Corriere La Lettura 8.10.17
Alain Touraine
Nel mondo postsociale conta soltanto il singolo
di Carlo Bordoni
La
democrazia è un concetto poliedrico. Cambia continuamente di
significato a seconda dei tempi. Dall’originale senso di dominio del
popolo, che assume nei classici persino una sfumatura negativa, poiché
accusato di una forma di oppressione nei confronti delle minoranze, si è
passati al suo riconoscimento come forma politica preferenziale, quasi
ideale. Come governo della volontà maggioritaria, malgrado le
perplessità di Jean-Jacques Rousseau sulla rappresentanza, fino
all’interpretazione classista di Karl Marx, la democrazia è arrivata
fino a noi dopo continue revisioni rese necessarie dalle mutate
condizioni politiche e sociali. Si pensi ad Alexis de Tocqueville, che
importò dall’America l’idea più attuale di democrazia quale
riconoscimento di uguali diritti e doveri per tutti.
Adesso siamo
di fronte a un ennesimo aggiustamento di tiro. Alain Touraine, decano
dei sociologi francesi, classe 1925, ha pubblicato di recente in due
ponderosi tomi la summa del suo pensiero critico sulla modernità. Prima
con La fin des sociétés (Seuil, 2013), poi con Nous, sujets humains
(Seuil, 2015), di cui ora il Saggiatore presenta la traduzione italiana,
Noi, soggetti umani , a cura di Massimiliano Matteri.
Touraine
riconosce al «soggetto umano» la priorità di ogni diritto. Affermazione
che può sembrare il banale rafforzamento di un principio largamente
condiviso, ma che invece nasconde uno «scivolamento» sostanziale dai
diritti dell’insieme degli uomini al diritto universale del singolo,
indipendentemente dal contesto in cui vive. La posizione di Touraine,
nell’attualizzarsi e adattarsi alle nuove tendenze sociali di
valorizzazione dell’individuo, modifica l’idea stessa di democrazia,
assegnando al soggetto un primato che finora gli era stato negato. O,
meglio, che gli era riconosciuto e si era perso per strada.
Si
tratta di una conquista (o riconquista) importante, che stabilisce una
volta per tutte la conclusione di un lungo processo di rivalutazione del
soggetto, partito dagli inizi del secolo scorso col pensiero di Edmund
Husserl e di Martin Heidegger, attraverso Jean-Paul Sartre e Jacques
Derrida, e arrivato fino a noi con i movimenti degli Indignados, Occupy
Wall Street, le Primavere arabe e i manifestanti di Piazza Taksim.
Al
pari di Stéphane Hessel, che li vede alimentati dall’indignazione,
Touraine considera questi movimenti una risorsa e li definisce
etico-democratici. Non sono rivoluzioni — osserva — ma «lampi di
soggettivazione vigorosa, incapaci di trasformarsi in organizzazione
politica e in strategia». Mentre le rivoluzioni portano alla guerra
civile e al terrore, la soggettivazione «è prima di tutto una
liberazione». A questi si oppongono gli «antimovimenti sociali», nati
dal fallimento delle aspirazioni nazionaliste degli Stati che hanno
attraversato l’esperienza del colonialismo o della dipendenza
dall’Occidente. Utilizzano preferibilmente la causa religiosa
(fondamentalismo), linguistica o tradizionale come arma contro forze
ritenute ostili e lontane dal loro spirito. Gli antimovimenti sociali
sono caratterizzati dalla chiusura in comunità isolate, mossi soltanto
dalla volontà di prevaricare e distruggere l’altro, alla ricerca di una
riaffermazione identitaria.
La crisi che attanaglia l’Occidente
non ha solo carattere economico. Lo sviluppo delle tecnologie e delle
comunicazioni ha introdotto una nuova forma di potere totalizzante,
simile a quello delle dittature del XX secolo, ma più diffuso e
pervasivo. Il cambiamento è avvenuto sotto i nostri occhi: il
capitalismo finanziario ha sostituito quello produttivo. Siamo immersi
in un mondo immateriale che è possibile definire «società della
conoscenza», anziché della comunicazione.
