Il Fatto 16.10.17
“Viva Caporetto”, la rivolta del popolo contro la casta
A
cento anni dalla disfatta del 1917 l’analisi più attuale resta quella
provocatoria che fece a caldo Curzio Malaparte: non fu una ritirata, ma
una ribellione a una élite inetta e corrotta che aveva mandato i soldati
al massacro
di Filippomaria Pontani
A cent’anni
di distanza, non c’è nulla di più attuale del primo libro dedicato da un
grande intellettuale italiano alla disfatta per antonomasia della
Grande Guerra: Viva Caporetto, opera prima di Curzio Malaparte, fu
scritto tra il 1918 e il ‘19, uscì nel ‘21, e per la sua violenza
verbale fu sequestrato e ristampato subito in forma riveduta e con un
altro titolo, La rivolta dei Santi maledetti (da cui cito), anch’esso
peraltro sequestrato prima nell’Italia liberale del tardo 1921 e poi in
quella fascista del ‘23. La tesi di fondo è semplice, anche se
discutibile: Caporetto non è stata una vergognosa ritirata, ma anzi il
momento culminante di una rivoluzione sociale mossa dal popolo delle
trincee, quel popolo misto che un’élite politica e militare cialtrona e
corrotta aveva mandato allo sbaraglio, e che con il disobbedire, col
sabotare, col denunciare le inutili stragi, l’assurdità degli ordini e
l’assenza di strategia, già prima della ribellione operata “gettando lo
scudo” nell’ottobre del ‘17, si era esposto a ritorsioni, fucilazioni
sommarie, o come minimo alla pesante accusa di disfattismo.
“Dire
la verità è fare del disfattismo” pare abbia detto un giorno del ‘17 il
generale Di Robilant, comandante della IV armata. La verità era che il
sentimento patriottico nel Paese non lievitava, e che col passare dei
mesi si approfondiva il solco di incomunicabilità e diffidenza tra le
classi dirigenti (molti gli interventisti da salotto, non di rado
imboscati; i pacifisti, loro, mantenevano agli occhi di Malaparte almeno
una dignitosa coerenza) e le masse dei combattenti, sempre più
insofferenti dei “lustri e sdegnosi ufficiali di cavalleria, dei
panciuti e pettoruti ufficiali superiori”, di Cadorna “chiuso nella sua
lucente armatura di princìpi e di tradizioni, alto nella sua
aristocratica fierezza”. “Non amo un generale alto, che sta a gambe
larghe, / fiero dei suoi riccioli e ben rasato. / Uno basso ne voglio,
con le gambe storte, / ma ben saldo sui piedi, e pieno di coraggio”:
forse memore della nota satira del greco Archiloco, il colto Malaparte
constata la sostanziale sfiducia di Cadorna nei confronti delle sue
truppe (un errore di valutazione e di ethos su cui torna oggi lo storico
Marco Mondini nel fresco saggio Il capo, che tiene dietro
all’imprescindibile La guerra italiana del 2014, sempre per i tipi del
Mulino), e salva solo gli ufficiali di trincea, i “pastori di genti”
(omericamente, i “poimènes laòn”) i quali compartivano con le reclute
l’insensatezza degli ordini e l’orrore della carneficina. Quegli stessi
che, passata la catastrofe, il generale Diaz mise al centro del suo
piano di rivitalizzazione di un’armata destinata alla riscossa.
Interventista
della prim’ora e precoce volontario in Francia, dove poi nel ‘18 fu
gravemente ferito ed ebbe i polmoni corrosi dall’iprite, Malaparte non
accusa però solo la “confraternita di unti dal Signore” abituati a
lambiccare strategie in una concezione astratta “che risentiva molto
delle ville venete, non del fango e del sangue delle trincee”. Il suo
disgusto – che è quello degli antichi combattenti per nulla convertiti
all’antimilitarismo – si estende al “bosco elegante ed umanitario” delle
crocerossine, ai giornalisti superficiali o prezzolati, alla retorica
vuota e gratuita in cui si bagna un Paese di ciurmadori e politicanti,
il Paese dell’ “armiamoci e partite”. Un Paese che (come aveva
ricordato, in altro senso, l’interventista Apollinaire – amico di
Malaparte al “Lapin agile” di Montmartre – nell’ode All’Italia del 1915)
più degli altri dovrebbe sentire responsabilità dinanzi agli uomini
quando il dilemma si pone fra civiltà e barbarie: “L’Italia, dove il
diritto è nato, è fra i paesi più incivili del mondo: vi manca
assolutamente, cioè, il senso del diritto. Chi si sente cittadino, fra
noi? Chi rispetta lo Stato?”.
La realtà della barbarie della
Grande Guerra è oggi nota da molti studi; e si guarda ormai più
sobriamente alla reale portata della “dissidenza” dei soldati rispetto a
tale barbarie e a chi la ordinava. Tuttavia, a cent’anni di distanza,
Viva Caporetto è un libro notevole per almeno due ragioni: da un lato
esso aiuta a cogliere i primi germi di un sentimento di odio sociale tra
il “popolo” e la “casta”, a conoscere dunque quella humus di
risentimento e di insoddisfazione che portò molti reduci di ogni colore
ad aderire al fascismo – un approdo cui giunse lo stesso “socialista
rivoluzionario” Malaparte, per la sorpresa di Gobetti e degli
ordinovisti con cui collaborava; e fu un’adesione ricca di ombre e di
incomprensioni. D’altra parte, l’opera prima del giovane scrittore
toscano colpisce per il coraggio di un’analisi che non aspetta le “bocce
ferme” (come farà Emilio Lussu con Un anno sull’altipiano, uscito nel
1938, e a Parigi: ne fu tratto, con palese forzatura antimilitarista,
Uomini contro di Francesco Rosi), ma si sobbarca a un’operazione di
verità “in presa diretta”, esponendo l’autore ad attacchi e persecuzioni
nei primi tempi del Ventennio. Al netto delle sue derive
nazionalistiche e irrazionalistiche, e al netto di una diagnosi a tratti
volutamente provocatoria, un Malaparte polemico e non ancora
surrealista (né passibile della taccia di opportunismo, che spesso
l’accompagnerà), pianta il cuneo in quello scollamento fra propaganda e
realtà, fra narrazione delle classi dirigenti e vita dei “soldati
semplici”, fra retorica e concretezza, che anche in tempo di pace
resterà uno dei principali problemi del nostro Paese.