Corriere La Lettura 8.10.17
La rivoluzione di Velázquez: i quadri ci guardano
di Mauro Covacich
Chi
guarda chi? È solo a un primo sguardo distratto, come capita spesso
passando in rassegna le sale di un grande museo, che si ha l’impressione
di guardare i quadri. Poi, prestando maggiore attenzione, risulta
evidente che sono i quadri a guardare noi. I quadri ci guardano e, lo
sappiamo bene, ci interrogano, innanzitutto sulla loro permanenza. I
modelli ritratti sono morti da un pezzo ma non i loro volti, che noi
manteniamo in vita o, meglio, riaccendiamo fungendo da innesco
spirituale, per certi aspetti telepatico, al materiale inerte di cui
sono composti.
« Las Meninas è come una camera della mente, un
luogo in cui i morti non muoiono», dice Laura Cumming quasi all’inizio
di Alla ricerca di Velázquez (Neri Pozza). A monte di questa intuizione
c’è il movente personale dell’autrice che inizia la sua ricerca per
caso, di fatto schivando l’arte e tutti i suoi contenitori urbani,
ancora in preda al dolore per la scomparsa del padre, pittore scozzese
alle cui opere la figlia offre in cuor suo una promessa di fedeltà — non
avrò altro artista all’infuori di te — finché non incontra Velázquez,
finché non si affaccia alla sala del Prado dominata da Las Meninas dove,
nel varco casuale, quasi proditorio, creatosi tra i visitatori, il
quadro la convoca a una resa dei conti.
Chi guarda chi: nessuno
come Velázquez pone la questione con uguale radicalità. Dobbiamo entrare
bene nel gioco di rimandi escogitato dall’artista in Las Meninas .
Sulle prime sembrerebbe il ritratto della principessina Margherita
circondata dal suo seguito, le damigelle (da cui il titolo), la nana, il
cane, un probabile giullare e altri due personaggi in secondo piano.
Poi però ci accorgiamo della presenza del pittore, cioè di Velázquez
stesso ritrattosi accanto a questa allegra combriccola, intento a
dipingere su una grande tela di cui vediamo il telaio posteriore. Quindi
il soggetto del quadro è l’artista? No, anzi sì, in un certo senso:
l’artista nell’atto stesso di dipingere ciò che non vediamo nel dipinto,
ovvero ciò che lui sta dipingendo sulla tela a noi celata, ovvero ciò a
cui tutti i personaggi in scena, in modo più o meno irriguardoso, sono
venuti a osservare, ovvero i due regnanti, Filippo IV e consorte in posa
per un ritratto, che solo ora catturano la nostra attenzione,
minuscoli, appena riconoscibili nello specchio alle spalle della
principessina. Sono loro a essere dipinti dal Velázquez al lavoro nel
quadro. Noi stiamo vedendo il quadro del quadro o, se vogliamo, la
realtà delle damigelle dal punto di vista del quadro in fieri , ovvero
dal punto di vista dei regnanti in posa. Noi osservatori diventiamo il
quadro che i personaggi stanno osservando (e gli occhi pestiferi della
principessina ne sono la prova evidente).
Questo rovesciamento non
è la fine del gioco di specchi, perché a uno sguardo più attento ci
rendiamo conto che tutto ciò è possibile grazie a un’apertura sullo
sfondo, dove un uomo, il ciambellano di corte, tiene scostata una tenda
su una scalinata, probabilmente dopo aver fatto passare il re e la
regina (quindi i regnanti si sono appena messi in posa?, o la seduta sta
finendo?), e il suo gesto permette alla luce di illuminare le loro
figure, altrimenti in ombra e ora invece ben riconoscibili nello
specchio sulla parete alle spalle della combriccola. Ma forse potremmo
dire che il gesto del ciambellano rende possibile l’intera
raffigurazione, come se schiudesse il foro stenopeico di una camera
oscura, lo spiraglio che permette la proiezione delle immagini sulla
parete opposta.
