lunedì 30 ottobre 2017

Corriere 30.10.17
Biografie «Il Capo» di Marco Mondini (il Mulino) ne ricostruisce la figura attraverso testimonianze, epistolari e le carte della Commissione d’inchiesta sulla disfatta
Cadorna , le ossessioni di un generale
Convinto di essere infallibile, maniaco del rigore, sottovalutò i rischi e fu sconfitto a Caporetto
di Corrado Stajano

Appariva malinconico Carlo Emilio Gadda a chi lo incontrò più di mezzo secolo dopo la fine della Grande guerra nel suo piccolo studio romano di via Blumenstihl, l’appartamento di un impiegato d’ordine. Era un pomeriggio d’ottobre, l’occasione era Caporetto, la sua ossessione, una piaga mai rimarginata. Sul tavolo teneva davanti a sé due libri, L’Italia nella Prima guerra mondiale di Piero Pieri e Isonzo 1917 di Mario Silvestri, le sue bibbie, allora. Ogni anno, in quei giorni d’autunno, era più cupo del solito, parato a lutto, i suoi amici lo sapevano e stavano alla larga.
Il suo doloroso Diario di guerra e di prigionia era uscito nel 1965 da Einaudi, il Taccuino di Caporetto uscì, da Garzanti, solo nel 1991, 18 anni dopo la sua morte. L’aveva affidato al suo grande amico, Alessandro Bonsanti, «perché lo custodisse nel più rigoroso segreto». Temeva probabilmente le reazioni che avrebbero suscitato certi suoi giudizi. Bonsanti fu ancor più prudente dell’amico. Il Taccuino di Caporetto , malconosciuto anche adesso, di grande rilievo umano e letterario, una delle memorie più alte e tragiche scritte su Caporetto, è stato pubblicato, arricchito da una nota di Dante Isella, dai figli di Bonsanti, Giorgio e Sandra, anni dopo la morte del padre.
La ritirata, il dolore, la morte. Nel Taccuino Gadda, ufficiale del 5° Alpini, racconta di quando Stefano Sassella, il suo attendente, un contadino valtellinese di Grosio, gli consegnò, il 24 ottobre 1917, l’ordine di ritirata: «Lasciare il Monte Nero! Questa mitica rupe, costata tanto e presso di lei il Wrata, il Vrsic: lasciare, ritirarsi; dopo due anni di sangue. Attraversai un momento di stupore demenziale, di accoramento che m’annientò. Ma Sassella incalzava: “Signor tenente bisogna far presto” (...) Mi riscossi: credo non esser stato dissimile dai cadaveri che la notte sola copriva».
Questa amarissima pagina è affiorata alla memoria leggendo — anche se l’autore non ne fa cenno — il libro prezioso e intelligente di Marco Mondini, Il Capo. La Grande guerra del generale Luigi Cadorna . Storico militare, professore all’Università di Padova, ha scavato soprattutto nei libroni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla condotta della guerra, ma non ha trascurato nulla, documenti, testimonianze di rilievo e anche minute, epistolari, inchieste e libri, naturalmente, una bibliografia smisurata. La sua è una ricerca insolita anche nello stile, ben scritta, evento non comune tra gli storici nostrani. Il libro non è soltanto l’opera di uno storico agguerrito. A volte sembra anche la seduta di uno psicanalista che sul lettino al suo fianco ha, come paziente, il generalissimo che nel 1924 Mussolini nominò maresciallo d’Italia, insieme con Armando Diaz. (Il vincitore del Piave ebbe in più anche il titolo di duca della Vittoria).
Il Capo è la storia di un generale padreterno dell’io, uno che ritiene di non sbagliare mai, e se le cose non funzionano è sempre alla ricerca di capri espiatori. Senza alcuna fiducia nei suoi soldati, non sa quali possano essere i rapporti umani e ritiene unico rimedio alla sconfitta o ai disguidi anche di minor conto, la punizione, la fucilazione, il siluramento degli ufficiali, la repressione come unica forma di comando. Un esempio, tra i tanti: Cadorna concesse al colonnello comandante del 141° fanteria l’onore di un encomio solenne e la citazione all’ordine del giorno dell’esercito per aver decimato una compagnia del reggimento accusata nel 1916 di sbandamento nel settore dell’altopiano di Asiago. Il colonnello farà rapidamente una fulgida carriera. (Nel 1917 è già generale di divisione). Decimazioni, mitragliatrici che sparano alle spalle delle truppe per spingere all’assalto i soldati riottosi, un generale, Andrea Graziani, noto come «il fucilatore» che durante la rotta di Caporetto è il responsabile di 35 esecuzioni sommarie completano il quadro dell’orrore.
Ma il libro non è soltanto la biografia di un uomo dal carattere dittatoriale, è la storia di una guerra, di un popolo, di una nazione non nata, di un esercito di contadini in grigioverde, analfabeti i più, che di tradotta in tradotta non sanno neppure dove si trovano, altro che ultima guerra del Risorgimento, lo slogan urlato dagli interventisti, qui trascurati. Mondini fa di continuo il punto sui rapporti tra i militari e i politici considerati troppo deboli o troppo liberali. Cadorna non ha sempre tutti i torti. Non viene neppure informato dal governo della dichiarazione di neutralità, del cambio di alleanza: il nemico non è più la Francia, ma l’Austria.
