Corriere 7.10.17
La sconfitta dello ius soli e gli interrogativi sui diritti
di Goffredo Buccini
Lo
ius soli è (quasi) morto. E sembra assai difficile che a rianimarlo
basti lo sciopero della fame di Graziano Delrio assieme a un gruppo di
parlamentari e comuni cittadini raccolti attorno all’appello dei
Radicali e di Luigi Manconi.
Salvo veri colpi di scena, il diritto
a essere italiani di ottocentomila bambini e ragazzi nati o cresciuti
tra noi non verrà riconosciuto in questa legislatura perché non ha più
maggioranza nel Paese prima ancora che al Senato. Troppo stretta la
finestra d’intervento nell’iter della legge di Stabilità; troppo alto il
rischio che, aprendola davvero, si abbattano venti di tempesta sul
governo Gentiloni (di cui peraltro Delrio fa parte). Ma è bene
sgomberare il campo dagli equivoci. Lo ius soli nostrano (certo
migliorabile ed emendabile, ma già assai temperato e accompagnato dallo
ius culturae) non è stato abbattuto dal sovranismo di Matteo Salvini o
dai ripensamenti di Angelino Alfano. E neppure dal pragmatismo un po’
cinico del Pd. Nemmeno la crisi economica e le ondate di sbarchi sono
state forse determinanti, perché il nostro Paese, al dunque, si era in
passato sempre dimostrato capace di aprire le braccia ai più deboli,
condividendo ciò che aveva.
Diciamolo chiaro. I diritti dei
giovani italiani di seconda generazione sono stati vittime del
terrorismo jihadista. Sei anni fa, il 71 per cento dell’opinione
pubblica era favorevole allo ius soli. Gli ultimi sondaggi danno questa
quota poco sopra il 40 per cento: un crollo senza precedenti. In mezzo
ci sono stati gli attentati in Europa che, da Charlie Hebdo in poi,
hanno assunto cadenza quasi mensile, mietendo centinaia di vite
innocenti nelle nostre strade e insinuando in ciascuno di noi il timore
dell’altro, specie quando l’altro proviene da una cultura aliena e
spesso ostile come è stata a lungo nella storia d’Italia la cultura
islamica. Perfettamente comprensibile, dunque, il rovesciamento del
sentimento collettivo che sull’anemica politica di questi tempi pesa,
attraverso i sondaggi, assai più delle idee, giuste o sbagliate che
siano. L’assassino di Marsiglia urlando «Allah u Akbar» sposta più di
mille analisi e concioni. Ma una politica saggia dovrebbe serbare la
capacità di toccare i cuori e le menti di una comunità, non inseguirne
la deriva emotiva.
Infatti se esiste un nesso tra gli attentati
terroristici in Europa e lo ius soli è un nesso al contrario: è
intuitivo che a maggiore integrazione corrisponda minor «rischio
banlieue», meno sacche di rancorosi esclusi nelle nostre periferie, e
zero o quasi zero rischio multiculturale poiché nell’impianto normativo
italiano non sarebbero riconosciute sacche di ambiguità «all’inglese»,
con la sharia infilata di soppiatto a regolare i rapporti privati.
Ai
nuovi concittadini si sarebbe chiesto di giurare sulla Costituzione, di
conoscere la nostra lingua, di fare da ponte con le loro famiglie,
migranti di prima generazione, rendendole a noi più prossime e
comprensibili. In cambio si sarebbe dato loro ciò che oggi non hanno,
pur vivendo nelle case e nelle scuole d’Italia sin da bambini: la
possibilità di partecipare a concorsi pubblici e iscriversi ad albi
professionali senza intoppi, di gareggiare col tricolore sul petto, di
non essere costretti ad attendere dai quattro ai sei anni (questi sono i
tempi veri, raccontano in molti, e con file estenuanti all’ufficio
stranieri della questura) per ottenere forse, infine, l’agognato
passaporto.
È assai probabile che tutto ciò non succederà,
colpendo l’integrazione non di chi sta arrivando sui barconi ma di chi è
già tra noi da dieci o venti anni. Il fatto che la componente islamica
rappresenti soltanto un terzo della platea dello ius soli (ci sono
cattolici, ortodossi, buddhisti e, immaginiamo, …atei) aggiunge un tocco
di surreale ingiustizia al quadro. La compressione dei diritti
individuali e delle soggettività dentro macro-categorie spirituali
(l’orientamento religioso del Paese d’origine pare assorbire l’identità
personale come se non fossero passati quattro secoli e mezzo dal « cuius
regio eius religio» che attribuiva al suddito la fede del suo signore)
suona infine come una abdicazione ai principi liberali.
Tant’è.
Per superare ciò che in casa Pd chiamano realpolitik ma somiglia assai a
una navigazione a vista, occorrerebbe non uno sciopero della fame ma un
politico così forte e credibile da poter dire ai suoi concittadini:
fidatevi di me e seguitemi, la strada giusta non è quella che voi
credete. La più prossima a questo identikit è Angela Merkel, e persino
lei ha pagato un altissimo prezzo elettorale alle sue aperture sui
rifugiati siriani. I nostri politici continuano a ispirarsi a quel
fantastico caleidoscopio dei caratteri italici che ci donò Manzoni: «Il
buonsenso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».
Si parlava di peste e untori, pare scritto ieri.