Corriere La Lettura 8.10.17
Caravaggio dietro Caravaggio
di Arturo Carlo Quintavalle
Della
Buona Ventura dei Musei Capitolini sappiamo tutto, o quasi: che
Caravaggio l’ha dipinta fra il 1596 e il 1597 a Roma, che era di
proprietà del suo mecenate, il cardinale Francesco Maria del Monte, che
esiste un altro dipinto simile, conservato a Londra, segnato da una
forte luce da sinistra che taglia ombre sul fondo. Dunque due originali?
Ma allora come lavorava Caravaggio? Ecco, questo è il problema che
trova piena risposta nella mostra, bella e importante, curata da
Rossella Vodret al Palazzo Reale di Milano. E sono le letture a luce
radente, le analisi ravvicinate, quasi una educazione al vedere, e le
radiografie e le riflettografie agli infrarossi, che ci fanno scoprire
che cosa c’è sotto la pellicola dipinta.
Osserviamo la
radiografia: sotto La Buona Ventura scopriamo un altro quadro, posto in
verticale, preparazione bruna, sulla quale è stata stesa la preparazione
chiara del quadro che vediamo; del dipinto nascosto è evidente una
Madonna, le mani in atto di preghiera, attribuita a Enzo Carli o anche
al Cavalier d’Arpino anche se forse la struttura, forte e densa,
potrebbe far pensare proprio a Caravaggio. Certo è che le indagini
tecniche, la novità della mostra, ci rivelano il modo di lavorare,
dunque lo stile del pittore. Così tracce di incisioni, fatte forse col
legno del pennello sulla preparazione, impostano le masse e la loro
distribuzione — sono segni, contorni che al pittore servono anche per
ricollocare i modelli nella posizione originaria.
È questa infatti
la scelta di Caravaggio: usare modelli dal vero, dipingerli in scala 1 a
1, cercare gente di strada, figure del quotidiano, per proporre un
discorso opposto alla «maniera» del Cavalier d’Arpino e, prima, di
Taddeo e Federico Zuccari e di tanti altri artisti del Cinquecento.
Scrive nel 1604 Karel van Mander: «Questo Caravaggio dunque s’è già
acquistato con le sue opere fama, onore e rinomanza. Egli dice che tutte
le cose non sono altro che bagatelle, fanciullaggini o baggianate —
chiunque le abbia dipinte — se esse non sono fatte dal vero, e che nulla
vi può essere di buono o di meglio che seguire la natura».
Torniamo
ora alle modalità di lavoro di Caravaggio. Nel San Francesco di
Hartford la riflettografia fa scoprire correzioni nel profilo del volto
del santo e nel braccio e nel volto dell’angelo; e il volto di Francesco
mi sembra essere quello del Merisi, un autoritratto, scelta che torna
molte volte nelle opere dell’artista. Altre scoperte? Nel San Giovanni
Battista della Galleria Corsini (1604) la figura siede su una roccia; a
sinistra la tazza e la croce, a destra un vuoto verso cui, stranamente,
il santo guarda: ma la radiografia scopre un agnello che poi il pittore
ha eliminato facendo pesare il tronco corroso a sinistra; anche qui
tracce di incisioni sulla preparazione segnano la posizione del braccio e
del volto, un memo per fissare lo schema della composizione. Troviamo
analoghe grafie nella Madonna dei Pellegrini (1604-1605): sulla
preparazione bruna le incisioni segnano la soglia, il capo della Madonna
e il profilo del Bambino mentre la preparazione stessa affiora e fa da
capigliatura ai due in ginocchio: così il fondo diviene ombra e, in
parte, corpo delle figure. Confrontate i piedi sporchi dell’uomo in
ginocchio e quello sollevato, chiarissimo della Madonna: ecco la povertà
come segno della Grazia per la Chiesa della Riforma, quella che vuole
tornare alle origini paleocristiane e, magari, alla iconografia di San
Francesco. Siamo davanti a una scena buia, con una luce dall’alto. Lo
capiva bene Giovanni Pietro Bellori che nel 1672, 62 anni dopo la morte
del Merisi, scrive: «Egli... non faceva mai uscire all’aperto del Sole
alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’aria
d’una camera richiusa, pigliando un lume dall’alto, che scendeva a
piombo sopra la parte principale del corpo e lasciando il rimanente in
ombra a fine di recar forza con vehemenza di chiaro e oscuro».
Sappiamo
dunque come lavorava il pittore, ma forse, alla comprensione, manca
ancora uno strumento: ce lo mostra la Marta e Maria Maddalena di Detroit
(1598). Qui il confronto è fra la virtù di Marta e il pentimento della
peccatrice che poggia il braccio su uno specchio convesso: incisioni
sulla superficie per disporre le figure, spazio del fondo retto da
ombre. Ma lo specchio? Nel 1605 Caravaggio deve fuggire a Genova per
aver ferito il notaio Pasqualoni, dunque non paga l’affitto dello studio
e la proprietaria, Prudenzia Bruni, gli fa sequestrare quello che resta
in casa; il tribunale stila un inventario il 26 agosto 1605: «Undeci
pezzi de vetro, cioè bicchieri, carafe e fiasche de paglia… una brocca
d’acqua, dui scabelli… un giuppone stracciati, una quitarra, una
violina, un pugnale, un paro de pendenti… dui spade, dui pugnali… una
cassaccia con certi stracci dentro… uno specchio grande… un scudo a
specchio». Insomma tanti oggetti da usare per le nature morte e due
specchi, uno a scudo, dunque convesso, quello del dipinto di Detroit, e
un altro piano per portare la luce, quel raggio forte di luce dentro la
stanza buia. Così le nuove tecniche di analisi ci fanno capire come
lavorava Caravaggio.
È vero, della Madonna sotto La Buona Ventura ,
non sapremo mai con certezza l’autore ma quel riuso di un precedente
dipinto ci fa capire come muta, dal sublime della impostazione verticale
al dialogo orizzontale, il racconto umano del dipingere.