Lo storico spiega com’è l’opinione pubblica dell’epoca, scrive di Luigi Albertini, il direttore del «Corriere della Sera» e del suo feticismo per quell’uomo d’armi, scrive dei fedeli giornalisti embedded , Barzini, Fraccaroli, Ugo Ojetti che nei loro articoli esaltano Cadorna come un messia.
Mondini non trascura di analizzare i comportamenti degli Stati maggiori degli eserciti alleati o nemici e delle loro crudeltà, non soltanto italiane. Non ha preconcetti, non è né settario, né assolutista, non nasconde i meriti del generalissimo, quando esistono, raramente.
Luigi Cadorna nasce a Pallanza, sul Lago Maggiore, nel 1850, in una famiglia dell’alta borghesia di tradizioni militari, legata alla monarchia sabauda. Nel 1875, Vittorio Emanuele II ha concesso alla famiglia il titolo di conte cui il generale tiene molto. Nella vita non ha difficoltà, fino a Caporetto, disfatta priva di autocritica. Suo padre, Raffaele Cadorna, è il generale della famosa breccia di Porta Pia del 1870. Una scaramuccia con poche perdite. I 13.157 soldati del Papa si arrendono e accumulano fucili e mitraglie in piazza San Pietro e il Regio esercito rende loro l’onore delle armi. Chissà perché. La carriera di Luigi non ha inciampi, Collegio militare di Milano, Accademia di Torino, Scuola di guerra, Corpo di Stato maggiore. Nel 1898 è generale, più che le caserme frequenta gli uffici. Nel 1914 è nominato capo di Stato maggiore, comandante supremo.
Le sue manchevolezze sono caratteriali e culturali. Cattolico conservatore, più che cristiano, manca di ogni capacità di analisi psicologica. La moderazione non è pane per i suoi denti, detesta le discussioni, è maniacalmente sospettoso, rifiuta l’idea di un Consiglio di guerra, si fida di pochi, è «convinto della propria infallibilità (o ossessionato dall’impossibilità di ammettere i propri errori)» scrive Mondini. Basta leggere le prime righe del comunicato del Comando supremo emesso il 28 ottobre 1917, il n. 586, per capire le doti di grande e generoso condottiero di Luigi Cadorna: «La mancata resistenza di riparti della 2ª Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico (...)», cui seguirono fucilazioni, decimazioni di uomini innocenti rimasti senza ordini, alla ventura.
La commissione d’inchiesta su Caporetto lo definirà, in atti ufficiali, orgoglioso, impulsivo, egocentrico, isolato dal mondo circostante a causa della sua megalomania. Si infuria per quei giudizi, ritiene di essere un capo paterno. Il culto della personalità che nel primo periodo del suo comando gli ha fatto da angelo custode non gli giova: anche il vate guerriero nazionale, Gabriele d’Annunzio, gli ha dedicato un’ode non mirabile: «(...) Tu lo vedi al segnale delle trombe/sollevare e sferrare i battaglioni (...)». È terrorizzato dalle sconfitte del passato, Novara, Custoza, Lissa. Il padre eroe di Porta Pia è un modello che gli fa da pungolo e insieme lo inquieta. Il modo di pensare di Cadorna non si adatta ai profondi mutamenti di una guerra che sarebbe stata lunga e sanguinosa, priva di ogni reminiscenza risorgimentale — baionetta, fucile, cavallo, sciabola lucente, bandiera al vento — ed è condizionata invece soltanto dalla potenza industriale del Paese.
Cadorna è convinto che la guerra sarà costosa, impegnativa, lunga. Ha il culto della guerra offensiva, il suo dio è la disciplina assoluta, un dogma: «La disciplina», riesce a dire in una circolare del primo anno di guerra, «è la fiamma spirituale della vittoria». Vieta anche, dopo lunghi periodi di trincea, le licenze ai soldati, terrorizzato che a casa raccontino verità nascoste, non si cura neppure di capire la stanchezza degli uomini che combattono da anni in anfratti di montagna, su picchi impressionanti solo a vederli. Punisce — il siluramento — un’infinità di generali e di ufficiali superiori, sguarnisce reggimenti, divisioni, corpi d’armata, armate, anche alla vigilia di una battaglia. Le motivazioni sono precarie, spesso mascherano i propri insuccessi. Per gli ufficiali è una spada di Damocle. Timorosi di essere esonerati (con un telegramma), per conquistare la fiducia del capo commettono a loro volta gravi errori. Il governo è preoccupato. (Mondini non accenna al XXVII Corpo di Badoglio e alle polemiche che ci furono).
Perché Caporetto? Per tutto questo. Per gli esoneri di massa con la sostituzione di ufficiali brillanti con favoriti soltanto fedeli. Per la mancanza di un piano difensivo e di un progetto di ritirata. Per la sottovalutata stanchezza dei soldati. Per la polemica continua con i socialisti, con Giolitti, con Benedetto XV, il Papa dell’«inutile strage»: sarebbe stato necessario piuttosto costruire un esercito con pazienza e umanità. E poi per la mancanza, fin dall’inizio, di un professionale ufficio informazioni incapace di sapere e di capire quel che stavano facendo i tedeschi e gli austriaci, per il clima cortigiano del Castello di Udine, il pirandelliano Comando supremo dove il capo non discute con nessuno, solo con un segretario.
Non ci fu nessuno sciopero militare, come si disse, nessun tradimento. Diaz sul Piave usò diplomazia, mediazione, prudenza, buon senso. E seppe creare nei salvati dal massacro quel sussulto di dignità che portò a Vittorio Veneto.