Corriere 30.10.17
La meritocrazia cinese lezione contraddittoria
di Roger Abravanel
In
questi giorni si chiude il 19mo congresso del Partito comunista cinese
(Pcc) e i media si sono concentrati sulla leadership di Xi Jinping. Poco
si è parlato della selezione del comitato permanente del partito, le
venti persone che governeranno il Paese per i prossimi 5 anni e in
generale di tutti i dirigenti del partito, i 2000 rappresentanti dei 90
milioni di cinesi iscritti al Pcc e i 300 tra loro che siedono nel
comitato centrale.
Osservatori informati sostengono che tale
processo è diventato estremamente meritocratico. Se alla fine del secolo
scorso i laureati cinesi snobbavano il partito, oggi nelle università
di elite come la Tsinghua, i migliori laureati si fanno una concorrenza
spietata per entrarci. E anche l’avanzamento di carriera sembra un
processo meritocratico. Li Yuanchao, ministro del dipartimento
organizzazione del comitato centrale, ha raccontato come viene eletto il
suo segretario generale. I 10 candidati con più nomine fanno un esame
molto difficile, i cui risultati e documentazione sono resi pubblici. I 5
candidati che superano l’esame sono poi interrogati da un panel
composto da ministri, viceministri e professori universitari. I tre di
essi con il maggior punteggio vengono poi «ispezionati» da un team che
indaga sulla loro performance e sulle loro qualità personali. I due
finalisti vengono valutati da 12 ministri, ognuno con un voto e sono
richiesti 8 voti per la nomina. Tutte le promozioni del Pcc avvengono
con processi più o meno simili, ai livelli più bassi conta di più il
rapporto con i cittadini (una specie di democrazia), ma man mano che si
sale a livelli più alti il «merito» è definito come razionalità,
intelligenza, pragmatismo ed etica (la lotta alla corruzione rampante è
stata la priorità di Xi) .
Il curriculum di Xi Jinping è
emblematico: pur avendo gestito un’area di 120 milioni di persone nelle
province di Fujianm, Zhejang e Shanghai e una economia più grande di
quella indiana, ha dovuto fare anticamera per 5 anni come vicepresidente
del partito per imparare i problemi della difesa e della politica
internazionale. Non solo, ma (teoricamente) Xi ha davanti a sé solo un
altro term di 5 anni, sapendo che deve iniziare a preparare la sua
successione.
Secondo gli esperti, la meritocrazia è sempre stata
presente nella cultura politica cinese. Confucio riteneva che una
selezione fosse necessaria perché non tutti avevano la abilità e i
valori morali per prendere decisioni nell’interesse del popolo; dal 600
al 1900, i «mandarini» (funzionari pubblici) furono selezionati in base
ai loro meriti attraverso esami imperiali estremamente rigorosi. Dopo
Mao, i dirigenti cinesi hanno deciso di tornare agli antichi valori
della meritocrazia nella politica e, negli ultimi 30 anni, migliaia di
loro hanno viaggiato a Singapore per studiare il modello di meritocrazia
creato da Lee Huan Kiew e adattarlo a una realtà immensamente più
grande.
Ovviamente non è tutto oro ciò che luccica, nepotismo,
lotte tra fazioni («cricche e gang») e corruzione sono ancora ben
presenti, ma l’impatto della meritocrazia cinese sulle politiche
economiche si vede: 200 milioni di persone sono state tolte dalla
povertà.
Diversa è la situazione nelle democrazie occidentali dove
i politici sono screditati quasi ovunque, anche prima dell’avvento di
Donald Trump. Chi prende voti non sempre lo fa perché è considerato più
capace e onesto di altri, ma perché fa promesse irrealizzabili o si
appella ai pregiudizi e all’ignoranza dei votanti. Eppure, anche se
sempre meno visibili, i vantaggi della democrazia continuano a esistere
perché, in teoria, si permette al popolo di correggere gli abusi
commessi dagli eletti, cosa non possibile in Cina e a Singapore.
I
politologi del mondo occidentale da tempo si pongono il problema se
democrazia e meritocrazia siano conciliabili nel senso che in una
democrazia è più difficile la selezione per merito dei politici che in
dittature quali quella cinese, ma non sono ancora giunti a molte
conclusioni come dimostrato dal fatto che esistono centinaia di saggi
sulla teoria e pratica della democrazia, ma non uno sulla meritocrazia
in politica.
Da noi il tema della meritocrazia in politica è stato
affrontato (indirettamente) negli eterni dibattiti sulla legge
elettorale, quando si discute se i parlamentari debbano essere indicati
dal vertice del partito o scelti dagli elettori tramite le preferenze.
Queste ultime sono appoggiate dagli opinionisti e dai media convinti che
sono più meritocratiche, ma esistono seri dubbi che lo siano veramente:
al di là di poche figure di leader, la maggioranza dei parlamentari si
fa conoscere agli elettori soprattutto per le sue attività clientelari .
È per questa ragione che gli italiani votarono in massa un referendum
per abolire le preferenze nel 1991. Pare che se lo siano dimenticati
tutti.
La conclusione è che la meritocrazia nella politica in
Italia la può fare solo il partito e non la legge elettorale che sarà
sempre un pastrocchio il cui obbiettivo resta solo quello di cercare di
ottenere un minimo di governabilità del Paese. Purtroppo è improbabile
che alle prossime elezioni i partiti si presenteranno non solo su
«programmi» (ai quali credono in pochi) ma anche con candidati
presentabili sul fronte del merito.
Ma, se la nostra democrazia
non può copiare la meritocrazia politica cinese nella selezione dei
politici, può farlo nella selezione dei dirigenti della Pubblica
amministrazione (Pa). Mentre in Cina i politici sono de facto i
dirigenti della Pa perché non esiste un parlamento, da noi si è fatto il
contrario, «politicizzando» i dirigenti della Pa.
Innanzitutto
creando una classe ipertrofica di politici locali con il federalismo
scellerato delle Regioni (che non hanno nulla a che fare con le province
cinesi — molte sono più grandi dell’Italia), per dare indirizzi
regionali a politiche come l’ambiente e l’energia che dovrebbero essere
gestite a livello europeo. Per avere più meritocrazia nella Pa
basterebbe ridimensionare la politica a livello regionale e lasciare
pochi funzionari competenti sul territorio. Abbiamo poi politicizzato le
nomine dei dirigenti della Pa copiando il modello anglosassone dello
spoil system che permette nei sei mesi successivi alla nomina di un
nuovo governo di sostituire i vertici della Pa, ma ci siamo vergognati
di applicarlo. Potremmo forse iniziare a sfruttarlo, magari valutandoli
prima con processi robusti simili a quelli del Pcc.