Corriere La Lettura 8.10.17
L’infanzia del pittore uccisa dalla peste
di Massimo Ammaniti
Chi
è quel giovane uomo seduto a un tavolo di una taverna con aria cupa,
occhi e capelli neri, sulle spalle un mantello scuro e una spada legata
alla vita? Questa è la domanda che si poteva fare un avventore che
entrava nella taverna che si trovava nelle vicinanze di via della
Scrofa, in una zona di Roma fra piazza del Popolo e piazza Navona, a
fine Cinquecento. Si trattava probabilmente di Caravaggio, non ancora
artista famoso, come sarebbe stato successivamente ritratto dal pittore
romano Ottavio Leoni che dipinse (le opere sono conservate a Firenze)
una serie di artisti. Ma forse la testimonianza più appropriata è quella
del suo barbiere Luca, che lo aveva osservato da vicino: «Un giovane
tarchiato, barba nera non troppo folta, sopracciglia spesse… tutto
vestito di nero» (Sandro Corradini, Maurizio Marini, The earliest
account of Caravaggio in Rome , «Burlington Magazine», volume 140,
pagine 25-28, 1998).
Su Caravaggio sono state scritte innumerevoli
biografie, negli anni successivi alla sua morte, come ad esempio quella
di Giulio Mancini, un medico senese che incontrò e conobbe bene il
pittore negli anni romani fra il 1595 e il 1600. Una seconda biografia
fu pubblicata nel 1642 da Giovanni Baglione, un pittore rivale con cui
c’era stato un rapporto tempestoso e che addirittura accusò Caravaggio
di aver pagato dei sicari per ucciderlo (Sandro Corradini, Materiali per
un processo, documento 110,2-4. Novembre, 1606 , Roma 1993 op. cit. in
Caravaggio di Andrew Graham-Dixon, prima edizione Londra 2010). Forse
nonostante alcune informazioni rilevanti nella sua biografia, Baglione
era troppo coinvolto per fornire una storia attendibile del pittore
lombardo. Dopo qualche decennio fu pubblicata una nuova biografia di un
antiquario e storico dell’arte, Giovanni Pietro Bellori, che non aveva
mai conosciuto Caravaggio, ma che fu sedotto dalla novità tecniche della
sua pittura, ma allo stesso tempo atterrito dalle sue immagini crude
che ritraevano la povertà quotidiana e la violenza, come si coglie ad
esempio nei quadri dei martiri cristiani.
A queste biografie se ne
è aggiunta una, scoperta recentemente, di Gaspare Celio, pubblicata
pochi anni dopo la morte del pittore, che spiegherebbe il motivo, sempre
sospettato, per il quale si era trasferito a Roma da Milano, ossia
l’uccisione di un suo compagno.
Nonostante tutte queste biografie,
la figura di Caravaggio continua a rimanere un enigma, fatto di luci e
di oscurità come è appunto la sua pittura, e forse è questo uno dei
motivi perché ne siamo così affascinati.
Il suo genio è
sicuramente intrecciato ai suoi comportamenti sregolati: ribaldo,
suscettibile fino all’esasperazione, pronto sempre a sguainare la spada
quando si sentiva oltraggiato, ma anche fondamentalmente legato a un
forte senso religioso, come dimostra l’episodio avvenuto in Sicilia
quando in una chiesa non accettò di prendere l’acqua santa perché —
disse lui stesso — i suoi peccati erano mortali.
In tutte le
biografie si fa sempre riferimento al suo carattere irascibile e
incontrollabile e addirittura si è fatto ricorso a diagnosi
psichiatriche come la psicopatia o la schizofrenia paranoide, ammesso
che sia possibile etichettare i suoi comportamenti riferiti a un
contesto sociale e culturale molto lontano da noi. Valga un esempio:
Caravaggio si ostinava a portare con sé la spada e per questo motivo
veniva fermato a Roma dai gendarmi e portato in carcere. In realtà
Caravaggio non voleva rinunciare a questo privilegio riconosciuto ai
nobili, ai gentiluomini e ai cavalieri, a cui lui riteneva di
appartenere perché la famiglia della madre era imparentata con una
piccola aristocrazia lombarda.
Ma per spiegare il suo carattere
sarebbe meglio scavare nella sua infanzia, infatti Michelangelo, questo
era il suo nome, perse il padre all’età di 6 anni e nel giro di poco
tempo anche il nonno, la nonna e lo zio, tutti colpiti dalla peste che
aveva piagato la città di Milano. È la peste di San Carlo, come la
chiama Alessandro Manzoni nei Promessi sposi , che «aveva desolato una
buona parte d’Italia, e in specie il milanese» cinquantatré anni prima
di quella successiva raccontata nel romanzo, di cui serbiamo un ricordo
indelebile che risale alla scuola media. Si viveva in un clima da incubo
in cui il contagio si diffondeva nella popolazione e la peste mieteva
ogni giorno vittime e vittime, non una malattia ma una punizione divina,
che imponeva, secondo la severa volontà dell’arcivescovo di Milano,
Carlo Borromeo, pratiche di espiazione e di sacrificio. Con la morte del
padre la famiglia Merisi si trovò in ristrettezze economiche con debiti
e cause legali per cercare di difendere la magra eredità e
probabilmente il piccolo Michelangelo subì ripetuti traumi che
lasciarono segni profondi nel suo carattere. Questi traumi, come la
morte del padre e dei parenti durante l’epidemia della peste,
probabilmente rappresentarono momenti di cesura che travolsero la
continuità e il senso di sé della sua vita di bambino.
Forse
queste esperienze dell’infanzia riemergono trasfigurate nei suoi quadri;
prendiamo ad esempio la drammatica Cattura di Cristo in cui si vede il
volto attonito e atterrito di Cristo nel momento del suo arresto oppure
Il martirio di Sant’Orsola , nel quale viene rappresentato e fissato il
trauma violento che irrompe travolgendo la vita dei protagonisti. Forse
la presenza in entrambi i quadri della figura dello stesso Caravaggio
conferma ulteriormente il suo stretto legame emotivo con la scena a cui
lui stesso assiste.
Ma il trauma non è solo disorientamento e
terrore, può anche sollecitare un’esperienza trasformativa che fa
scoprire prospettive profondamente diverse, come si può vedere nel
quadro che si trova nella chiesa di San Luigi dei Francesi La vocazione
di San Matteo , nel quale la luce di Cristo, ossia la grazia, irrompe
nella taverna illuminando la figura di Matteo che si converte. Forse la
stessa pittura, a cui Michelangelo si dedicò fin dai primi anni
dell’adolescenza, rappresentò per lui un’illuminazione con cui cercò di
curare le proprie ferite infantili.