Il Fatto 14.10.17
Il budino letale e puzzolente dei soliti cuochi
di Gianfranco Pasquino
Inquinato,
da tempo, con riferimenti a una governabilità che consisterebbe nel
premiare con molti seggi un partito e a una rappresentanza politica che
sarebbe delega totale ai capipartito e ai capi corrente, il dibattito
sulla legge elettorale è culminato con l’affermazione di Sabino Cassese
che “la prova del budino sta nel mangiarlo” e con la sua valutazione
positiva del budino perché ha “armonizzato” le leggi elettorali per
Camera e Senato. Lascio da parte che a qualcuno, me compreso, i budini
non piacciono, ci sono comunque molte buone ragioni per evitare persino
di assaggiarlo: quando conosciamo i cuochi e, sulla base di budini
precedenti, non ci fidiamo; perché quel budino è fatto di ingredienti di
bassissima qualità già usati nel passato; perché è maleodorante e
rischia di avvelenare in maniera letale oppure lasciando durature
conseguenze inabilitanti.
Il budino Rosatellum bis sintetizza
tutte le ragioni che lo rendono pericoloso anche per la democrazia
rappresentativa. No, persino a detta dei proponenti non garantirà la
governabilità, ma le leggi elettorali, dappertutto e soprattutto nelle
democrazie parlamentari, debbono eleggere “bene” un Parlamento, mai un
governo e mai “fabbricare” una maggioranza assoluta. La governabilità la
può garantire esclusivamente una classe politica preparata, competente,
selezionata anche dagli elettori. Se i parlamentari sono tutti
nominati, dai capi dei rispettivi partiti nonché dai capicorrente (a mo’
d’esempio chiedo: rinuncerà Franceschini a nominare i suoi sostenitori?
Farà a meno Orlando di imporre i suoi collaboratori e, per cambiare
registro, ottenuta la sua personale clausola di salvaguardia-seggio, il
mio ex-studente Denis Verdini abbandonerà alla deriva i “verdiniani”?)
che tipo di rappresentanza di preferenze, di interessi, di ideali (sì,
lo so, nello slancio mi sono allargato) gli eletti saranno in grado di
offrire? Il problema non si pone soltanto proprio per quegli eletti che,
inevitabilmente, dovranno mostrare la loro gratitudine agli sponsor
(incidentalmente, per quelli che paventano le conseguenze nefaste del
voto di preferenza, davvero si può credere che le organizzazioni di
interessi, le lobby non si preoccupino di fare inserire in quelle liste
qualcuno sul quale faranno affidamento?), si pone anche per gli
elettori. Da un lato, non sapranno chi è il/la loro rappresentante che,
comunque, da loro non si farà vedere più di tanto il loro rientro in
Parlamento non dipendendo in nessun modo da quegli elettori, ma dai
capi: lo zen Renzi, l’avvocato Ghedini, Alfano e Lupi…, quegli eletti
impiegheranno il loro tempo e le loro energie in altre attività, per
esempio, nel vagabondare fra gruppi parlamentari seguendo l’acclamata
prassi italiana del trasformismo. D’altronde, non essendo stato
introdotto nella legge neppure un requisito minimo di residenza nel
collegio nel quale si viene candidati (oops, paracadutati) e anche
protetti, grazie alla possibilità delle multicandidature (fino a
cinque), bisognerebbe costruirli ab ovo quei rapporti con l’elettorato:
troppa fatica per nulla. Gli eletti potenti sapranno farsi ricandidare
altrove. In questo modo, comprensibilmente, la legge non offre
possibilità di rappresentanza politica, ma neppure di
responsabilizzazione che, ad esempio, consentirebbe agli elettori che
hanno trangugiato un budino andato a male di chiederne conto ai
parlamentari che hanno contribuito a metterlo sul mercato elettorale.
Invece, chi non può sapere da chi è stato eletto non dovrà minimamente
preoccuparsi di rendere conto dei suoi comportamenti, nel mio mantra: di
quello che ha fatto, non ha fatto, fatto male. Peccato poiché
raccontano alcuni studiosi della democrazia, persino italiani, come
Giovanni Sartori, che l’interlocuzione e l’interazione fra candidati e
elettori e poi fra i parlamentari e l’elettorato, non unicamente il
“loro” (peraltro, sconosciuto): “ogni membro del Parlamento rappresenta
la Nazione” (art. 67), stanno al cuore di una democrazia
rappresentativa, la fanno pulsare e le danno energia.
Infine,
molti studiosi e, per fortuna, anche molti uomini e donne in politica
continuano a ritenere che le leggi elettorali debbano essere valutate
anche con riferimento alla quantità di potere che consentono di
esercitare ai cittadini elettori. Una crocetta su un simbolo che serve a
eleggere un candidato e dare consenso a un partito o a una coalizione è
proprio il minimo. Per rimanere nella logica di Rosato e di chi per lui
“non si poteva fare meglio”, certo che si poteva fare meglio: con la
possibilità del voto disgiunto previsto e ampiamente utilizzato in
Germania oppure con il doppio turno nei collegi uninominali come per
l’elezione dell’Assemblea nazionale in Francia. Buttate, voi senatori,
l’Italian pudding nella raccolta indifferenziata. Non c’è nulla da
riciclare.