domenica 8 ottobre 2017

Corriere La Lettura 8.10.17
Neuroscienze
Il linguaggio è dentro di noi
di Luigi Ripamonti

Esistono lingue impossibili? E se sì, a che cosa servirebbero? Per esempio a delineare le caratteristiche che rendono tali quelle possibili, cioè quelle che usiamo.
Questo l’approccio scelto da Andrea Moro, uno dei maggiori neurolinguisti mondiali, per tratteggiare, di fatto, lo stato dell’arte della linguistica moderna, secondo la quale la struttura del linguaggio non è determinata dalla funzione comunicativa, ma è, invece, l’esito di un progetto biologico.
In altre parole: l’insieme di neuroni, sinapsi, fibre cui ricorriamo per parlare e scrivere non si è sviluppato per questo scopo. È il contrario: poiché abbiamo un cervello fatto in un certo modo possiamo parlare e scrivere, cioè comunicare in un modo diverso dalle altre specie. Studi di neurobiologia hanno identificato fasci nervosi specifici per queste funzioni che sono caratteristici dell’uomo e sono assenti, per esempio, nei primati.
Possiamo considerare il linguaggio sia da un punto di vista formale sia da uno fisico, spiega l’autore. La prospettiva formale descrive il linguaggio come un insieme di elementi primitivi discreti (parole) e di regole di combinazione capaci di generare una sequenza infinita di strutture (sintassi), mentre la prospettiva fisica lo inquadra, dal canto suo, in due ambienti differenti: fuori e dentro il cervello. All’esterno del cervello il linguaggio consta di onde meccaniche d’aria (suono), all’interno di onde elettriche, il codice che le cellule nervose utilizzano per scambiarsi informazioni.
Dal punto di vista formale è stato dimostrato che una lingua è possibile, cioè accettabile dal nostro sistema nervoso, solo se risponde a determinati prerequisiti, come per esempio ricorsività , non monotonicità e altri ancora. In questo caso, qualunque sia il suo livello di complessità, un idioma può essere imparato da un bambino entro i quattro anni di vita, proprio perché il suo cervello lo sa gestire. Se proponessimo invece a un bambino una lingua artificiale, pur dotata di struttura e coerenza logica interne, egli non potrebbe impararla: sarebbe una lingua impossibile. E di questo esistono prove neurobiologiche indirette ottenute su individui adulti.
Sono state identificate infatti aree cerebrali che, se esposte all’ascolto di frasi che abbiano un codice sintattico «possibile», si attivano e che invece, se sollecitate con parole in un ordine che non si attiene alle regole fondamentali per la nostra specie, non reagiscono, cioè non mettono in moto alcun segnale di ricezione e decrittazione. E ciò indipendentemente dalla lingua già conosciuta.
Il cervello di un bambino, in questo senso, va considerato come staminale , cioè capace di differenziarsi nell’apprendimento di qualsiasi lingua che sia riconosciuta dal suo «hardware», che, fra l’altro, agisce come un setaccio, in grado di filtrare costruzioni sintattiche inaccettabili. Possiamo immaginare la lingua come un arazzo di cui noi vediamo la parte anteriore, chiarisce Andrea Moro, se però noi giriamo l’arazzo ci rendiamo conto che il risultato che abbiamo osservato è sostenuto e reso possibile da una serie di intrecci sottostanti.
Le proprietà specifiche del linguaggio umano, insomma, sono ancorate a leggi di natura e non a qualcosa che si sviluppa come accumulo di fatti storici casuali.
È vero che le lingue mutano con il tempo, soprattutto nel lessico, ma devono comunque obbedire alle regole dettate dalla nostra struttura biologica, che è invariante e comune a tutte le latitudini e che, di fatto, rispetto alle proprietà formali non si evolve.
Tornando alla distinzione iniziale e volendo affrontare il problema da un’ottica puramente fisica, può essere interessante ed emblematico un esperimento descritto dall’autore, nel corso del quale è stata confrontata la forma delle onde elettriche registrate in un’area non acustica del cervello (cioè non connessa alla raccolta e all’analisi del suono) con quelle che si generano dopo la lettura mentale di identiche espressioni. Ebbene il risultato è che le due forme d’onda sono così simili da sovrapporsi a prescindere dalla presenza del suono. Ciò significa che l’informazione acustica è parte del codice sin dall’inizio, o almeno da prima che la produzione del suono abbia luogo.
Gli studi di linguistica e neurolinguistica dicono quindi, in sostanza, che affermare che il linguaggio è strutturato per comunicare sarebbe come dire che la mano si è evoluta per impugnare la biro.
E indicano invece che gli uomini, probabilmente gli unici fra gli esseri viventi, hanno caratteristiche organiche che rendono possibile la creazione di una sintassi capace di generare senso e che risponde alle necessità fondamentali di ciò che intendiamo per linguaggio, superando la convinzione secondo cui le lingue possono differire le une dalle altre senza limite e in modi imprevedibili.
Ciò fa concludere a Moro che: «Le sfide che l’esplorazione del linguaggio pone alla teoria e alla prassi sono completamente cambiate da quando l’idea delle lingue impossibili è stata adottata come guida per la ricerca, ma la vera sfida, alla fine, non riguarda un oggetto: riguarda noi. Il linguaggio, come i teoremi e le sinfonie, esiste solo in noi, ed è in noi che il Big Bang che conta nella storia biologica della nostra specie dev’essere trovato; fuori da noi, ci sono solo oggetti, movimento e luce».