Corriere La Lettura 1.10.17
La noia creatrice
Questa è la condizione, diceva Hegel, in cui si ricerca l’ignoto
E, aggiungeva Leopardi, è qui che si coltiva l’infelicità da cui scaturisce la poesia
di Carlo Bordoni
Tutto
ha avuto inizio molto tempo fa. Forse Dio si annoiava e per questo ha
creato il mondo, dando inizio a una modalità contraddittoria di
considerare quel sentimento insopportabile che abbatte anche l’animo dei
più forti, rende abulici e insoddisfatti. Di sé e della propria
esistenza. Chiaro che l’attribuzione di una noia eterna a Dio, a
giustificare la creazione, non è che l’invenzione di chi intendeva
trovare un senso a una condizione di disagio. La noia è un attributo
strettamente umano e non c’è verso di riferirla a entità superiori. Ma
proprio perché umana, è bene cercare di vederla come qualità, piuttosto
che un difetto, e trovare una giustificazione alla sua esistenza.
La
noia è figlia dell’ozio. Se si risale nel tempo, alla latinità
classica, si scopre che otium e negotium ( nec-otium ) erano intimamente
connessi al comportamento umano. L’ o tium non era affatto il nulla, ma
l’occuparsi di sé, delle proprie attività private, della conoscenza,
del benessere. Il negotium era invece il lato estroverso di sé, la
gestione degli affari pubblici, della partecipazione politica, lo
scambio con gli altri. Sia l’ozio sia la noia hanno la possibilità di
rivelare inediti aspetti creativi nelle diverse modalità attuative: la
noia, a differenza dell’ozio, ha una marcia in più; possiede un’energia
dirompente che è capace di fare miracoli. Può accadere che spinga a
prendere decisioni insolite, a concepire idee rivoluzionarie, a
progettare qualcosa che in condizioni normali non si farebbe mai. La
creatività, allora, appartiene più alla noia che all’ozio.
La noia moderna
Eppure
la noia, così come la concepiamo oggi, è un concetto relativamente
recente, introdotto dalla modernità per una società tecnologizzata che
privilegia il lavoro, il rendimento e bandisce l’ozio, l’attesa, la
lentezza. Considera i tempi vuoti improduttivi e quindi socialmente
inutili, ma anche tendenzialmente «pericolosi», poiché lasciano il tempo
di riflettere. Nella divisione del lavoro sociale, il compito di
pensare è riservato ad altri. In questa logica della produttività, la
noia moderna è il nemico da sconfiggere. Per i bambini è un diritto non
riconosciuto dai genitori, che li costringono ad attività
extrascolastiche; per gli adulti un lusso che non possono concedersi,
per gli anziani una condanna avvilente inflitta dalla società.
Strano
destino, quello della noia: inventata dalla modernità e da questa
combattuta come un indesiderabile corpo estraneo. Lo spazio del «far
niente» è visto negativamente e i sistemi sociali — dalla religione alla
scuola — hanno cercato di scandire il tempo con attività organizzate,
precisando per ogni momento della giornata i compiti da svolgere, così
da impedire la noia, preludio all’indebolimento dello spirito, al cedere
a comportamenti viziosi o peccaminosi, se non a gesti violenti.
Gli
stati totalitari, che temevano più di ogni altro sistema politico la
libertà di pensiero, hanno sempre dato impulso alle attività
dopolavoristiche, organizzando il tempo libero con meticolosa
attenzione, regolando ferie e vacanze anche per i più giovani.
Con
la crisi della modernità, invece di combattere la noia, si riprendono
in considerazione i suoi benefici effetti; si recupera, per così dire,
il lato umano di questo sentimento, la consapevolezza di sé. Che è poi
il suo senso più antico, passato attraverso i secoli con connotazioni
diverse, a seconda delle esigenze sociali. Quando nel Medioevo prende il
nome di accidia, è sintomo di debolezza morale più che fisica, che per
quella società è un peccato mortale, poiché rompe i legami sociali,
causa l’inazione, la perdita della speranza e della fede. Dante colloca
gli accidiosi nel canto VII dell’ Inferno , sommersi nella palude Stige,
colpevoli di «un’ira lenta» nei confronti del mondo. Meno grave è la
«melancholia», versione rinascimentale dell’accidia. Invece
nell’Ottocento, ormai in piena modernità, la noia recupera in parte la
sua caratteristica nobile, propria degli artisti e dei geni,
riallacciandosi all’antico significato di otium . Hegel le attribuisce
il compito di ricercare l’ignoto; in Leopardi è l’infelicità da cui però
scaturisce la poesia. Il tardo romanticismo la vede in forma di spleen
con Baudelaire e Huysmans, effervescente di suggestioni poetiche, ma
anche desiderio di lasciarsi trasportare dalla vita con languido
struggimento. Definita da Heidegger «il tempo morto del sempre uguale»,
la noia del Novecento si avvicina all’angoscia, considerata un vuoto da
cui partire per «direzionare la propria vita altrove». Per Sartre
prelude alla nausea e assume lo stesso gusto di un’esistenza priva di
senso. Con Morin si collega al tempo libero e rientra nelle
problematiche del loisir , inoltrandosi nel consumismo, utile antidoto
alla noia e garante del progresso economico.
