giovedì 5 ottobre 2017

Corriere 5.10.17
Due leader troppo diversi
D’Alema e Pisapia divisi su tutto sin da quando il primo era presidente del Consiglio e decise l’intervento in Kosovo
di Aldo Cazzullo

«Non dovete chiedere a Pisapia se candida me, dovete chiedere a me se candido Pisapia». «Quando D’Alema faceva la guerra in Kosovo, io partivo per il Kosovo a lavorare in un campo profughi».
Come Massimo D’Alema e Giuliano Pisapia potessero essere il fondatore e il leader del nuovo partito della sinistra, è un mistero che lo scontro di ieri ha forse risolto: sono troppo diversi.
Troppo diverse le loro storie, le loro idee della politica, dell’Italia, del mondo. Anche se il punto di partenza è lo stesso: la primavera del 1949 (Pisapia è del 20 maggio, D’Alema del 20 aprile).
Pisapia è figlio della borghesia milanese delle professioni e dei diritti, che gli avversari definiscono radical chic. Suo padre Gian Domenico era un avvocato importante, lui è un avvocato importante («ineffabile» dice D’Alema). D’Alema è figlio del partito. Suo padre Giuseppe fu mandato a dirigere la Resistenza nel Ravennate, al posto di capi partigiani che erano stati fucilati; ma la vera comunista togliattiana era la madre, donna forte e asciutta («io somiglio a mamma»). Pisapia ha avuto come insegnante di religione al Berchet don Giussani ma è cresciuto nel mito di don Milani: «Andai a Barbiana per incontrarlo, era già molto malato. Dormo con la Lettera a una professoressa sul comodino, sul leggìo in salotto tengo un altro suo libro: L’obbedienza non è più una virtù ». D’Alema è cresciuto all’ombra di Berlinguer, gli ha anche dedicato un saggio, A Mosca l’ultima volta , in cui il segretario prima di morire confida al futuro successore i tre segreti del socialismo reale: «“I dirigenti mentono. Sempre, anche quando non sarebbe necessario. L’agricoltura non funziona. Mai, in nessuno di questi Paesi. E le caramelle hanno sempre la carta attaccata”. E fece con le dita il gesto di stropicciarsele, come se dovesse liberarsi appunto di una carta appiccicosa». Ma prima ancora D’Alema aveva conosciuto e ammirato Togliatti: aveva dieci anni, era il capo dei pionieri del partito, e il Migliore lo autorizzò a occupare con i compagni una sezione del Pci per farne la loro sede, «se necessario forzando la porta con un piede di porco» (il piccolo Massimo pensò a una zampa di suino. Non ci sono conferme invece della leggenda secondo cui Togliatti, incantato di fronte a un suo precoce discorso, avrebbe detto: «Non è un bambino, è un nano»). In quegli anni, il piccolo Giuliano era negli scout.
Insomma: Pisapia nasce uomo di movimenti; D’Alema uomo di partito. Ma il vero scontro l’ebbero quando cadde Prodi e il primo postcomunista entrò a Palazzo Chigi. Rifondazione, nei cui scranni sedeva Pisapia, si divise; e lui prima negò la fiducia al governo D’Alema «fondato sul trasformismo», poi avversò il suo gesto politicamente più impegnativo, l’intervento contro la Serbia di Miloševic.
Ora l’uomo che li separa è Renzi. Pisapia non gli è pregiudizialmente ostile. Ha votato Sì al referendum . Ha proposto un accordo con il Pd in Sicilia. Sostiene la necessità di allearsi alle prossime elezioni, che per il centrosinistra saranno difficilissime. D’Alema invece è il più antirenziano di tutti. Al referendum ha fatto campagna per il No ed esultato per la vittoria. «Finché sarò vivo, Renzi non potrà stare sereno» lo maledisse quest’estate, per poi correggersi solo all’ap parenza: «Non infierisco con gli uomini in difficoltà, non lo feci neppure con Craxi», che com’è noto fu operato, morì e riposa in Tunisia.
Qualche punto in comune ci sareb be. Ad esempio il rapporto con i grillini. Nessuno dei due li demonizza. Il loro progetto sarebbe riconquistarne alla sinistra almeno una parte. Pisapia fa notare che nella sua Milano i Cinque Stelle non hanno mai sfondato, anche perché la sua giunta aveva in parte saputo intercettarne la radicalità. D’Alema lega il successo di Grillo alla crescita delle disuguaglianze, «all’ingiustizia inaccettabile per cui se un artigiano non paga il mutuo gli portano via la casa, se un imprenditore fa un buco di un miliardo lo ripianano le banche».
Eppure la nuova forza senza nome alla sinistra del Pd rischia di essere ben poco attrattiva per i delusi del renzismo. Il rischio che appaia un’operazione di ceto politico, pref eribilmente adulto e maschile, esiste. Per questo Pisapia chiede a Mdp di sciogliersi in un progetto più ampio, e D’Alema gli risponde: «Non siamo ancora nati, e già vorrebbe sopprimerci». Tabacci, navigatore democristiano di lungo corso approdato alla sinistra dura e pura, è sconsolato: «Quei due sono come Vettel e Raikkonen, che si scontrano a inizio corsa e si mettono fuori gara da soli». E Gad Lerner, altro consigliere di Pisapia, ammette gesti apotropaici: «Quando D’Alema dice che Giuliano è il leader, noi subito ci tocchiamo».