domenica 8 ottobre 2017

Corriere La Lettura 8.10.17
Il vero miracolo di San Gennaro
di Goffredo Buccini

A sentire Dumas qualche motivo di sospetto pure ci sarebbe. Quando quel giacobino di Championnet entrò trionfatore a Napoli, alla testa delle truppe francesi che compivano la rivoluzione repubblicana di «donna Lionora» Pimentel, pare che il sacro sangue recalcitrasse alquanto a sciogliersi di fronte a tanti senzadio. Finché il generale napoleonico, che prescindeva tranquillamente dal Padreterno e dai suoi santi ma assai meno dal consenso popolare, non... sollecitò il miracolo con la minaccia di fucilare qualche prete. Quasi all’istante il fluido rosso ribollì docile, forse rivelando un imbroglio secolare o forse la secolare potenza della misericordia, chissà.
San Gennaro (ma a Napoli è una parola sola pronunciata in un sol fiato di speranza: «Sangenna’») e il suo sangue sono da allora amorevolmente «sollecitati» da nuovi e vecchi potenti in cerca di consacrazione o di conferma. Finanche dal comunista Bassolino. O, ultima contaminazione tra corona e altare, dal grillino Di Maio, nuovo lord protettore dei pentastellati e tuttavia (o forse appunto per questo) chino come un devoto chierichetto sull’ampolla sorretta dal cardinale Sepe.
Poiché in Italia si vota assai spesso e il sangue dovrebbe sciogliersi canonicamente tre volte l’anno (a maggio e a dicembre, oltre che il 19 settembre per la ricorrenza del martirio del santo) quest’incrocio di sacro e profano è destinato a ripetersi con frequenza (a primavera voteremo per il Parlamento nazionale). E, del resto, i politici non fanno nulla di diverso da ciò che fa il napoletano comune quando invoca «Sangenna’» non per bisogni spirituali ma per materiali e terrene esigenze: un posto di lavoro infine da trovare, una figlia sciagurata da maritare, una cura, una vincita, un tale miscuglio carnale di confidenze e aspettative che qualsiasi altro santo scambierebbe per blasfemia. «Faccia ’ngialluta» (così lo chiamano le popolane per provocarlo quando il miracolo tarda) no. Non s’adonta d’essere trattato come il vicino di basso con cui dividere una confidenza e un mestolo di pasta e fagioli. Sándor Márai, che Napoli l’ha conosciuta e amata, nel suo Sangue di San Gennaro la racconta, questa umanità dolente di volti e mestieri, guaglioni famelici e adulti maestri dell’arrangiarsi, insomma questo popolo di «professionisti dell’attesa»: attesa di un piccolo o grande prodigio di cui il santo si fa garante col proprio miracolo.
Certo, può lasciare sbalorditi che decine di migliaia di menti raziocinanti credano a un impossibile che da secoli si avvera tre volte l’anno e quando non si ripete provoca terremoti ed eruzioni, pubblici disastri e private iatture. Ma quanto sia misero (e inutile) indagare sul mistero delle ampolle, sull’«ipotesi ketchup» o sulle teorie tissotropiche si capisce meglio fuori dal Duomo, lontano dalla teca e dalla cripta, dalle «parenti» del santo e dalla Deputazione dei nobili devoti, insomma nella Napoli che non è San Gennaro. Per esempio al cimitero delle «Capuzzelle»: tra quei teschi sconosciuti, «adottati» ciascuno da un napoletano che in cambio di un lumino e qualche fiore impetra protezione e grazia creandosi un corridoio privato con l’Aldilà. E ciò che all’occhio forestiero potrebbe apparire un rapporto mercantile, perfino mercenario, tra i napoletani e il mondo dei più, lo svela infine nella sua vera dimensione di scarnificata tenerezza quell’enciclopedia della napoletanità in tre atti che è Questi fantasmi! .
Nell’intero arco della commedia noi ci domandiamo se Pasquale Lojacono sappia e finga di non sapere (Napoli è pur sempre la città del «munaciello», visitatore misterioso di talami nuziali) o se davvero possa credere che un «fantasma buono» gli faccia trovare mazzette di danaro nella tasca del pigiama; se sia insomma un sordido marito cornuto e contento o un povero stolto accecato dalle leggende che girano attorno alla sua casa e dalle manovre di Alfredo che gira attorno a sua moglie. Ma rispondere a questa domanda equivale a farsi risucchiare nella teoria del «ketchup»; insomma a ridurre «ad unum», a una unità razionalmente teleologica, il caleidoscopio di ambiguità che sta sulla scena eduardiana e nelle strade da cui De Filippo ha attinto linfa e ispirazione sin dall’infanzia.
Il punto, semplicemente, non è quello, e chi non lo capisce si dedichi allo studio dei Celti o alle ricette del pudding. Il prodigio che cambia la vita a Pasquale Lojacono è che qualcuno, fantasma o umano, si occupi di lui, che infine lo ascolti, ed è lo stesso prodigio collettivo di carne e popolo che si compie da secoli attorno all’ampolla nel Duomo di Napoli, lasciando a chimici, scienziati e scettici l’arido primato del loro buonsenso. «Con un altro uomo, con un uomo vivo come me, non ne avrei mai parlato, ma con te sì, tu sei un’altra cosa. Tu sei al disopra di tutti i sentimenti che ci condannano a non aprire i nostri cuori l’uno con l’altro: orgoglio, invidia, superiorità, finzione, egoismo, doppiezza...», mormora il personaggio di Eduardo a quel rivale ormai trasfigurato dalla propria disperazione in spirito domestico. «Parlando con te mi sento più vicino a Dio e mi sento piccolo, piccolo... mi sento una nullità... e mi fa piacere sentirmi una nullità, così posso liberarmi del peso del mio essere che mi opprime!», sussurra ancora. San Gennaro non c’è mai. Ma è come se stesse lì sul balcone.