Il Fatto 16.10.17
Bangladesh, l’inferno dei rohingya in fuga
Sono
musulmani, scappano dalle persecuzioni in Myanmar. Viaggio nel campo
profughi di Balukhali dove oltre 100 mila persone vivono in condizioni
disperate
di Cosimo Caridi
Piove a gocce grosse
come biglie. In pochi minuti il sole si oscura e con la stessa velocità
la strada si trasforma in una palude. Le capanne flettono sotto il peso
dell’acqua, i viottoli che scendono per le collinette diventano
ruscelli. Un mese fa questo era un bosco, oggi è il campo profughi di
Balukhali, dove vivono oltre 100 mila rifugiati. Ma i numeri dell’esodo
rohingya sono ancora più imponenti. Da fine agosto una violenta azione
dell’esercito birmano ha messo in fuga verso il Bangladesh oltre mezzo
milione di persone, tutte bloccate in una manciata di chilometri
quadrati all’estremo sud del Paese. In un quarto d’ora torna il sole e
illumina il fango lasciato dall’acquazzone. Il termometro schizza sopra i
35 gradi, che con l’umidità sembrano 45.
“Sono rimasto solo –
Rohaman, sedici anni, non perde il sorriso nemmeno mentre racconta il
massacro della sua famiglia – l’esercito è arrivato e ha iniziato a
sparare, era notte. I miei genitori e mia sorella dormivano, sono
bruciati con la casa”. Rohaman quella sera era da suo zio. Quando ha
visto il fuoco è scappato nella foresta. “Mi sono nascosto lì per 12
giorni – continua il ragazzo – senza mangiare, senza dormire”. Ha altri
otto fratelli, anche loro sono scappati: “Saranno in un altro campo o
forse ancora in Myanmar”. Racconta che di Buthi Dung, il suo piccolo
villaggio, non è rimasto più nulla: “Tutto è stato bruciato, le trecento
persone che ci vivevano o sono fuggite o sono morte”.
La storia
di Rohaman è piena di dettagli, di colpi di macete, di arti amputati, di
stupri, ma soprattutto di paura. Tutto questo però non è verificabile.
Il Myanmar non permette ai giornalisti e agli osservatori internazionali
di visitare il Rakine, la regione interessata dagli scontri. Le
immagini satellitari, analizzate da Human Right Watch, hanno registrato
il rogo di oltre 65 villaggi nelle ultime sei settimane. Per chi scappa
si tratta della mano incendiaria dell’esercito birmano. Per i generali,
invece, sono gli stessi rohingya a dar fuoco alle proprie case per poi
fuggire in Bangladesh. Ma la versione della giunta militare, che guida
il Myanmar da quasi 30 anni, non convince gli osservatori
internazionali: “Le operazioni della Birmania contro i rohingya,
sembrano applicare i principi della pulizia etnica”, ha detto a metà
settembre Zeid Ràad el Hussein, l’Alto Commissario dei diritti umani
delle Nazioni Unite a Ginevra.
Le accuse della comunità
internazionale fanno ancora più rumore, perché offuscano l’aura di Aung
San Suu Kyi, icona mondiale della nonviolenza. Nel 1990, poco dopo che
la giunta militare s’impadronì del potere, Suu Kyi si presentò alle
elezioni e le vinse. L’esercito la fece incarcerare. L’anno successivo
la signora di Rangoon fu insignita del Nobel per la Pace. Da lì in poi,
fino al 2010, visse agli arresti domiciliari. Oggi, dopo aver vinto le
elezioni del 2015, sarebbe dovuta essere il primo ministro, ma i
militari le hanno assegnato un ruolo creato ad hoc: consigliere di
Stato. Per tre settimane dall’inizio della crisi, Suu Kyi ha mantenuto
il silenzio sulle violenze perpetrate contro la minoranza rohingya. Il
18 settembre ha, finalmente, detto la sua: difendendo le forze di
sicurezza che starebbero prendendo tutte le misure necessarie per non
colpire i “civili innocenti” e per evitare “danni collaterali”. Strano
che dopo anni di arresti domiciliari l’eroina birmana si schieri con i
suoi (ex) aguzzini.
All’ingresso del campo di Balukhali su un
cartellone nero si legge “Basta omicidi. Aung San Suu Kyi riconsegna il
Nobel”. Se violenze e ferite possono essere nascoste, bastano pochi
passi tra i rohingya rifugiatisi in Bangladesh per vedere i segni della
malnutrizione. Da ogni tenda spuntano bambini nudi da braccia, gambe
scheletriche e con il ventre gonfio. In piedi davanti all’ingresso della
capanna di bambù c’è una donna con un bimbo di poche settimane tra le
braccia. “Siamo scappati quando lui aveva 20 giorni – spiega Nurtaz
Bagan, 25anni e cinque figli – non avevo latte da dargli. Prima di
arrivare qui non mangiavo da giorni”. L’esercito di Dhaka registra tutti
i rohingya che entrano nel Paese e li invia verso i campi profughi, a
pochi chilometri dal confine. Non è il governo a prendersi cura di loro,
ma le ong. Lunghe file dall’alba al tramonto segnano il ritmo dei
pasti. Dei recinti di bambù racchiudono centinaia di bambini che
aspettano nel fango. Chi di loro ha un piatto lo usa per ripararsi dal
sole. Dai pentoloni escono mestolate di riso e salsa piccante. Non ce
n’è per tutti. Si corre, si litiga, qualcuno scoppia a piangere, molti
resteranno a digiuno anche oggi.
