatura.
Non basta più una voce e una chitarra, insomma, per fare il cantautore oggi?
Direi
di no. A me piace fare musica che reinventi il cantautorato proprio da
questo punto di vista. È la musica che deve funzionare senza parole
oggi, non viceversa.
Dopo il bagno di folla di questa estate anche lei ha ceduto all’album live.
Sì,
perché credo di aver chiuso un ciclo. Il live fa capire quanto
l’incontro con il pubblico cambi ad ogni nuovo palco. Ogni sera. Non c’è
stato un concerto uguale la passata estate. Ci sono canzoni che
funzionano più in una città, altre che suscitano cose diverse in altri
luoghi. Devo dire abbiamo capito subito con la straordinaria band che mi
ha accompagnato (compreso Mauro Refosco, già percussionista dei Red Hot
Chill Peppers, ndr) che questo tour avrebbe meritato il live, ce lo
siamo detti già durante la prima serata.
Si è portato dietro una bandiera di stracci, un vessillo fatto di pezzi di bandiere ritagliate e cucite. Che significato ha?
Cucito
nel vessillo c’era anche un pezzo di cuscino che ho usato per dormire
mentre registravo il disco. Significa che la mia identità non è data dal
documento assegnato dal Comune, ma dal fatto che sono un essere umano.
Le bandiere, quando sono tagliate e ricomposte, diventano più belle. Non
riconosci la finta appartenenza, restano solo i colori. È il mio modo
di ribellarmi allo Stato e alla società paternalista.
C’è una sua canzone, Roma, che sembra raccontare la Suburra di Mafia Capitale. Ispirato dalla cronaca?
Posso
dire che la scrissi il 30 ottobre 2015, il giorno in cui i consiglieri
capitolini di maggioranza destituirono il sindaco Marino dal notaio.
“Lo manna er Cielo e Re de Roma, la tonaca e la stola pe nasconne la pistola”. Chi è che nasconde la pistola dietro la stola?
Il
papa re, dopotutto Marino fu destituito anche dalle sue parole, quando
disse che non lo aveva invitato lui a Filadelfia. Il vero re di Roma è
ancora a San Pietro.