È lui ad aprire al mondo di fuori, lo spazio
esterno alla stanza, l’unica realtà possibile, visto che noi osservatori
siamo dal lato di chi viene ritratto nel quadro e i personaggi in scena
davanti a noi sono una pittura a olio. Forse quel punto luce è la
rappresentazione della nostra pupilla e l’intero quadro non è altro che
l’allegoria della visione umana.
L’ultimo cerchio della spirale è,
per forza di cose, andato perduto: il quadro, ultimato dal maestro nel
1656, a quattro anni dalla morte, era esposto nella residenza reale
dell’Alcazar prima che venisse bruciata; per di più collocato — site
specific davvero ante litteram — nella stessa sala rappresentata nel
quadro, dove Velázquez era solito lavorare e dove la principessina
Margherita, le damigelle e il resto della combriccola hanno dovuto
posare. Se aggiungiamo il fatto che i personaggi sono dipinti a
grandezza naturale, possiamo immaginare l’effetto vertiginoso che
dovevano destare quelle figure alla vista dei visitatori del palazzo, a
maggior ragione se erano visitatori abituali o, esageriamo, le stesse
damigelle e la principessa venute a farsi osservare dai loro sembianti,
intente a studiarsi nell’atto di farsi studiare dal signor ciambellano
quella volta che le dipingeva facendo finta di dipingere il re e la
regina venuti a guardarle eccetera eccetera.
A confronto,
l’autoritratto di Van Eyck sullo specchio dei coniugi Arnolfini è un
semplice salto mortale dal trampolino di un metro. Ma la teatralità
della scena, il gusto barocco per la spirale e l’iperbole, non bastano a
spiegare la visione letteralmente paradossale di Las Meninas . Bisogna
tornare al punto di partenza: chi guarda chi. Michel Foucault ne Le
parole e le cose dedica all’opera uno dei primi saggi ecfrastici della
filosofia francese (poi verrà La verità in pittura di Jacques Derrida,
sempre sulla scia degli zoccoli da contadina di Heidegger). Foucault
sostiene, come dicevamo sopra, che il soggetto vero del quadro è
invisibile, trattandosi dello sguardo dell’artista colto nell’atto
creativo, impegnato a strutturare la rappresentazione. Il soggetto del
quadro è il Soggetto, inteso come le facoltà del cogito (che non a caso
trionfa proprio nel Seicento cartesiano), nella cui rete cognitiva
qualcosa come una rappresentazione può configurarsi e poi diventare olio
su tela, sempre rinviando all’essere di cui è immagine, ovvero quel suo
costitutivo «oltre» che inesorabilmente si sottrae, l’inafferrabile
essenza noumenica che, se ci è concessa una brutale semplificazione,
potremmo anche chiamare vita.
Un dipinto sul senso del dipingere:
su questo lavora Velázquez negli ultimi anni, così fondamentali eppure
poco prolifici, gravati dai mille impegni di un’esistenza ormai
consacrata all’amministrazione della reggia. «Un rivoluzionario
silenzioso» lo definisce giustamente Laura Cumming, lontano dal
maledettismo caravaggesco, un pittore di corte (oggi si direbbe: di
regime), una specie di funzionario artistico dalla vita tutt’altro che
avventurosa.
Con lo stile piano e colloquiale tipico dei
divulgatori anglosassoni la Cumming scrive un libro non banale sul
maestro spagnolo. Lo fa intrecciando la biografia a un lungo racconto
nel quale ricostruisce il ritrovamento, avvenuto a metà Ottocento, di un
ritratto di Carlo I eseguito da Velázquez ma attribuito a Van Dyck. Ci
sono vicissitudini giudiziarie in abbondanza, aste, perizie e
contestazioni varie, tutto condito da grande acribia investigativa.
Insomma, si tratta di un libro per appassionati del genere, che però ci
consente di riavvicinarci al mistero di Velázquez, un merito non da
poco. Semmai è discutibile, a mio avviso, il bisogno di emozionarsi,
ribadito quasi a ogni pagina. A me Las Meninas non provoca la stessa
commozione che scuote l’autrice, a me quel quadro spacca il cervello in
mille pezzettini. E temo non sia un problema solo mio.