Un mormorio ritmico e ripetitivo
arriva dalla cima di una collinetta. Uomini in galabeya bianca e barba
lunga appoggiano la fronte a terra. La moschea è il luogo più pulito di
tutto il campo. Il trentenne Ayoub Khan sorregge il padre anziano mentre
si infila le ciabatte dopo aver terminato il rito della preghiera. “Non
meritava di lasciare la sua casa prima di morire – dice mentre prende
sottobraccio il genitore e lo accompagna verso la tenda – ci danno la
caccia perché siamo rohingya, perché siamo musulmani”. Ayoub divide la
capanna con tutta la famiglia allargata, meno di 20 metri quadrati dove
dormono e mangiano 13 persone. “Sono laureato, ma non mi hanno mai fatto
lavorare. In Birmania noi rohingya non possiamo avere impieghi
qualificati. Ci odiano e ci perseguitano”.
In Myanmar la
maggioranza della popolazione è buddista. I rohingya sono confinati nel
nord del Paese, alla frontiera con il Bangladesh. Nei secoli quell’area
passa di mano diverse volte. Si crea così una minoranza musulmana con
lingua e cultura diversa dal resto dello Stato. Durante la Seconda
guerra mondiale i britannici armano i rohingya, i giapponesi fanno lo
stesso con i buddisti. I massacri si susseguono per anni. Non basta la
fine del conflitto mondiale: le armi continuano ad arrivare dal Regno
Unito, questa volta per fermare l’avanzata dell’Unione Sovietica. Nel
1948 la Birmania diventa indipendente. Subito la maggioranza burma e
buddista inizia una discriminazione sistematica contro la minoranza
musulmana. Media e società civile etichettano i rohingya come migranti
illegali bangladesi. La repressione genera una resistenza violenta che
negli ultimi anni si riunisce nell’Arsa, un gruppo di matrice islamica
che lotta per la liberazione dell’Arkan, antico regno dei rohingya. Per
ogni attacco dell’Arsa l’esercito birmano colpisce i villaggi musulmani.
I civili scappano. Il copione si ripete, fino a degenerare ad agosto
nella più grande crisi umanitaria dei nostri giorni.
Nessuno è in
grado di dare dati ufficiali né su quanti siano i rohingya entrati in
Bangladesh né su quanti ce ne siano nei campi. Lungo le strade che
attraversano gli insediamenti gli uomini camminano schiacciati dal peso
dei lunghi bambù che trasportano. “Dieci pali lunghi quattro metri –
dice un ragazzo con gli alberi in equilibrio sulla spalla – due teloni
di plastica e qualche cordino. Basta questo per costruirmi casa”. Tra il
fango e la pioggia i profughi stanno costruendo una città con canne di
bambù. Le tagliano, legano e intrecciano, trasformandole in tetti, muri e
recinti. Tutto destinato a durare meno della stagione monsonica.
Non
c’è un piano di sviluppo, non ci sono bagni né acqua corrente. Mancano
le scuole e le strutture sanitarie, ma si contano già decine di moschee.
Le fogne non sono altro che dei canali di scolo che scaricano in mezzo
alle colline, proprio accanto ai primi embrioni di negozi. L’odore acre
di feci mischiate ad acqua lasciata al sole, è un campanello d’allarme
importante. La organizzazione mondiale della Salute ha già annunciato un
piano di vaccinazioni obbligatorie contro il colera.
I campi si
snodano per una lingua d’asfalto lunga quasi dieci chilometri, alle due
estremità i posti di controllo dell’esercito di Dhaka. I rohingya
possono entrare, ma non uscire. Siamo nel distretto di Cox’s Bazar, la
riviera romagnola del Bangladesh, 120 chilometri di spiaggia con sabbia
bianca, la perla del turismo nazionale. Il mezzo milione di rifugiati ha
visto quel mare solo una volta, quando lo ha attraversato scappando
dalla Birmania.
Shamlapur è un villaggio di pescatori, il Myanmar
dista meno di un’ora di navigazione. Sul bagnasciuga sono adagiate
diverse barche lunghe una decina di metri, hanno poppa e prua affusolate
verso l’alto. “Ci sono stati molti naufragi – racconta Saad Bin
Hossain, regista di Dhaka che sta documentando la fuga dei rohingya –
lunedì scorso l’ultimo. Sono arrivati a riva 12 cadaveri, dieci erano
bambini”. L’acqua è scura, carica della terra che i monsoni gettano in
mare. “Si può attraversare il confine anche a piedi – continua Saad – ma
è più pericoloso. Ho visto il corpo di un ragazzo imputridire nella no
man’s land, ha pestato una mina anti-uomo, con lo zoom della telecamera
lo potevo vedere in faccia, i suoi resti sono ancora lì”.