In una sorta di
scansione temporale, la fase più recente della modernità si rivela
attraverso una sequenza in cui, a una società fortemente
industrializzata, succede quella definita postindustriale — espressione
che lo stesso Touraine aveva coniato in precedenza — dove il consumo
prevale sulla produzione. Ma, invece di postindustriale , adesso sarebbe
meglio parlare di società postsociale . Una società che non si
riconosce più per la capacità di modificare l’ambiente grazie alla
tecnologia, ma che è pienamente consapevole della propria creatività. La
definizione di postsociale , pur con le perplessità dovute all’uso
fuorviante del termine, riguarda una società aperta alla
globalizzazione, che utilizza la tecnologia, ma non ne è succube; che ha
maturato la dignità del soggetto e un forte senso di liberazione da
ogni condizionamento politico e religioso.
Questo perché «la
società si è ridotta a un ibrido, dove i conflitti sono spostati fuori
dal campo sociale». Infatti, se prima la società era caratterizzata
dall’opposizione interna delle classi, ora è avversata da forze esterne
al contesto sociale: per questo è postsociale . Ciò consente a Touraine
di liberarsi in un sol colpo del materialismo storico e di ogni dubbio
sulla secolarizzazione. Durante l’industrializzazione la parola d’ordine
era «solidarietà» tra i lavoratori, che si opponevano al dominio del
capitalismo. Adesso che — sociologicamente — non esiste più la classe
operaia, pur continuando a esistere gli operai, alla solidarietà si è
sostituito il diritto alla dignità. L’individuo, liberato da dipendenze
ideologiche, acquisisce la piena coscienza di sé come «portatore di
diritti umani universali».
Quanto alla secolarizzazione, cioè la
liberazione da influenze religiose, Touraine è ancora più categorico:
«Non ammetto che una società in possesso dell’esperienza della propria
creatività, possa desiderare di sottomettersi alle decisioni di un dio».
Ma non solo: «Qualsiasi richiamo a un principio sacro… non può essere
che un atto di forza di una minoranza priva di legittimità». È per la
piena autonomia individuale, dove questo termine è inteso nel suo senso
etimologico: che ha una propria legge ( nomos ) e che perciò non deve
sottostare a imposizioni limitative della sua libertà.
I diritti
umani universali devono collocarsi al di sopra delle istituzioni
politiche, persino al di sopra delle norme costituzionali e della legge.
Si può leggere come un superamento dell’idea hobbesiana di Stato
moderno, detentore di un potere assoluto sul cittadino, al quale offre
garanzie di sicurezza, stabilità e certezza in cambio della libertà.
Suona quasi come una liquidazione del passato; una sorta di «liberi
tutti», in attesa che una nuova entità ripristini il sistema
socio-politico e annunci che la ricreazione è finita.
Una
formulazione, a suo modo, rivoluzionaria, poiché rovescia il principio
machiavellico di Carl Schmitt, per cui il sovrano si pone al di sopra
delle leggi che egli stesso ha emanato: ora è il soggetto umano, il
singolo, l’uomo della strada, a venire prima di qualsiasi legge, mentre
le stesse norme — così come il sovrano, figura incoerente, vista
l’inutilità di «colui che sta più in alto di tutti» — si pongono
gerarchicamente al di sotto di lui. Il lavoro di Touraine presenta una
continua contrapposizione/alternanza tra ciò che è stato e ciò che deve
essere, secondo un principio volontaristico teso a realizzare una
società ideale: pur partendo dai sintomi del presente, non nasconde un
sottofondo utopico, venato di un sottile anarchismo che ammanta il suo
pensiero di uno smisurato senso di libertà. Se non immediata, almeno
auspicabile.