Corriere La Lettura 8.10.17
Figli che uccidono i padri Succedeva già nell’antica Roma
di Teresa Ciabatti
«Volevo
uccidere mio padre» dichiara ai pm Manuel Foffo assassino, insieme a
Marco Prato, di Luca Varani. «Non posso biasimarti per quello che hai
fatto», gli scrive in carcere Pietro Maso, lui che il padre lo ha ucciso
davvero, padre e madre, per incassare l’eredità e fare la bella vita
subito, no, non poteva aspettare. Questa è la società di oggi, la
famiglia contemporanea. Se non fosse che Eva Cantarella, storica
dell’antichità, col suo nuovo libro, Come uccidere il padre. Genitori e
figli da Roma a oggi (Feltrinelli), smonta la convinzione che certi
crimini appartengano alla famiglia moderna. Con garbo («devo dire che
una simile ipotesi ha sempre destato in me molte perplessità»),
l’autrice contraddice giornalisti ed esperti, mostrando invece la
continuità con il passato. Ovvero: abbiamo sempre ucciso i padri (dove i
padri rappresentano anche madri, fratelli, mogli).
Nel mondo
classico il grande problema tra generazioni era la patria potestas :
mentre in Grecia terminava con la maggiore età dei figli, a Roma
perdurava fino alla morte dei padri. Uomini adulti senza autonomia
economica né diritti giuridici finché era in vita il padre. Ecco che la
questione si faceva urgente: quando muore il padre? La morte del padre
via via diventa desiderio, auspicio, libertà. «I sessantenni giù dal
ponte», recita un vecchio detto romano alludendo alla pratica di buttare
i vecchi nel Tevere, in una società in cui i sessant’anni sono
considerati estrema vecchiaia. A dimostrazione che — come nota Eva
Cantarella intitolando un capitolo «Breve preistoria della rottamazione»
— l’insofferenza odierna dei giovani, la loro voglia di prendere il
comando non è una novità. Dalle fonti la studiosa riscontra che l’uso di
gettare i vecchi nel Tevere fosse ancora abitudine nella Roma classica,
benché qualcuno se ne vergognasse, vedi Ovidio: «Chi crede che i nostri
antenati mandassero a morire i sessantenni li condanna a una terribile
infamia» scrive nei Fasti , per poi contraddirsi altrove, come si
contraddicono Cicerone, Lattanzio e Varrone. Insomma, a volte lo negano,
altre lo ricordano, finendo solo per dimostrarne l’esistenza: sì, i
vecchi venivano uccisi.
Dalla realtà giuridica è anche facile
capirne i motivi: padri unici titolari dei diritti e figli adulti
costretti ancora a dipendere. Figli che, se maschi e se maggiorenni,
godevano tuttavia di diritti minori, quale il diritto a partecipare alle
assemblee, o a ricoprire cariche pubbliche, incongruenza che generava
non pochi equivoci.
Prendiamo l’esempio di Caio Flaminio, tribuno,
che promulga una legge agraria nonostante l’opposizione del Senato il
quale minaccia di scatenargli contro l’esercito, eppure niente: lui non
cambia idea. Coraggioso, temerario, Caio Flaminio porta avanti la legge.
Un giorno però, proprio quando sta riferendo in assemblea, arriva il
padre che lo trascina giù dai rostri e lo porta via come un qualsiasi
bambino bizzoso. E il figlio — il suddetto coraggioso temerario — senza
protestare si rimette alla volontà paterna. Dunque: che cosa dovevano
fare questi figli romani se non augurarsi la morte dei padri? Da una
legge attribuita a Romolo veniamo a sapere che a Roma i padri sui figli
avevano diritto di: incarcerarli, percuoterli, costringerli a lavorare
nel proprio fondo, venderli e ucciderli. Ammettiamolo: era così
innaturale desiderare ardentemente che questi padri morissero? I
sessantenni giù dal ponte, sì, ci troviamo a concordare a distanza di
secoli, perché le frustrazioni interne alla famiglia della Roma antica
sono le nostre; e, seppur in differenti contesti sociali e giuridici,
uguali sono le motivazioni, finanche le azioni.
Tuttavia Come
uccidere il padre non è solo un saggio, un’argomentazione documentata e
intelligente. È qualcosa di più, qualcosa di unico grazie allo sguardo
dell’autrice: potente, disincantato e acuto come quello di Truman Capote
sull’America da F. D. Roosevelt a J. F. Kennedy. Uno sguardo, quello di
Eva Cantarella, mai reverenziale (neppure irriverente) verso il mondo
classico. Nel racconto c’è la storica, ma anche la narratrice capace di
cambiare tono, suscitando ora divertimento, ora empatia.
Ecco un
Ovidio ritratto nei suoi vezzi. Ovidio che s’innamora di continuo:
«Avevo il cuore tenero e facilmente conquistabile dai dardi di Cupido, e
sensibile a un impulso anche leggero» ( Tristia ); Ovidio che ha parole
denigratorie per la prima moglie — «una donna né degna né utile»;
Ovidio che liquida la seconda come una che non ha mai occupato un posto
saldo nel suo cuore. E oltre: Ovidio che si contraddice parlando di una
stessa donna amatissima, la terza moglie, di cui celebra la devozione
immaginandola sofferente per la lontananza, poi — quasi in un repentino
cambio d’umore — dubitando: ma sarà davvero triste? Infine
rimproverandola: «Hai perso un marito, devi pure essere triste,
affliggiti, dunque, per la perdita che ti ha colpito, mia dolcissima
sposa, e trascorri il tempo della tristezza provocata dalla mia sventura
piangendo la mia sorte...».
Un Ovidio capriccioso, narcisista,
iracondo e romantico, insicuro, fragile quanto la Marilyn di Truman
Capote, «la bellissima bambina» che non vuole vedere cadaveri.
Come
uccidere il padre di Eva Cantarella non è quindi solo studio assennato,
ma narrazione che appassiona, diverte, e commuove. Appassiona nel
racconto dei casi familiari, vedi quello del figlio che s’innamora della
matrigna, come testimoniato nelle Controversiae di Seneca. Succedeva di
frequente del resto che i figli, rimasti nella casa paterna dopo il
divorzio dei genitori, fossero costretti a convivere con una matrigna
loro coetanea se non più giovane di cui s’innamoravano. Conseguenze:
litigi, minacce, omicidi.
Come uccidere il padre diverte, specie
sull’argomento sesso: medici che consigliano il controllo degli eccessi
sessuali, Lucrezio che deplora il desiderio come malattia, raccomandando
all’uomo saggio di evitare la follia del piacere delle carni.
Come
uccidere il padre commuove quando — secondo testimonianze da Lattanzio a
Plinio — i vecchi decidono di andare a morire. Nessun conflitto,
nessuna costrizione o parricidio, solo uomini che arrivati a un certo
punto dell’esistenza si sentono inutili, forse stanchi, e si gettano
nelle acque di loro spontanea volontà. Padri che tolgono il disturbo,
lasciando i figli finalmente liberi: che adesso siano i giovani a
vivere, a portare il fardello.