Gli antidoti
L’industrializzazione
ha sviluppato un’inedita contrapposizione tra tempo libero e tempo del
lavoro, che nelle società precedenti non aveva senso. L’aumento del
tempo libero ha posto il problema di come impiegarlo: non basta
riposarsi, divertirsi o viaggiare. Il tedio incalzante è fugato
dall’invenzione dell’hobby, passatempo moderno con cui distrarre la
mente e svolgere un lavoro non retribuito, più soddisfacente del lavoro
obbligatorio e ripetitivo.
Il successo dell’hobby compete con la
professione nella costruzione dell’identità individuale, si fa segno
distintivo e motivo di auto-affermazione. Dalla collezione di
francobolli al bricolage, nasconde un germe di creatività destinato a
crescere. Anche se inviso ad Adorno, perché fa pensare a un
comportamento paranoico — «La libertà organizzata è coatta, guai se non
hai un hobby, una occupazione per il tempo libero» — il più modesto
hobby ha aperto la strada al fai-da-te, eludendo l’intervento degli
intermediari. Dal ritirare denaro da un bancomat al prenotare alberghi e
biglietti aerei: modalità di lavoro gratuito, che la tecnologia e
internet hanno reso possibile, spazzando via l’hobby.
Ormai il
tempo libero è presidiato: più che dalla possibilità di svolgere
attività piacevoli, dall’ossessione a utilizzare servizi, informarsi e
comunicare, in uno stretto rapporto con la macchina che si sostituisce
all’umano nella quotidianità dei rapporti.
Le relazioni
uomo-macchina superano il tempo di quelle a contatto con altre persone
ed evitano la noia: è curioso come, a differenza delle interazioni
umane, rapportarsi con la macchina non sia noioso. Anzi, talmente
assorbente che non stupisce vedere persone chattare tra loro nella
stessa stanza o coppie sedute allo stesso tavolo che smanettano sul
telefonino senza guardarsi; viaggiatori che sui bus o sui treni evitano
di guardare dal finestrino, tutti presi dallo schermo luminoso, la nuova
finestra sul mondo.
La chiusura totalizzante nel rapporto
uomo-macchina, anche se può dare l’impressione di grande autonomia,
permettendo di svolgere attività utili che prevedevano lunghe attese e
costi, ha cancellato la noia e con essa ogni capacità creatrice che ne
poteva derivare.
Ha in sostanza perfezionato la finalità di
«controllo» della libertà di pensare che finora era stata svolta dal
lavoro materiale e dall’organizzazione del tempo libero della modernità.
Apatia e creatività
Se
si vuole essere creativi, bisogna recuperare una certa dose di noia
creatrice che era propria dell’ otium . È solo quando vi sono le
condizioni e il tempo di riflettere, recuperando il taedium vitae — che
per Seneca era l’opportunità di «frequentare se stessi» ( secum morari )
— che possono rivelarsi intuizioni preziose, soluzioni impreviste. Così
il cervello ha l’opportunità di «creare». Verbo affascinante, che apre
spiragli straordinari, connessi alla capacità umana di immaginare; verbo
tanto inquietante da essere censurato in certe comunità, poiché di
pertinenza esclusiva del divino. Eppure squisitamente umano: saper
creare è una qualità che appartiene a tutti e può rivelarsi in relazione
alle capacità individuali e all’occasionalità.
Il filosofo
francese Étienne Souriau sostiene che «per inventare è necessario
pensare a lato», tanto che il pensiero laterale o divergente, un
pensiero non rigido e persino stravagante, è considerato creativo per
eccellenza. Per emergere, ha bisogno di una condizione di «apatia», cioè
di assenza di pathos , di passione o partecipazione emotiva: ha bisogno
della noia. La mente libera, ma annoiata, è più predisposta a trovare
soluzioni. Non è strano che uno scrittore di fantascienza come Isaac
Asimov sia stato chiamato a far parte di una commissione incaricata di
studiare modalità «non convenzionali» per la difesa antimissilistica,
proprio perché in grado di offrire un pensiero non condizionato, a suo
modo apatico, in un contesto di specialisti. Lo racconta lo stesso
Asimov in un testo inedito del 1959, ritrovato casualmente, Come le
persone producono nuove idee , dove sostiene che la creatività è
strettamente individuale, dipendente dalle conoscenze pregresse e
dall’opportunità di metterle in relazione tra loro. Un’ipotesi non
sempre condivisa. Oggi che la conoscenza è più complessa e richiede un
bagaglio maggiore di saperi, si è portati a ritenere che la creatività
sia prodotta dal gruppo, non più dal singolo.
La creatività,
insomma, come istanza sociale, non conformista e priva di metodo;
qualcosa che ha a che fare col general intellect di cui parlava Marx.
Quel sapere condiviso e generalizzato che è patrimonio dell’intera
società. E che forse ha bisogno di un’immensa noia collettiva per creare
l’innovazione necessaria a migliorarsi.