Corriere La Lettura 8.10.17
Invece il pennello di Rembrandt emancipa gli ebrei
Di Donatella Di Cesare
Quelle
case basse, a due piani, lungo i canali dell’Amstel, non esistono più e
l’intero quartiere ebraico, il Vlooienburg, costruito su un’isola, può
ormai solo essere immaginato. Ben poco è sopravvissuto al tempo,
all’occupazione nazista e alle ristrutturazioni urbanistiche del
dopoguerra. Resta però la Jodenbreestraat, la Strada Larga degli Ebrei.
Steven Nadler, lo storico e filosofo, famoso per i suoi studi su Baruch
Spinoza, invita a ripercorrerla, con il libro Gli ebrei di Rembrandt
(Einaudi), in un affascinante viaggio che ricostruisce la cultura e la
vita di quella «nuova Gerusalemme», come Amsterdam fu chiamata
all’inizio del Seicento. La città aveva accolto migliaia e migliaia di
ebrei e conversos , nuovi cristiani in fuga dall’Inquisizione; per
quella generosa ospitalità, su una terra strappata all’acqua, ricevette
in cambio un’imprevista età dell’oro e diventò una metropoli
cosmopolita. Prosperarono i commerci, si moltiplicarono gli scambi,
fiorirono le arti.
Il viaggio di Nadler ha inizio dalla casa di
Rembrandt al numero 4 della Breestraat, dove il pittore abitò a lungo,
dal 1639 al 1658. I suoi vicini non avevano nomi olandesi. Si chiamavano
Isaac de Pinto, Salvatore Rodriguez, Ephraim Bueno, Abraham Aboab.
Erano mercanti, medici, rabbini, membri orgogliosi della Naçao , la
nazione ebraica in esilio; parlavano portoghese, leggevano la
letteratura spagnola, sapevano l’ebraico. «Benedetto tu, o Signore, che
ci hai mostrato la tua meravigliosa misericordia nella città di
Amsterdam, degna di lode», recitava una berachà , una benedizione
dell’epoca. In Olanda gli ebrei sefarditi avevano trovato libertà di
culto. E alla metà del secolo erano considerati l’élite ebraica
d’Europa.
Sull’isola di Vlooienburg, però, i viali alberati, dove
si affacciavano gli eleganti palazzi di mattoni scuri, erano
attraversati da vicoli stretti nei quali piccole case di legno si
accalcavano l’una sull’altra. Non si parlava portoghese, bensì yiddish.
Gli ebrei ashkenaziti, poveri e trasandati, erano sfuggiti alle
persecuzioni e ai massacri che si erano ripetuti soprattutto in Polonia e
in Lituania. Tra le due comunità i rapporti erano tesi; prevalevano il
sospetto e l’estraneità. Gli ebrei ashkenaziti, forti di una continuità
che agli altri mancava, conoscevano bene la halachà , la legge ebraica,
erano maestri nel Talmud, vantavano un’osservanza più rigorosa e una più
fervente spiritualità. Inconfondibili, con i loro caftani neri e la
barba non rasata, si distinguevano già a prima vista dai portoghesi che
vestivano invece alla moda, dai cappelli fino agli stivali. I raffinati
hidalgos , lontani dalla tradizione, cresciuti ed educati come
cristiani, guardavano dall’alto in basso quei tudescos che vivevano in
mezzo a loro.
Nei suoi dipinti e nelle sue acqueforti Rembrandt
raffigurò sia gli uni che gli altri. Con una predilezione, forse, per i
sefarditi. Non è difficile scorgere nei personaggi che animano i suoi
quadri, imperniati su temi tratti dall’Antico Testamento, volti,
caratteri e fattezze degli ebrei che incontrava sull’uscio di casa.
Rembrandt li immortalò nella sua pittura. E fu anche grazie a
quell’assidua frequentazione che non si limitò, come altri, a illustrare
la Bibbia; piuttosto dipinse le Scritture ebraiche. Non di rado fu
accusato — come era accaduto a Caravaggio — di involgarire l’arte, a
dispetto dei temi elevati, umiliandola al livello della strada.
Ma
qual è stato davvero il rapporto di Rembrandt con gli ebrei e con
l’ebraismo? Questa è la domanda intorno a cui ruota il libro di Nadler.
Merito degli artisti operanti allora ad Amsterdam — da Romeyn de Hooghe a
Jacob van Ruisdael — fu di aver documentato un mondo che altrimenti
sarebbe rimasto inaccessibile. A parte le celebri incisioni degli
esterni, de Hooghe rappresentò gli ebrei in preghiera e al lavoro, nella
gioia e nel pianto; li ritrasse negli interni o in contesti di
intimità, nelle scuole, dinnanzi al mikveh , il bagno rituale, in fila
davanti alla sinagoga, o lungo il canale, mentre si avviavano verso il
cimitero di Ouderkerk. Splendida è la Cerimonia di circoncisione in una
famiglia sefardita , databile intorno al 1665. Ma se de Hooghe documentò
quel mondo ebraico, Rembrandt lo ricreò con il suo tocco
inconfondibile. E lo esaltò. Secondo celebri studiosi, quali Moses Gans e
Franz Landsberger, un secolo prima dell’Illuminismo in quei quadri va
riconosciuta la prima emancipazione degli ebrei.
Si deve
presumere, tuttavia, che la questione sia più complicata. Rembrandt
viveva tra gli ebrei, in un rapporto tale di quotidiana familiarità, che
le liti erano frequenti. Ma non si deve trascurare il suo
coinvolgimento diretto nell’ebraismo. Se comprese quel popolo come
nessun altro artista europeo, fu perché collaborò con i rabbini della
comunità. Non si spiegherebbero altrimenti quei dettagli, nelle sue
opere, che può conoscere solo chi studia la tradizione ebraica. E c’è di
più: il suo enorme interesse per il messianismo.
Alla luce di
questo interesse assume un’inedita centralità la figura di Menasseh Ben
Israel, il «rabbino infelice», come lo chiama Nadler. Infelice perché
proveniva da una famiglia di nuovi cristiani, originari di Madeira, che
non senza sospetto erano stati accolti nella comunità di Amsterdam.
Intellettuale cosmopolita, talento poliedrico, filosofo, traduttore,
erudito, forse «l’ebreo più famoso d’Europa», fu a lungo osteggiato
dagli altri rabbini, in particolare da Saul Levi Mortera. Se questo era
un grande talmudista, Menasseh era versato invece nella Kabbalah , la
mistica ebraica. Forse è proprio lui — ipotizza Nadler — a essere
ritratto nell’acquaforte di Rembrandt intitolata Filosofo nello studio
del 1652. Ma non manca anche un vero e proprio ritratto che risale al
1639.
Ecco allora la novità: l’amicizia intellettuale con il
«rabbino infelice» ispirò Rembrandt. Questi «due spiriti affini»,
malgrado le differenti prospettive religiose, erano accomunati da una
visione teologico-politica improntata al messianismo. Menasseh pubblicò
nel 1650 la sua grande opera, in spagnolo e in latino, Speranza di
Israele , che scosse profondamente ebrei messianisti e millenaristi
cristiani. Notizie decisive arrivavano dal Nuovo Mondo. Tornato nel 1642
dalle Americhe, Antonio de Montezinos (alias Aaron Levi) sosteneva di
essersi imbattuto in indiani che recitavano lo shemà , la preghiera
ebraica. Dovevano essere discendenti della tribù di Ruben. Era la prova
tanto attesa: la diaspora ebraica aveva toccato ogni angolo del mondo.
Segno della venuta del Messia. Menasseh non poteva dire quando quella
redenzione, che sarebbe stata anche un rivolgimento politico, si sarebbe
compiuta; ma era certo che quell’evento fosse prossimo. Prima venuta
del Messia per gli ebrei, seconda per i cristiani.
Rembrandt fu
attratto — come in seguito Spinoza — dal messianismo di Menasseh e anche
in seguito, quando nel 1655 venne pubblicata la sua Piedra gloriosa ,
scritta con l’intento di delineare in chiave messianica la storia del
popolo ebraico, collaborò con lui offrendo quattro acqueforti. Non
dimenticò Menasseh alla sua morte, nel 1657. Così Nadler immagina che in
quel freddo mattino di novembre, quando finalmente la comunità di
Amsterdam accorse al cimitero di Ouderkerk per tributare l’ultimo
omaggio a Menasseh, in vita così osteggiato, oltre all’arcigno Mortera,
tra loro ci fosse anche il grande maestro.